sabato 1 luglio 2017

“Una d’arme, di lingua, d’altare”? Considerazioni sull’identità italiana pre- e post-risorgimentale

di Gianandrea de Antonellis


Una gente che libera tutta
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
conte Alessandro Manzoni, Marzo 1821

La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.
conte Klemens von Metternich (2 agosto 1847)

Un’Italia senza gli Italiani?

A proposito del rapporto tra Italia ed Italiani, due frasi famose si contrappongono: una di Massimo d’Azeglio (1798-1866) e una di Salvator Gotta (1887-1980).
La prima – forse apocrifa[1] – recita: «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani», segno che il Risorgimento aveva agito politicamente, ma non socialmente; l’altra afferma: «Dell’Italia nei confini | son rifatti gl’Italiani | li ha rifatti Mussolini | per la guerra di domani»[2] e individua nel Ventennio fascista il momento in cui il desiderio risorgimentale di unificazione territoriale si sposò con l’effettiva unità di sentimento della popolazione. È noto che il culmine di tale sentimento fu provvisoriamente raggiunto nel 1936 con la proclamazione dell’Impero[3], ma è altrettanto noto che nemmeno dieci anni dopo tutto era crollato: il secolo del Fascismo[4], durato solo un quarto di secolo (peraltro ben più – sia nelle prospettive che nella concreta realizzazione – dei dodici anni del Reich “millenario”), il sogno imperiale italiano, l’unità dei popoli della penisola, usciti da una sanguinosa guerra civile e pronti a perpetuare ferocemente la divisione, su basi politiche anziché territoriali[5], grazie al regime democratico.
Morto (politicamente) Mussolini, sono morti anche gli Italiani: non ce ne si è accorti subito, ma poco alla volta il disgregamento è parso sempre più evidente[6]. Prima di giungere ai fenomeni leghista (maggioritario in alcune regioni del Nord) e neoborbonico (quest’ultimo invece privo di qualsiasi riscontro elettorale), già negli anni Settanta gli opposti estremismi si caratterizzavano a Sinistra per l’internazionalismo sovietizzante, a Destra per un europeismo che, senza celare una subordinazione culturale nei confronti del nazionalsocialismo tedesco (in realtà del cesarismo hitleriano, preferito a quello mussoliniano[7]), considerava l’Italia una nazione tornata ad essere la semplice ed imbelle “Italietta” di epoca liberale.
Il disprezzo per lo Stato italiano, necessariamente identificato nei suoi traballanti governi[8] asserviti a potenze straniere (ieri Israele e gli Usa, oggi l’Ue, Israele e gli Usa), si riversa contro l’italianità in genere: contro la cultura, accusata di essere provinciale; contro l’uomo medio, imputato di essere vigliacco ed egocentrico (non a caso la macchietta interpretata in vari film da Alberto Sordi era definita “l’Italiano medio”[9]); contro la mentalità del “tengo famiglia” se non quella, criptomafiosa, del “fatti i fatti tuoi”.
L’Italia di Lissa, di Adua, di Caporetto e dell’8 Settembre, incapace – e soprattutto senza desiderio – di combattere si rispecchia in questo stereotipo, esaltato dalla narrativa e dalla cinematografia[10] quasi per “purificarsi” dalla retorica eroico-militarista del Ventennio fascista[11].
Una contro-retorica (non una anti-retorica, bensì una retorica al contrario) che nel corso degli anni è però riuscita a plasmare le nuove generazioni, assolutamente pacifiste (anche se non pacifiche) ed edoniste, che rifiutano “senza se e senza ma” la guerra, ma non la droga; che amano il rischio della velocità e dello sballo post-discoteca; che sono anche capaci – imbottiti di stupefacenti – di brandire un estintore e tentare di rompere la testa ad un carabiniere, ma si stracciano le vesti se il militare in questione osa difendersi[12].