giovedì 18 marzo 2021

Una peste peggiore del Covid

Recensione a 

Michael D. O’Brien, 
Il diario della peste,
Fede & Cultura, Verona 2020, p. 344, € 19

 

La peste di cui parla il titolo, evidente riferimento al romanzo storico di Defoe, non è una piaga fisica, ma spirituale: solo casualmente l’opera è stata presentata al pubblico italiano nell’anno in cui è scoppiata la “pandemia”, poiché la pubblicazione originale risale al 1999. E questo è uno degli aspetti più raccapriccianti del romanzo, che descrive una situazione distopica – e non a caso viene proposto dalla casa editrice veronese Fede & Cultura parallelamente ad altri due capolavori del genere: Metropolis di Thea von Harbou (1926, da cui il celeberrimo film del marito Fritz Lang) e Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin (scritto tra il 1919 e il 1921 e pubblicato per la prima volta nel 1924 in lingua inglese), considerato il capostipite di questo genere di letteratura e che influenzò George Orwell per il suo 1984 – che ai nostri giorni si sta, purtroppo, realizzando.

La peste è quella del politicamente corretto, che nasce come difesa dei (supposti) più deboli e si trasforma in oppressione dei (supposti) prevaricatori. Tale piaga nasce dalle piccole cose, come preferire il cibo «socialmente responsabile e sensibile all’ambiente» (p. 308), cioè surrogati che sostituiscono il caffè (reo di essere diffuso tramite lo sfruttamento dei popoli dell’America centro-meridionale) e il tè (la cui cultura non è stata rispettosa dei popoli dell’Asia), per giungere ad argomenti più gravi, come l’educazione sessuale imposta tramite le scuole e sottratta ai genitori; la considerazione dell’aborto come un diritto acquisito, sul quale è assurdo continuare a dibattere e che è vergognoso definire un crimine; l’uso dei feti abortiti volontariamente (anzi, creati volontariamente, pagando donne affinché li concepissero all’unico scopo di ucciderli al nono mese) onde trarre dai corpicini materiale necessario alle ricerche scientifiche…