sabato 17 febbraio 2024

La tragedia di Senarica (1887) di Giuseppe Mezzanotte

Giuseppe Mezzanotte (Chieti, 1855-1935), amico di Francesco paolo Michetti e inizialmente attratto dalla pittura, nel 1874 si trasferì a Napoli per seguire i corsi di giurisprudenza, e grazie a Federico Verdinois fu introdotto in uno dei giornali più importanti dell’epoca, il Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero, dove conobbe giovani artisti quali Salvatore di Giacomo, Matilde Serao, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Amilcare Lauria, Nicola Misasi ed Edoardo Scarfoglio. Autore di numerosi racconti e romanzi, il suo nome è legato soprattutto a La tragedia di Senarica (1887), la sua opera più famosa e rappresentativa.

Nella Senarica (nome sotto cui nascose la sua Chieti) di fine Ottocento muore il benestante Pellegrino Pinti, il quale, senza figli, crea erede il fratello Clementino (ai suoi tempi borbonico), lasciando all’altro fratello, il mazziniano Andrea, solo una piccola rendita. Tale decisione provoca il risentimento del figlio di Andrea, ’Nania (Anania), che si sente defraudato e rinfaccia allo zio Clementino di non voler aiutare la famiglia del fratello, impoveritasi a causa delle persecuzioni borboniche di trent’anni prima. 

Rimarchevole la scena del quarto capitolo in cui il giovane si reca nell’affollato studio di avvocato del vecchio zio, preparato ad affrontarlo e a costringerlo a cedere una cospicua parte dell’eredità, in nome delle benemerenze patriottiche del padre.

Ma chi è stato veramente meritevole e, soprattutto, un vero patriota? Il fervente mazziniano, pronto a sacrificare anche la vita dei propri cari per un ideale astratto e lontano di “Patria italiana”, oppure il pacato borbonico che crede nella famiglia e nella “piccola patria” in cui vive?

La tragedia di Senarica

«Oh, sôr ’Nanìa, ben venga, che ci abbiamo?» domandò [don Clementino] vedendo apparir ’Nanìa sulla soglia dello studio.

«Sono venuto da voi perché mi avete mandato a chiamare», rispose ’Nanìa.

«Ah sì, è vero. Vogliamo assodare quel conto».

«Non c’era bisogno di tanta premura. Io non ci pensava nemmeno». 

«Perché, perché? Non si sa mai, la morte o la vita…»

«No, dicevo per me. Del resto, una volta che ha da essere, tanto è oggi tanto è un altro giorno. Sono agli ordini vostri».

«Va bene. Favorite dentro, ché staremo più comodi». E introdusse il giovine in un suo gabinetto ingombro di libri e di carte polverose. «Accomodatevi, attendete un momento»

’Nanìa rimase solo nella stanza, ma quanto ad accomodarsi, la cosa non era così facile come si crederebbe: delle poche sedie, quelle due o tre che erano sgombre non avevano il pieno e libero uso delle quattro gambe La stanza era piccola e triste, e vi si sentiva l’odore speciale degli studi d’avvocati. Gli scaffali che covrivano le quattro pareti e gli scrittoi antichissimi erano marezzati d’inchiostro; sullo scrittoio di don Clementino i cumuli di carte e di processi lasciavano appena lo spazio per un foglio di carta. Vi era un calamaio di maiolica grossolana raffigurante una scrofa coi suoi porcellini, e, tutt’intorno ad esso, erano sparsi penne di lacchino e rena di mare. ’Nanìa pensò a questo vecchio milionario che si circondava di un ambiente così sordido e lavorava come se avesse dieci figliuoli da sostenere, e conchiusc che lo zio Clementino, se intendeva l’arricchire, non intendeva il far uso delle ricchezze.

Poco stante, don Clementino ritornò con un foglio di carta bollata e lo presentò a ’Nanìa, dicendo: «Scrivete»; e gli dettò una ricevuta per ciò che gli spettava come legatario dello zio Pellegrino; e poiché questi ebbe scritto e sottoscritto, gli consegnò un assegno sulla Banca nazionale: «E con ciò», aggiunse, «abbiamo assodati i nostri conti».

«Credete veramente?» domandò ’Nanìa. 

Don Cementino lo guardò negli occhi: «E che altro avete a pretendere?»

«Mah, io non lo so».

«E su che, di grazia?».

«Su che! Voi avete ereditato da zio Pellegrino mezzo milione di lire».

«E con ciò?»

«Niente. Noi stiamo in mezzo alla strada; non c’è altro».

