giovedì 19 gennaio 2023

De Amicis e la Catalogna di ieri e di oggi

Quando si legge il libro Cuore e ci si imbatte in un bambino calabrese che non ha mai visto la neve, risulta difficile credere che Edmondo De Amicis abbia avuto chissà quali conoscenze di geografia, ma in realtà, dopo aver abbandonato l’esercito e l’impiego come giornalista militare, egli fu autore di diversi testi di viaggio: il primo fu Spagna, edito nel 1872. 

Avendo percorso la Penisola Iberica in tempi così movimentati, il resoconto dell’italiano non può che risultare interessante anche per i carlisti. De Amicis mise insieme quadretti di costume pieni di colore, notiziole politiche e aneddoti folcloristici, come la tradizione che attribuisce al Cid Campeador l’invenzione della corrida (in realtà usanza assai più antica).

Il 16 novembre 1870 il parlamento spagnolo aveva illegittimamente nominato Amedeo di Savoia (1845-1890) nuovo regnante di Spagna, una scelta traumatica che allontanò il popolo dalla monarchia e pose le basi per la proclamazione della repubblica. La Comunione Tradizionalista comprese che era tempo di agire, Cabrera rifiutò di impegnarsi in una nuova Carlistada, i neócatolicos rimasero a lungo incerti e più propensi a risolvere la questione seguendo la “via legale”, ma infine le insurrezioni furono preparate in tutto il nord del Paese e il 21 aprile 1872 Carlo VII, il Re legittimo, ordinò di iniziare una sollevazione generale.

Di De Amicis si è detto che del Carlismo capì poco, ma invero non si dilungò neppure troppo a parlarne, anche se di tradizionalisti ne incontrò parecchi: «Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda classe, in Spagna, non hanno scompartimenti, eravamo quaranta viaggiatori e viaggiatrici, visibili tutti uno all’altro: preti, monache, ragazzi, serve, e altri personaggi che potevano essere negozianti, o impiegati o agenti segreti di Don Carlos». Nella sua ignoranza della Monarchia tradizionale e del foralismo, il giornalista ritenne che i carlisti fossero divisi in due: “assolutisti puri” e “dissidenti”.

In la Spagna scrisse: 

«Trovai un carlista arrabbiato in un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch’ero un conciudadano del Rey, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso. Io non dissi parola, perché mi stava radendo, e un risentimento del mio orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue della guerra civile [...]». 

Tutti gli spagnoli percepivano Amedeo come uno straniero, ma il fatto che fosse un membro della dinastia sabauda, quella che aveva spodestato i Borbone di Parma e delle Due Sicilie rendeva ancor meno gradito questo carceriere del Papa (per usare le parole di De Amicis): 

«veramente implacabili sono i carlisti. Dicon della nostra rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte convinti, che il vero re d’Italia sia il Papa, che l’Italia lo voglia, e che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perché non c’era modo di far altrimenti; ma che aspetti l’occasione propizia per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco». 

Questo era anche il pensiero dei cattolici intransigenti italiani e dei loro giornali, che in quell’epoca erano in gran parte sostenitori del Carlismo. Ecco la storiella raccontata dall’autore: 

«Una volta un giovane italiano, che io conosco intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della città [di Barcellona], e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla conversazione parecchi Italiani. La signora parlò con molta simpatia dell’Italia, ringraziò il giovane dell’entusiasmo che mostrava d’avere per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale conversazione coll’ospite riconoscente per quasi tutta la serata.
A un tratto gli domandò:
“E tornando in Italia, in che città s’andrà a stabilire?”.
“A Roma,” rispose il giovane. 
“Per difendere il Papa?” domandò la signora con la più schietta franchezza.
Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: “No, davvero”.
Quel no scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era Italiano, e suo ospite, e proruppe in una tale sfuriata d’invettive contro il Re Vittorio, il governo piemontese, l’Italia, risalendo dall’entrata dell’esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e dell’Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio di bucato».

