Recensione a
Michael D. O’Brien,
Il diario della peste,
Fede
& Cultura, Verona 2020, p. 344, € 19
La peste di cui parla il titolo, evidente riferimento al
romanzo storico di Defoe, non è una piaga fisica, ma spirituale: solo
casualmente l’opera è stata presentata al pubblico italiano nell’anno in cui è
scoppiata la “pandemia”, poiché la pubblicazione originale risale al 1999. E
questo è uno degli aspetti più raccapriccianti del romanzo, che descrive una
situazione distopica – e non a caso viene proposto dalla casa editrice veronese
Fede & Cultura parallelamente ad altri due capolavori del genere: Metropolis
di Thea von Harbou (1926, da cui il celeberrimo film del marito Fritz Lang) e Noi
di Evgenij Ivanovič Zamjatin (scritto tra il 1919 e il 1921 e pubblicato per la
prima volta nel 1924 in lingua inglese), considerato il capostipite di questo
genere di letteratura e che influenzò George Orwell per il suo 1984 –
che ai nostri giorni si sta, purtroppo, realizzando.
La peste è quella del politicamente corretto, che
nasce come difesa dei (supposti) più deboli e si trasforma in oppressione dei
(supposti) prevaricatori. Tale piaga nasce dalle piccole cose, come preferire il
cibo «socialmente responsabile e sensibile all’ambiente» (p. 308), cioè
surrogati che sostituiscono il caffè (reo di essere diffuso tramite lo
sfruttamento dei popoli dell’America centro-meridionale) e il tè (la cui
cultura non è stata rispettosa dei popoli dell’Asia), per giungere ad argomenti
più gravi, come l’educazione sessuale imposta tramite le scuole e sottratta ai
genitori; la considerazione dell’aborto come un diritto acquisito, sul quale è
assurdo continuare a dibattere e che è vergognoso definire un crimine; l’uso
dei feti abortiti volontariamente (anzi, creati volontariamente, pagando donne
affinché li concepissero all’unico scopo di ucciderli al nono mese) onde trarre
dai corpicini materiale necessario alle ricerche scientifiche…
Alla società rispettosa del politicamente corretto, però, non basta imporre queste ingiunzioni: essa pretende anche di perseguire chi non si adegua, mostrando il suo reale volto, che dietro la maschera sorridente dell’ipocrita buonismo cela il più bieco totalitarismo. Nella fattispecie, esso prende le forma della persecuzione contro il protagonista del romanzo, narrato in prima persona tra vere e proprie pagine di un diario (un regalo natalizio della figlioletta) e ricordi personali: Nathaniel Delaney è un giornalista, fondatore, direttore e animatore di un giornale di ispirazione cristiana, «The Echo», che pur essendo a diffusione locale ha un’ampia risonanza, tanto che altre testate più quotate gli offrono collaborazioni. Ma la voce dei suoi articoli raggiunge un pubblico fin troppo ampio, che non accetta la sua visione del mondo e non gli perdona le prese di posizione in favore del rispetto della vita: gli abbonamenti vengono meno, tanto da costringerlo a scegliere tra stampare un altro numero e rinnovare l’assicurazione; la sede del giornale viene devastata (e l’assicurazione è scaduta), presumibilmente da membri della “psico-polizia”; e i suoi figli, di tredici e dieci anni vengono torchiati dalla direttrice della scuola – contro i cui metodi Nathaniel aveva protestato – affinché confessino supposte “attenzioni” da parte del padre, onde toglierli alla tutela paterna ed affidarli ai servizi sociali per una “rieducazione”.
Da un giorno all’altro il giornalista si vede costretto a
scappare, per evitare che gli portino via i figli: viene montata contro di lui
una campagna mediatica, attribuendogli un omicidio che non ha commesso,
rendendolo un paria da cui tutti prendono le distanze: lo stesso padre a cui
egli si rivolge lo tratta da alienato, spingendolo a costituirsi e sottoporsi a
un trattamento per tornare “normale”.
Michael D. O’ Brien, scrittore apertamente cattolico e
autore di romanzi di successo – che, a differenza della maggior parte delle
opere narrative contemporanee, non scadono mai nel didascalismo –, ha la
capacità di cambiare stile, anche in opere tra di loro legate: è il caso dei
tre romanzi che hanno come protagonista Padre Elia (Il nemico, Il
bibliotecario, L’inviato – quest’ultimo tradotto e pubblicato in
tempi record da Fede & Cultura, a differenza degli altri due, che la San
Paolo ha proposto con un certo ritardo).
Nel caso del Diario, la trama avventurosa risulta
secondaria rispetto alle considerazioni del protagonista, agli “editoriali” che
ripropone (tra cui alcuni riferimenti al saggio Un paesaggio con draghi: la
battaglia per la mente di tuo figlio, scritto da O’ Brien nel 1994), alle
riflessioni sul ruolo positivo o nefasto che la cattiva o la buona letteratura
(in senso lato, intendendo anche i programmi televisivi) possono esercitare
sulla mente dei più piccoli (e dei più grandi).
Ne scaturisce l’amore per il Signore degli Anelli,
pietra miliare della letteratura mondiale non solo per la straordinaria
capacità narrativa, ma anche per gli insegnamenti che la trilogia contiene (e,
in subordine, anche il Ciclo di Narnia, dedicato a un pubblico di
bambini).
Il brivido maggiore che deriva dalla lettura de Il
diario della peste è però la considerazione che esso è stato scritto più di
vent’anni fa, nel 1999: forse la società canadese era già più “avanti”, forse la
visione lucida di O’ Brien gli ha permesso di prevedere (nel senso etimologico
di vedere prima non per facoltà magiche, ma per sole capacità
analitiche) la deriva a cui il politicamente corretto rischiava di
portare.
Rimane il fatto che ha anticipato abbondantemente la peste
psicologica del buonismo estremo, che si può percepire – per fare un solo
esempio – nella benevolenza con cui sono state considerate le brutali violenze
contro le vestigia del passato dei teppisti del Black lives matter e
dalla durezza usata contro chi ha “assalito”, peraltro pacificamente, Capitol
Hill.
O nell’isteria collettiva che ha fatto accettare a milioni
e milioni di persone le assurde imposizioni dovute al Covid, facendo guardare
con disprezzo a chiunque osi far notare che si tratta di una influenza (certo più
grave, ma non letale: lo 0,1% di mortalità non giustifica misure che
distruggeranno la nostra economia) e si rifiuta di sottoporsi a un vaccino che
definire dubbio è un eufemismo.
Sono due soli esempi della peste che rovescia i valori,
facendo ritenere un crimine l’uccisione di un toro nell’arena, ma un diritto l’assassinio
di un figlio nascituro: una peste che crea una situazione tale da far dire al
protagonista, in un momento di disperazione ma anche di grande lucidità: «Odio
gli uomini senza fegato che avrebbero potuto impedire la degenerazione della
nostra società piena di difetti ma sana in un paesaggio dove sembra che il bene
sia dappertutto ma non si tratta affatto di bene. Anzi, probabilmente il
marciume è arrivato fino al midollo. Odio […] i moderati che ci fanno soffrire
tutti con la loro calma, misurata sicurezza che tutto va bene, tutto va bene,
tutto andrà straordinariamente bene. non posso perdonare ciò che ci viene
fatto, lo strangolamento di tutto ciò che è bello, vero e buono» (p. 283).
Perché la colpa è sì della minoranza estremista
progressista, ma anche e soprattutto della maggioranza moderata (un tempo si
sarebbe detto democristiana) che ha permesso lo sfascio in cui ci ritroviamo
oggi.
Gianandrea de Antonellis
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