«E io come c’entro in questo?»

«E già, voi non c’entrate! Andrea Pinti è stato un uomo senza cervello; che c’entrano i fratelli suoi? Ma quando un altro Pinti, che non era Andrea Pinti ma era nipote di Pellegrino e Clementino Pinti, sorgeva nel mondo, perché avete detto: sia miserabile anche costui? Perché mi avete messo sul lastrico? Perché io solo, in tutto il casato che possiede rendite da buttarne al vento, avrò da stentarmi il pane come l’ultimo della terra?»

«Ma chi vi ha messo sul lastrico? Pare a me che non si poteva fare più di quello che si è fatto per voi».

«Avete ragione. Senza il vostro aiuto, oggi farei l’operaio o il vagabondo. Ed è tutto, questo? Sono un vostro parente o sono un mulo?»

«E vostro zio, non vi ha riconosciuto, a morte sua?»

«Vi sfiderei a poterci vivere e pensare a tutti i bisogni della istruzione, con quella limosina».

«Quando ci è il buon volere, si vive anche con meno. Non manca mai la maniera di potersi industriare».

«Ed io perché dovrò dare l’anima al diavolo, quando voi creperete d’indigestione? Perché dovrò fare una vita umile e tapina, quando voi sarete stufi di ossequi ed onori? Sono un parente vostro, o sono un mulo?»

Don Clementino guardò il nipote senza rispondere, con curiosità mista a stupore. Pareva che non sapesse capacitarsi se quel giovinetto così audace parlasse da senno o avesse un ramo di pazzia.

«Ma dimmi una cosa, ragazzo mio. tu sai a chi parli?»

«Sicuro: parlo al fratello di mio padre».

«E, al fratello di tuo padre, parli così?»

«E perché siete fratello di mio padre, vi parlo in questo modo».

«Sei molto arrogante, mio caro!»

«Io non sono don Andrea Pinti, che si lascia opprimere e si umilia. Io vengo a domandarvi perché mi avete messo in mezzo ad una strada, c credo di averne il diritto».

«Non ne avete diritto. Perché io avrei diritto di dirvi: Caro nipote, sono in casa mia, e vi prego di non levarmi la salute».

Dicendo queste parole, don Clementino stava in piedi avanti a ’Nanìa col dorso appoggiato a uno scaffale, lasciando passare i soldi ad uno ad uno da una mano all’altra, e guardando con uno sguardo durissimo il nipote. Il quale si alzò di botto dalla scrivania ove era rimasto a sedere, impallidendo; e con voce alterata, rispose:

«Io me ne vado Ma questa è una nuova soperchieria che ricevo da voi».

«No, rimanete. Voglio sapere che diamine vi sta in mente Ditemi un po’: chi è morto, io o Pellegrino? Chi ha lasciato il mezzo milione, che tra parentesi non è arrivato ai sessantamila ducati, io o Pellegrino? Chi vi ha considerato male nel testamento, come dite voi, io o Pellegrino? Dunque, che volete da me? Che vi potevo fare? Io non poteva forzare la volontà di mio fratello».

«Ah, non potevate forzare… è giusto. Però zio Pellegrino, in altri tempi, aveva fatto un altro testamento: vi ricordate?»

«Voi pure credete alle chiacchiere della gente?»

«È un fatto».

«Provatemelo».

’Nanìa restò confuso, e abbassò gli occhi sotto gli sguardi dello zio.

«Ah, non rispondete!» esclamò questi. «Caro nipote, io vi potrei esser nonno, anziché zio, e conosco assai il mondo: sentite a me. Non bisogna mai avere la parola più pronta del giudizio. E se starete a badare alle chiacchiere della gente in vita vostra, morirete crepato, ve lo dico io».

«In tutti i modi», ribatté ’Nanìa, «potete negarmi che nell’ultimo testamento la mano vostra ci è stata?»

«Sì, ma potete dimostrarmi che io abbia forzata la volontà di Pellegrino? Ognuno crede che egli non desse un passo senza la mia approvazione. Ebbene, vi dirò una cosa che non sarei obbligato di dirvi: se Pellegrino vi ha considerato per quella parte che avete avuta, lo dovete a me».

«Tante grazie Potevate risparmiarvi l’incomodo»

«De bonis operibus, delapidamus te. Avete ragione!»

