lunedì 3 ottobre 2022

Riflessioni d’attualità su due tributi di Vittorio Barzoni ad Angelo Emo

di Riccardo Pasqualin

In questi giorni ho ripreso a lavorare alle bozze di un nuovo studio sullo scrittore tradizionalista bresciano Vittorio Barzoni (1767-1843), legittimista veneto e acerrimo nemico di Napoleone. La sua vita di esili e battaglie è degna di un romanzo. 

Questo polemista lombardo fu autore di due scritti dedicati all’ammiraglio veneziano Angelo Emo (1731-1792): l’elogio funebre Tributo di un solitario alla tomba di Angelo Emo, pubblicato nel 1792, e la Lettera sopra il monumento di Angelo Emo scolpito da Canova, di tre anni successiva. 

Il tributo è la prima opera di Barzoni e fornisce un quadro delle imprese del condottiero. La carriera dell’Emo iniziò con una missione in Portogallo, nel 1758, quando aveva il grado di “sopracomito”. Durante quella spedizione affrontò un fortunale portando in salvo la sua nave e l’equipaggio, dando prova di possedere una preparazione non comune. Nel 1760 fu premiato con la carica di Provveditore alla Sanità e nel 1761 divenne Savio esecutore alle Acque. Quattro anni più tardi, da vice ammiraglio, guidò la guerra navale contro i pirati del Nordafrica e costrinse il bey di Algeri a siglare un accordo di pace. 

Promosso ammiraglio riorganizzò la flotta veneta introducendo nuovi modelli di navi militari e tattiche belliche, istituendo anche una scuola di pilotaggio al passo con i tempi. Quando il Senato dichiarò guerra al bey di Tunisi Hammuda ibn Ali (1759-1814, in carica dal 1782 alla morte), Emo, a capo di una flotta di soli sette vascelli, si diresse verso l’Africa aggiungendo alla sua squadra navigli sopraggiunti dall’Istria, dalla Dalmazia e da Corfù. Nel canale di Sicilia il corpo di spedizione contava ventiquattro scafi, che assediarono Tunisi e Susa fino all’inizio della brutta stagione, quando i veneziani andarono a svernare a Trapani. Il 30 aprile 1785 la spedizione punitiva ripartì con una grande novità: La Goletta fu bombardata da batterie galleggianti che si mossero alla perfezione, destando lo stupore delle altre marine mediterranee. Si trattava di zattere difese da sacchi di sabbia e armate di cannoni di grosso calibro od obici, le quali potevano raggiungere agevolmente anche i fondali bassi, risultando efficacissime. Potenzialmente questa strategia era ottimale anche per preparare uno sbarco con incursioni sulla terra ferma o un’invasione vera e propria. Dopo aver trascorso l’inverno a Malta, i veneti sferrarono un secondo attacco che portò alla resa di Sfax (impresa in cui in precedenza i francesi avevano fallito), bombardata con mille proiettili, e alla distruzione di Biserta e Susa, costringendo il bey, «il tiranno di Tunisi», alla capitolazione. Questo trionfo valse all’ammiraglio la nomina di Procuratore di San Marco, e pareva che egli fosse davvero l’uomo giusto per fermare la decadenza di Venezia. Tuttavia nel 1792, mentre si trovava a Malta, l’Emo fu colpito da un grave malessere che lo portò rapidamente alla morte. Il corpo imbalsamato dell’eroe giunse in laguna il 24 maggio, trasportato dalla nave ammiraglia La Fama, e il giorno dopo fu tumulato nella chiesa dei Servi (oggi demolita). Nel 1794, nell’arsenale, fu posta una statua in suo ricordo, commissionata dal governo ad Antonio Canova. 

Barzoni descrisse la morte del marinaio come il pianto di un intero popolo che aveva creduto in lui, «Guerriero invitto», flagello dei maomettani, nome temuto dai barbari: «Illanguidita la Veneta marina da lunga pace, avea bisogno di chi la richiamasse a quel grado formidabile di maestà e di vigore, che la fece un giorno rispettare fin sugli ultimi limiti del mondo». Con questi pensieri celebrativi, Barzoni non intendeva limitarsi a elogiare un uomo che si era consumato per Venezia, ma porre un serio monito ai governanti della Repubblica, affinché tornassero a vigilare saldamente sulle sorti delle comunità che la Provvidenza aveva posto sotto la loro tutela. 

Quando Barzoni vide stampato il suo secondo scritto che abbiamo citato, però, i segni tangibili dell’avvento di una grande disgrazia si erano già manifestati: nel 1794 il diplomatico francese Jean Baptiste Lallement, come nuovo incaricato a rappresentare il governo rivoluzionario presso la Serenissima, tenne il suo discorso ufficiale di insediamento davanti al Collegio dei Savi, chiedendo apertamente una dichiarazione di neutralità e l’impegno a farla rispettare. Ottenne il gradimento dei corrotti politici di quel tempo, e sarebbe sbagliato credere che nessuno tra questi capisse che la rivoluzione sarebbe presto arrivata fino alle porte di Palazzo Ducale. 

