martedì 17 ottobre 2017

Il palindromo di Maurensig

Il palindromo di Maurensig


Leggo un romanzo di Paolo Maurensig, L’oro degli immortali, interessante anche se non all’altezza delle sue opere migliori – un po’ troppo commerciale, oserei dire – e mi imbatto in una frase:
Osservai la soglia, che recava il solito palindromo: Si sedes non Is, ovvero «Se siedi non procedi», ma anche «Se non siedi procedi».[1]
Storco un po’ il naso: possibile che un autore raffinato come Maurensig possa incappare in un errore simile, utilizzando il termine palindromo (parole che lette al contrario mantengono lo stesso significato) al posto di bifronte (parole che lette al contrario hanno senso compiuto, ma diverso)?

sabato 1 luglio 2017

“Una d’arme, di lingua, d’altare”? Considerazioni sull’identità italiana pre- e post-risorgimentale

di Gianandrea de Antonellis


Una gente che libera tutta
O fia serva tra l’Alpe ed il mare;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
conte Alessandro Manzoni, Marzo 1821

La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.
conte Klemens von Metternich (2 agosto 1847)

Un’Italia senza gli Italiani?

A proposito del rapporto tra Italia ed Italiani, due frasi famose si contrappongono: una di Massimo d’Azeglio (1798-1866) e una di Salvator Gotta (1887-1980).
La prima – forse apocrifa[1] – recita: «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani», segno che il Risorgimento aveva agito politicamente, ma non socialmente; l’altra afferma: «Dell’Italia nei confini | son rifatti gl’Italiani | li ha rifatti Mussolini | per la guerra di domani»[2] e individua nel Ventennio fascista il momento in cui il desiderio risorgimentale di unificazione territoriale si sposò con l’effettiva unità di sentimento della popolazione. È noto che il culmine di tale sentimento fu provvisoriamente raggiunto nel 1936 con la proclamazione dell’Impero[3], ma è altrettanto noto che nemmeno dieci anni dopo tutto era crollato: il secolo del Fascismo[4], durato solo un quarto di secolo (peraltro ben più – sia nelle prospettive che nella concreta realizzazione – dei dodici anni del Reich “millenario”), il sogno imperiale italiano, l’unità dei popoli della penisola, usciti da una sanguinosa guerra civile e pronti a perpetuare ferocemente la divisione, su basi politiche anziché territoriali[5], grazie al regime democratico.
Morto (politicamente) Mussolini, sono morti anche gli Italiani: non ce ne si è accorti subito, ma poco alla volta il disgregamento è parso sempre più evidente[6]. Prima di giungere ai fenomeni leghista (maggioritario in alcune regioni del Nord) e neoborbonico (quest’ultimo invece privo di qualsiasi riscontro elettorale), già negli anni Settanta gli opposti estremismi si caratterizzavano a Sinistra per l’internazionalismo sovietizzante, a Destra per un europeismo che, senza celare una subordinazione culturale nei confronti del nazionalsocialismo tedesco (in realtà del cesarismo hitleriano, preferito a quello mussoliniano[7]), considerava l’Italia una nazione tornata ad essere la semplice ed imbelle “Italietta” di epoca liberale.
Il disprezzo per lo Stato italiano, necessariamente identificato nei suoi traballanti governi[8] asserviti a potenze straniere (ieri Israele e gli Usa, oggi l’Ue, Israele e gli Usa), si riversa contro l’italianità in genere: contro la cultura, accusata di essere provinciale; contro l’uomo medio, imputato di essere vigliacco ed egocentrico (non a caso la macchietta interpretata in vari film da Alberto Sordi era definita “l’Italiano medio”[9]); contro la mentalità del “tengo famiglia” se non quella, criptomafiosa, del “fatti i fatti tuoi”.
L’Italia di Lissa, di Adua, di Caporetto e dell’8 Settembre, incapace – e soprattutto senza desiderio – di combattere si rispecchia in questo stereotipo, esaltato dalla narrativa e dalla cinematografia[10] quasi per “purificarsi” dalla retorica eroico-militarista del Ventennio fascista[11].
Una contro-retorica (non una anti-retorica, bensì una retorica al contrario) che nel corso degli anni è però riuscita a plasmare le nuove generazioni, assolutamente pacifiste (anche se non pacifiche) ed edoniste, che rifiutano “senza se e senza ma” la guerra, ma non la droga; che amano il rischio della velocità e dello sballo post-discoteca; che sono anche capaci – imbottiti di stupefacenti – di brandire un estintore e tentare di rompere la testa ad un carabiniere, ma si stracciano le vesti se il militare in questione osa difendersi[12].