«Caro zio, giochiamo a carte scoperte. Che serve volerci ingannare l’un l’altro? Voi potete essermi più che zio. ma io non sono più un ragazzo. Voi che avevate consigliato vostro fratello per un piccolo atto di riconoscenza, potevate consigliarlo ancora a restaurare la famiglia mia. Io non dico con tutta la fortuna sua, che pur sarebbe stato giusto, perché voi siete ricco; ma una metà, un terzo!… Sarebbe stato una riparazione».

Don Clementino fece alcuni passi per la stanza, guardando il pavimento; poi si piantò avanti a ‘Nanìa, e disse:

«Nella vita, mio caro, tutto è sistema. Dopo la morte di mio padre, io ho preso il sistema di lavorare e di economizzare, per accrescere la mia fortuna. Mio padre lasciò la stessa fortuna a vostro padre ed a me, ed era ben poca cosa. Voi lo vedete: ora sono vecchio e, grazie a Dio, non ho bisogno: e pure, lavoro. Quando voi avrete figli, potrete darmi ragione, perché allora solo comprenderete che sacrifici farebbe un padre per la fortuna e la felicità dei figli suoi. Con ciò non intendo dire di aver fatto mai qualche cosa contro i vostri interessi».

Nel dire queste parole, la voce di don Clementino era triste ed il volto così grave, che pareva nascondesse un dolore. Egli riprese:

«Io non ho riposato né notte né giorno, per quarant’anni; e pure, avrei potuto godermi la vita. Ma giudicate da voi: non soffrite voi, e che soffrite, ed a che esasperazione non vi porta la vostra sofferenza? Io, se un mio figlio soffrisse così, non saprei resistere, farei una pazzia. Non dovete questo a vostro padre? Egli ha tenuto un altro sistema: eccone le conseguenze».

’Nanìa, a quelle parole, non poté contenersi più. Fino a quel momento aveva evitato di rinfacciare allo zio la morte disperata dello zio Pellegrino e le esclamazioni sospettose di lui, per quel pudore che ogni animo onesto ha di parlare di cose turpi: ma a sentir biasimare suo padre, scoppiò:

«Non parlate di mio padre: voi l’avete assassinato!»

«Chi?»

«Voi, voi, don Clementino Pinti».

Una vampa salì al viso del vecchio, e i suoi occhi fiammeggiarono di sdegno. Aprì la bocca per parlare, ma si contenne con uno sforzo manifesto Mosse alcuni altri passi irrequieti per la stanza, colle mani sotto le falde del soprabito, poi si fermò di nuovo avanti a ’Nanìa. ripigliando il discorso con molta calma:

«Dicevamo, dunque, che vostro padre ha avuto un altro sistema. Prima di tutto, ha voluto separarsi dai fratelli ed aprire un’altra casa…».

«E perciò l’avete spogliato».

«Un’altra casa», ripeté don Clementino a denti stretti, volgendo al nipote un’occhiata iraconda.

«Appresso, ha pigliato in moglie la prima venuta, che non aveva né ciclo a vedere né terra a camminare. Non servono le mosse; l’avete detto voi stesso: parliamoci chiaro. Appena fatto tutto questo, si è fatto mettere in carcere».

«Mio padre è un uomo di cuore. Ha sposato una donna onesta per amore, si è fatto mettere in carcere per la patria. Voi queste cose non le capite».

«Ah, che pazienza! E pure, sentite: io mi fido di dimostrarvi che vostro padre non è un uomo di cuore».

«Oh, oh!»

«Be’, siamo sinceri. Supponiamo che voi aveste moglie e figli: mettereste a pencolo la vostra vita e le vostre sostanze per la patria?»

«Sicuro!»

«Anche a costo di spiantare la vostra casa e mandare alla miseria la vostra famiglia?»

«Sicuro!»

«E sareste un uomo senza cuore».

«Oh!»

«Riflettete bene: proprio voi sareste necessario alla patria; senza l’opera vostra, la patria sarebbe rovinata? Dite!»

«No».

«Ma se voi mancaste alla vostra famiglia, la vostra famiglia non sarebbe rovinata?»

«Sì».

«Eccoci! Chi è più senza cuore, uno che trascura un dovere reale ed indispensabile per un dovere ideale che non è indispensabile, o chi trascura questo dovere ideale per un obbligo sacrosanto, di cui è responsabile verso la famiglia e verso la società? Ah, ora non rispondete!… Non serve, so quello che volete dire: nei bisogni supremi, anche le donne e i ragazzi debbono dar la vita, vi dico io; ma da uomo di mondo, vi so dire che, di quelli che hanno fatto l’Italia, due terzi erano gente che non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare, per un terzo sono stati ingenui. Vostro padre è stato un ingenuo. E sapete perché è andato in carcere? Perché si carteggiava colla Giovine Italia, e non si pigliava nemmeno il fastidio di nascondere le carte».