Del resto le idee politiche di De Amicis in questa fase della sua vita sono ben note, Cuore, pubblicato nel 1886 (circa tre anni prima del suo avvicinamento al socialismo), è un’opera che è come era la scuola postrisorgimentale: «Presentata per consolidare tra le plebi l’idea di stato unitario; laica e schierata nella battaglia anticlericale (in Cuore non v’è cenno a feste di Gesùbambini e Cristi in croce); assumeva maestri non sulla base della loro preparazione ma sulla base delle garanzie ideologiche che essi offrivano» (Domenico Starnone, Paura di Franti, in Cuore, ediz. Feltrinelli, Milano 2021). Con la sua affermazione, lo Stato italiano licenziò subito gli insegnanti gesuiti e assunse come presidi persino degli ex garibaldini in ragione della loro presunta esperienza nel gestire masse di giovani scalmanati, ci si rese poi conto che in generale i maestri mancavano e diversi gesuiti furono di nuovo assunti per svolgere il loro compito.

Oggi possiamo osservare che Cuore riflette certamente la visione poc’anzi riassunta, ma in esso figurano più volte il nome di Dio e dei riferimenti generici alla spiritualità che appaiono sgraditi ai progressisti contemporanei: De Amicis è diventato parte della cultura dei conservatori.

Per chi sa leggere Spagna con occhio critico, sono molto importanti le osservazioni dello scrittore riguardo lo sviluppo industriale della Catalogna: «Via via che si va oltre, spesseggiano i villaggi, le case, i ponti, gli acquedotti, tutte le cose che annunziano la vicinanza d’una popolosa e ricca città commerciale. Granollers, Sant’Andrea di Palomar, Clot, son circondati di opifici, di ville, di orti, di giardini; per tutte le strade si vedon lunghe file di carri, frotte di contadini, armenti; le stazioni della strada ferrata sono ingombre di gente; chi non lo sapesse, crederebbe d’attraversare una provincia d’Inghilterra, piuttosto che una provincia di Spagna. Oltrepassata la stazione di Clot, che è l’ultima prima d’arrivare a Barcellona, si vedono da ogni parte vasti edifizi di mattoni, lunghi muri di cinta, mucchi di materiali da costruzione, torri fumanti, officine, operai; e si sente, o par di sentire un rumor sordo, diffuso, crescente, che è come il respiro affannoso della gran città che si agita e lavora».

A quel tempo le giuste richieste regionaliste dei Catalani contro il governo liberale e centralista erano già degenerate nelle idee di alcuni gruppi di federalisti repubblicani e lo scrittore testimonia la presenza di pregiudizi antispanici apparsi qui prima che nei Paesi Baschi. Non vi è tuttavia traccia in Spagna di quei deliri etnonazionalisti (nuovi, ma sempre repubblicani) che vediamo ai giorni nostri: essi sono nati in tempi più recenti e rappresentano un’ulteriore rottura con la tradizione della Catalogna, roccaforte del Carlismo.

Lo Stato tradizionale può ospitare, unire e rappresentare diverse culture finché esse considerano superiore l’unità religiosa rispetto a quelle delle singole comunità “etniche” (aggettivo molto ambiguo) a cui i nazionalismi vorrebbero legarle.

Alla visione universalista del tradizionalismo si contrappone il cosiddetto principio di “autodeterminazione dei popoli”, affiorato già (secondo convenienza) durante il Congresso di Vienna e criticato dal Principe di Canosa, e poi compiutamente esposto dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (1856-1924), le cui posizioni e scelte politiche hanno dato un contributo determinante alla distruzione del continente europeo. Secondo questa ideologia ogni popolo deve poter scegliere di secedere o di unirsi ad un altro e di costruirsi un suo Stato, una teoria che è stata spesso proposta come soluzione a ogni conflitto, ma che nei fatti è stata foriera di guerre e autoritarismi, rivendicazioni contrapposte di territori contesi e persecuzioni di minoranze.

L’autodeterminazione è la pretesa che stato e nazione coincidano, obiettivo problematico per la stessa natura astratta del concetto moderno di nazione, che è strumento dei demagoghi. Ciò frammenta l’unità cristiana spingendo ogni gruppo a ritenere di doversi creare una sovranità completamente separata, costruendola sulla base di una propria visione di un luogo (in realtà elaborata e imposta da un ristretto numero di intellettuali). 

