giovedì 4 maggio 2017

Il seminarista rosso. L’infiltrazione marxista nella Chiesa

Gianandrea de Antonellis

Il seminarista rosso

L’infiltrazione marxista nella Chiesa


Una volta c’erano i preti operai: oggi quegli
stessi preti sono diventati vescovi.
Paolo Ferrante, 1990.

Secondo Stalin, la forza politica più pericolosa 
per i comunisti è la Chiesa cattolica,
e per colpire questo temibile «avversario» 
suggerisce di «non attaccare» direttamente 
la religione, ma le sue organizzazioni.[1]


La deriva modernista della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Ma, nonostante la distruzione dei dogmi, dei princìpi, dei simboli sia costante, nessuno interviene. E nessuno, soprattutto, la denuncia per quello che è: l’imporsi di una dottrina già ufficialmente condannata da San Pio X nell’enciclica Pascendi (1907). Dal Vaticano II in poi il modernismo, sotto diverso nome, senza mai usare questo termine, perché avrebbe esplicitato l’eresia sottintesa allo strombazzato “spirito del Concilio”, ha imperato nella vita ecclesiastica: introduzione del Novus Ordo, abolizione dei paramenti, introduzione della tavola eucaristica di fronte (ma più spesso al posto) dell’altare principale ed eliminazione (cioè, distruzione) di quelli laterali, eliminazione della balaustra e conseguente banalizzazione dell’eucarestia (comunione nella mano o sotto le due specie), sostituzione dei canti gregoriani con canzonette pop, chitarre al posto dell’organo, etc.
Come tutto questo sia stato possibile in pochi decenni sembra incredibile, ma diventa perfettamente comprensibile se lo si considera non un frutto del caso (o meglio del caos) introdotto dalla voluta ambiguità[2] dei documenti conciliari, bensì come un progetto che parte da lontano (dagli anni Trenta) e che nel Concilio ha visto un fondamentale punto di svolta.
Ogni effetto ha una propria causa: del resto la punta dirompente della lancia rivoluzionaria non avrebbe la sua forza se non fosse innestata su un’asta composta dalle varie stratificazioni del pensiero pre-rivoluzionario.