«E voi l’avete aiutato a ben morire, non è così?»

«Anche queste sono chiacchiere. Domandate a lui stesso quante volte io e Pellegrino l’abbiamo avvertito di starsi in guardia. Se avessimo voluto rovinarlo davvero, sarebbe rimasto in galera fino al Sessanta. Forse sarebbe stato meglio per lui, ché ora sarebbe un pezzo grosso. Fino l’intendente Dusmet se lo mandò a chiamare, e gli raccomandò di stare in cervello. Che ti debbo dire di più? Il giorno avanti all’ordine di perquisizione, io andai a casa sua e gli portai via le carte di prepotenza. Il giorno appresso, i gendarmi trovarono altre carte sulla scrivania del suo studio, come voi avete trovato questo processo su questa scrivania»

«E il suo fallimento? E i beni della casa mia, che avete ricomprati per un piatto di fave?»

«Voi non sapete che tempi erano allora. Non sapete che, fino a ricomprare i beni di un pregiudicato politico, si aveva paura. Mio caro, statevi sicuro che noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva, per vostro padre, e se non siamo riusciti, è colpa del sistema. Vostro padre è un uomo onesto e di cuore: non è vero quello che vi ho detto poco fa: ma il torto suo è stato di aver preso il mondo alla leggera come le carte della Giovine Italia. E poi, c’è un’altra cosa: quando io dava l’anima al diavolo per accrescere fortuna alla mia famiglia, vostro padre stava più volentieri al caffè che allo studio, mentre voi altri a casa aspettavate il pane. No, benedetto Dio, non voglio vilipendere vostro padre avanti agli occhi vostri; egli è stato sempre un gran galantuomo, e ne potete andar superbo. Non si può negare che, prima di andar carcerato, lavorava come un cavallo di macina; e bisogna dire che le disgrazie l’abbiano avvilito, perché dopo il fallimento non è stato più lui: ma è una ragione questa? Dove sta scritto che chi è capitato in un guaio debba restarci per tutta la vita, senza far niente per uscirne? Questo è il torto di vostro padre: e se l’hanno sorpassato, nessuno ha diritto di lamentarsi Che ne dite?»

Nania taceva, sconfitto. Egli aveva imaginata una disputa fiera e solenne con quel parente superbo e maligno; aveva imaginato che la sua eloquenza, ispirata ed accesa dalla giustizia della sua causa, avrebbe sfolgorato il protervo vecchio, e l’avrebbe confuso. Quel vecchio, invece, anziché essere schiacciato dalla gravità delle sue accuse, con una flemma mirabile, con un sorriso bonario, contando i soldi colle mani in tasca, ne aveva distrutta tutta l’argomentazione; la quale si trasformava nella protesta arrogante di un ragazzo più pronto di parola che di pensiero, che un uomo anziano rimette a posto. Lo zio Clementino poteva aver ragionato in buona o in mala fede, essere onesto o colpevole delle accuse di ’Nania; ma ancora una volta ’Nania aveva torto.

«E questo non è tutto», riprese lo zio «Vostro padre è un poeta. Già. Non vede il mondo come è fatto, ma come se lo figura nella testa. Questo ve lo dico per bene vostro, perché anche voi siete un poco poeta: guai a quelli che vanno pel mondo colla testa fra le nuvole! Al primo fosso che capita, buonanotte! Se non fosse stato poeta, vostro padre non avrebbe provato il carcere e la miseria per una patria astratta».

«Che!» esclamò ’Nania.

«Lo vedete, che siete poeta voi pure?»

«Ma se poeta per voi significa questo!…»

«E già, si capisce. Facciamo un paragone Nel Milleottocento settantadue, Senarica fu illuminata a gas: chi l’ha fatto? Io. Nel Milleottocento settantatré, si è fatto il corso di Senarica: chi l’ha fatto? Io. Nel Milleottocento settantasette, Senarica ha avuta la stazione della ferrovia: per chi l’ha avuta? Per me. Nel Milleottocento settantanove, Senarica ha avuto il comando della Divisione militare: per chi l’ha avuto? Per me. Fatemi grazia: chi ha fatto più bene alla patria, io o i poeti come vostro padre?»

«Ma la patria non è Scnarica . »

«Molto bene Ma se ogni cittadino di ogni città d’Italia, invece di turbare la pace del suo paese e andare in galera, avesse pensato alla prosperità e al decoro di essa, non avrebbe pensato alla prosperità e al decoro dell’Italia?»