Per gli etnonazionalisti lo stato perfetto è una nazione etnica che governa un territorio etnicamente omogeneo per mezzo di una sovranità indipendente, ma questo non li differenzia in maniera netta dai vecchi nazionalisti (con cui in effetti condividono quasi tutto), la vera distinzione risiede nel fatto che gli etnonazionalismi sono nazionalismi tardivi, sorti cioè non nell’epoca degli stati tradizionali, ma in quella degli stati nazionali (figli del nazionalismo) ed entro i loro confini. Sono quindi nazionalismi in piccolo, contrapposti a nazionalismi grandi, ma ugualmente pericolosi per la salute dei popoli.

Un governo tradizionale si fonda invece sul concetto di integrazione, che si regge sul riconoscimento delle comunità stesse e delle loro specificità e autonomie. Dando uno sguardo alla situazione italiana è bene per i tradizionalisti stare sempre in guardia, poiché il morbo dell’etnonazionalismo catalano si è diffuso in gran parte dell’Europa. In Italia esistono diversi movimenti secessionisti, ma presentano dei gravi problemi di fondo: non hanno nessun legame con il legittimismo, si appoggiano a visioni nazionaliste, non hanno alcun barlume di consapevolezza politica. I membri di queste formazioni partitiche o pseudotali non basano le loro azioni su principi religiosi, bensì sulla convinzione che la secessione vada appoggiata ovunque si manifesti, come se essa fosse un indicatore morale: chiunque chieda uno stato è sempre e comunque nel giusto! 

Lo si può notare studiando il secessionismo siculo, quello sardo o quello veneto, e spesso sono gli stessi uomini che si servono strumentalmente di tesi antirisorgimentali senza minimamente comprendere la contrapposizione tra la visione cristiana dei legittimisti e quella liberale, mazziniana o garibaldina. Anche nel variegato mondo dei “meridionalismi” c’è chi mostra vicinanza ai separatisti catalani. 

Riguardo la politica veneta, non è un caso che l’ex lighista Ettore Beggiato nel suo saggio 1439: galeas per montes (Editrice Veneta, 2019), dedicato all’epica impresa compiuta dalla Repubblica di Venezia nel 1439, quando durante la guerra con Milano trasportò una flotta dall’arsenale attraverso i monti fino al lago di Garda, abbia citato (apparentemente fuori luogo) alcuni versi del poeta catalano Raimon Sanchis:

«Ti rendi conto, amico
da molti anni ormai,
ci nascondono la nostra storia,
dicono che noi non ne abbiamo;
che la nostra storia è la loro storia
ti rendi conto amico...» (ivi, p. 25) 

Quale storia è nascosta nelle corrotte università della Catalogna? La storia inventata dei filosofi catalani superiori a quelli della Grecia antica? La narrazione fasulla di un regno indipendente catalano mai esistito? La bugia secondo la quale i capolavori della letteratura spagnola sarebbero stati quasi tutti scritti in catalano e poi tradotti? No. La storia catalana che oggi viene nascosta dai secessionisti è quella del forte Carlismo di questa regione, gelosa delle sue autonomie forali, ma fedele ai Re legittimi e alla missione storica che costituisce la fonte dell’unità cattolica delle Spagne. 

Già nell’Ottocento il Marchese Vincenzo Mortillaro, lealista borbonico siciliano, aveva compreso bene come nella sua isola il separatismo e il legittimismo fossero due mondi distanti: «[Non] può mettersi in forse che in Sicilia il regionalismo sia quel partito che divide il meno; imperocché esso è un partito d’uomini senza un programma diffinitivo, i quali collocandosi fra il presente ed il passato si credono il pernio d’una bilancia in bilico, la quale attende il peso anche di un grammo per traboccare a destra od a sinistra» (Memorie avvedimenti e rimembranze continuazione dei miei ultimi ricordi, Pensante 1870, p. 97).

Anche senza considerare la questione sacra dell’unità storica delle Spagne, con questi indipendentismi anarcoidi e imprevedibili il Carlismo, anche fuori dalla Penisola iberica, non può avere alcun rapporto.

Riccardo Pasqualin

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