giovedì 4 maggio 2017

Il seminarista rosso. L’infiltrazione marxista nella Chiesa

Gianandrea de Antonellis

Il seminarista rosso

L’infiltrazione marxista nella Chiesa


Una volta c’erano i preti operai: oggi quegli
stessi preti sono diventati vescovi.
Paolo Ferrante, 1990.

Secondo Stalin, la forza politica più pericolosa 
per i comunisti è la Chiesa cattolica,
e per colpire questo temibile «avversario» 
suggerisce di «non attaccare» direttamente 
la religione, ma le sue organizzazioni.[1]


La deriva modernista della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Ma, nonostante la distruzione dei dogmi, dei princìpi, dei simboli sia costante, nessuno interviene. E nessuno, soprattutto, la denuncia per quello che è: l’imporsi di una dottrina già ufficialmente condannata da San Pio X nell’enciclica Pascendi (1907). Dal Vaticano II in poi il modernismo, sotto diverso nome, senza mai usare questo termine, perché avrebbe esplicitato l’eresia sottintesa allo strombazzato “spirito del Concilio”, ha imperato nella vita ecclesiastica: introduzione del Novus Ordo, abolizione dei paramenti, introduzione della tavola eucaristica di fronte (ma più spesso al posto) dell’altare principale ed eliminazione (cioè, distruzione) di quelli laterali, eliminazione della balaustra e conseguente banalizzazione dell’eucarestia (comunione nella mano o sotto le due specie), sostituzione dei canti gregoriani con canzonette pop, chitarre al posto dell’organo, etc.
Come tutto questo sia stato possibile in pochi decenni sembra incredibile, ma diventa perfettamente comprensibile se lo si considera non un frutto del caso (o meglio del caos) introdotto dalla voluta ambiguità[2] dei documenti conciliari, bensì come un progetto che parte da lontano (dagli anni Trenta) e che nel Concilio ha visto un fondamentale punto di svolta.
Ogni effetto ha una propria causa: del resto la punta dirompente della lancia rivoluzionaria non avrebbe la sua forza se non fosse innestata su un’asta composta dalle varie stratificazioni del pensiero pre-rivoluzionario.

giovedì 23 marzo 2017

Ernesto il disingannato, un romanzo carlista

Lo Trovatore, Ernesto il disingannato, a cura di Gianandrea de Antonellis, D’Amico Editore, Nocera Superiore 2016, p. 220, € 15


Il giornale Lo Trovatore (nato come Lu Trovatore e poi divenuto prima Lo e poi Il Trovatore, con un mutamento di articolo che seguiva una ben precisa linea editoriale) vide la luce nel 1866 come pubblicazione satirica, nella (delusa)  speranza di poter criticare il governo sabaudo evitando gli strali della censura, che invece non mancarono. Caratterizzandosi, nel corso degli anni, in maniera sempre più esplicitamente cattolica e legittimista, mutuò dalla rivista dei Gesuiti «La Civiltà cattolica» l’idea di pubblicare in ogni numero un romanzo “morale”. Così, tra il 1873 ed il 1874 dette alle stampe Il passato e il presente ovvero Ernesto il disingannato, il primo romanzo “borbonico” italiano.