«E l’unità, e l’indipendenza. Solo la prosperità materiale forma la felicità della patria?»

«Ecco le vostre poesie! Nel fatto, dov’è questa prosperità morale? Voi avete letto tante belle parole sui libri e sui giornali, e l’avete prese per moneta corrente. Io non so che significa libertà, perché so che, in ogni tempo, chi ha badato ai fatti suoi è stato sempre rispettato. Di tutte le altre vostre chiacchiere, so solamente che la miseria cresce e cresce il mal costume. Ma se ogni cittadino avesse pensato alla prosperità del suo paese nel senso mio, avrebbe pensato anche alla civiltà; e pensando alla civiltà, avrebbe pensato anche a… tutto il resto perché la civiltà trascina. Ecco che significa non essere positivi».

Don Clementino tacque, guardando ’Nanìa con un sorriso beffardo a fior di labbro. Ma come questi, sbalordito, taceva, ripigliò:

«Del resto, caro sôr ’Nanìa, le chiacchiere se le porta il vento. Comprendo che la vostra posizione è dura, ma sarà tanto più onorevole per voi, se ne saprete trionfare. E vi assicuro per prova, che dà molta più soddisfazione poter dire: quello che sono, lo devo a me stesso… Non vi persuade?»

La domanda dello zio Clementino fu provocata da un improvviso sguardo di meraviglia che il giovine gli rivolse. Erano le stesse massime che lo zio Decoroso aveva attinto nelle profondità del bicchiere straordinario.

«Per far ciò, occorrono volontà e fermezza. Non bisogna mai né sconfidarsi né stancarsi né riposare. Sarebbe tempo perduto inutilmente. Voi non siete povero, perché avete ingegno e gioventù, ed è facile per voi quello che è impossibile per altri. Ma fuori poesie: imparate a conoscere gli uomini e il mondo, che sono molto diversi da quello che sta scritto nei libri. E quando sarete arrivato a concludere qualche cosa… non dubitate, si arriva sempre… quando sarete arrivato a conchiudere qualche cosa, allora tutto il mondo vi farà onore… io pel primo, se Dio mi farà la grazia di ricordarmelo. Rammentatevi che voi avete il dovere di arrivare: i Pinti sono stati i primi in tutto… Canchero! sono le due», interruppe, guardando l’orologio «Come portano a lungo le chiacchiere! lo debbo andare al consiglio di amministrazione della Banca nazionale. Dunque, caro sôr ’Nanìa, a rivederci. Mi ha fatto piacere di perdere un poco di tempo con voi, perché così vi ho aperta la mente. Così non potrete dire che il povero vostro zio è un cattivo soggetto: avrei potuto mandarvi via, ricordandovi il rispetto che si deve alla mia età, e invece vi ho dato ogni sorta di soddisfazioni. Statevi bene, statevi bene, tanti saluti a donna Emilia».

’Nanìa partì dallo studio dello zio Clementino. Giunto in strada, gli parve essere uscito da un mondo nuovo; e camminando per le vie inondate di sole, non riusciva a raccapezzarsi. Lo zio Clementino era un cinico perverso o un uomo saggio ed onesto? Lo aveva trattato così umanamente per bontà di animo, per bisogno di giustificarsi, o per una fina malizia, affinché il torto non fosse mai dalla sua parte? ’Nanìa sapeva due cose soltanto: la logica dello zio l’aveva messo a tacere; e a malgrado di essa, era fuori dubbio che. se avesse voluto, lo zio Clementino avrebbe potuto sollevare la famiglia di suo fratello dalla trista condizione in cui era caduta.

Per calmare quella fastidiosa agitazione dell’animo che gli rattristava l’esistenza e lo rendeva cattivo, ’Nanìa prese il partito di non pensare più alle cose avvenute, e rassegnarsi al suo stato. I due zii, così diversi d’indole e di vita, ragionando con lui. erano giunti ad una medesima conchiusione; questa conchiusione di due uomini pratici che avevano molto vissuto, ognuno alla sua maniera, corrispondeva ai suoi ideali, foggiati sui precetti ed esempi di tanti libri morali ed istruttivi che non tengono conto delle debolezze dell’umana natura. Quest’ideali, dunque, non erano una cosa astratta; per cui poteva mettere l’animo in pace, proponendosi di battere arditamente la via spinosa apertagli dal suo destino, con la certezza di fare una cosa umanamente possibile. E così, si sentì tolto un gran peso dal cuore.


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