Queste vicende passate dovrebbero allarmarci sul presente, i rapporti che legano i demagoghi italici e alcune entità politiche musulmane direttamente coinvolte nei finanziamenti ai gruppi terroristici jihadisti sono un tema che negli ultimi anni è emerso a sprazzi persino sui telegiornali. Anche nel descrivere il terrorismo musulmano, però, le analisi dei giornalisti e degli opinionisti progressisti sono contrassegnate da toni apologetici indecenti, di assoluzione almeno parziale di tutte le parti in causa. Da molti anni tra gli italiani c’è chi giustifica ogni concessione al maomettismo, e in ultima istanza l’accettazione dell’invasione islamica, asserendo che questa condotta eviterebbe il rischio di attentati, proteggendo la popolazione. Ancor più penoso è l’atteggiamento di quei tanti sprovveduti che anche davanti all’evidenza mostrano la più completa incapacità nel collegare eventi e date, che da soli basterebbero ad aprirgli gli occhi sulla minaccia che incombe su tutto il continente europeo. Meditando sui due scritti del Barzoni e sull’attualità, ho colto una straordinaria somiglianza tra il panorama di indegnità morale che caratterizza la politica estera (e interna) italica e quanto avveniva nel diciassettesimo e soprattutto nel diciottesimo secolo fra la Repubblica Veneta e i bey dell’Africa settentrionale. 

Prima della rivincita portata da Angelo Emo, i veneziani tentarono più volte di salvare i loro commerci e di evitare le aggressioni alle loro navi pagando tributi ai barbareschi, ma i loro legni continuarono a essere assaltati e saccheggiati. Quando giungevano le proteste dei veneti, i maomettani si difendevano rispondendo che la tregua veniva violata da pirati che agivano in maniera indipendente rispetto ai corsari foraggiati dal governo ottomano. Ed è esattamente ciò che oggi rispondono gli ambiguissimi “musulmani moderati” quando devono esporsi coi giornalisti: «sono solo lupi solitari», «pazzi isolati», «gruppi di esaltati», disomogeneità dottrinali e culturali all’interno dell’islam… e alla fine i tribunali liberano tutti. 

Tuttavia è chiaro che se i senatori veneziani della decadenza, imbelli e imbecilli, riuscirono almeno a tenere l’islam fuori dai confini che la Repubblica ebbe con la Pace di Passarowitz (21 luglio 1718), oggi i politici italici hanno concesso l’utilizzo dell’intero territorio del “loro” stato come autostrada per il continente, cercando di garantirsi qualche guadagno, favorendo tuttavia gli spostamenti dei terroristi musulmani, ma soprattutto la conquista silenziosa della Penisola. «Serve manodopera», «mandano avanti l’economia»… meglio sarebbe piombare nella povertà, magari sarebbe una buona medicina morale. Manca un Emo, mancano la resistenza e la rivalsa. 

Di pericolo islamizzazione si parla solo nei giorni immediatamente successivi a qualche grande caso di cronaca nera, come se questi crimini reiterati non avessero delle cause. L’unico argomento che è sempre presente e tiene banco in ogni dibattito sui media italiani è il fazionismo di partito, lo scontro tra sette. Davanti a questi odi civili inestinguibili, la domanda è spontanea: cosa viene prima per “l’italiano medio”? La risposta è scontata: per molti la setta partitica viene sempre al primo posto e ogni setta considera dei subumani i membri delle altre, senza alcuna distinzione tra le idee e gli esseri umani che ne sono portatori. Se anche un partito inserisse nel suo programma un colossale suicidio di massa, i suoi ciechi servitori non si tirerebbero indietro e si immolerebbero prontamente con in mano il loro foglietto di carta con sopra la solita “X” da analfabeta. 

Possibile che non ci si renda conto che la divisione in sette di partito non corrisponde affatto a delle fedi morali, né tanto meno politiche, ma a consorterie di interessi privati? Possibile che non si riesca a capire che la ricerca del «quieto vivere» è una condanna a morte?

Il perdurare della pantomima partitica danneggerà irrimediabilmente tutti, ma anche gli stessi interessi privati dei demagoghi che la muovono (se questo può consolarci). Purtroppo viviamo nell’epoca degli spensierati di Sion (Am 6, 1) i quali, impegnati nell’orgia dissoluta del partitismo, non si preoccupano della rovina degli altri, né della loro… ma la montagna di Samaria, che gli illusi scollegati dalla realtà credono una fortezza, non è un luogo sicuro. 

Nella foto: Antonio Canova, Stele Emo al Museo Navale (Venezia). 


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