giovedì 21 settembre 2023

L’Artsakh è finito? Non arrendiamoci

Il 9 e il 10 settembre di quest’anno, come di consueto, i legittimisti italici si sono riuniti a Civitella del Tronto per ricordare il sacrificio dei soldati che per ultimi difesero la fortezza, la Montejurra italica. Immaginando gli ultimi giorni dell’assedio di un’altra piazzaforte del Regno delle Due Sicilie, Gaeta, nel suo romanzo Non mi arrendo (Controcorrente, 2001), l’amico Gianandrea de Antonellis scrive che il suo protagonista, Luigi Vinciguerra 

«respirava l’atmosfera di una visita di condoglianza. In effetti i morti, intorno a loro, c’erano, ed erano anche in gran numero, ma mai si era dato un simile cordoglio, nemmeno quando erano stati strappati alla vita terrena a breve distanza l’uno dall’altro i tre importanti ufficiali, tra i quali suo zio Emanuele, commemorati qualche giorno prima. La circostanza doveva esser quindi diversa: la dipartita, forse, di un parente del Re? Forse della Regina madre? O, Dio non volesse, del Papa? Nulla di tutto ciò: ma la notizia cadde ugualmente come una mazzata sul capo di Luigi. Il Re aveva deciso di capitolare». 

E durante la Santa Messa per i Martiri della Tradizione, a Civitella sono stati ricordati anche i caduti di Gaeta e i soldati periti nella difesa di Roma dall’invasione italiana. 

Proprio nell’anniversario della breccia di Porta Pia, ieri, 20 settembre 2023, ci è giunta una notizia terribile. 

Il governo armeno dell’Artsakh, sotto i colpi di ordigni di fabbricazione israeliana, credeva che gli Stati Uniti avrebbero dato una mano nella risoluzione del conflitto con gli azeri, e in effetti l’hanno data: poco dopo il riposizionamento geopolitico armeno a favore di Washington il nemico è penetrato anche nei territori in cui sino a quel momento non aveva messo piede. 

Ciò che avevamo previsto è avvenuto: a seguito di un accordo, le truppe russe che difendevano l’Artsakh si sono ritirate e l’esercito azero ha invaso ciò che resta della repubblica indipendente. Il governo di Baku ha chiesto la smilitarizzazione totale della zona e la soppressione di ogni ente amministrativo non riconosciuto dall’Azerbaigian. Intanto i bombardamenti proseguono e il ridicolo Antonio Tajani, che fino a pochi giorni fa si faceva fotografare col dittatore azero Aliyev intento a giocare con le mappe e i confini, ha fatto sapere ai suoi ingenui seguaci che: «Siamo pronti a offrire nostra mediazione e invitare a Roma rappresentanti […]. Proposta: modello Alto Adige». Non è un telegramma, è il ridicolo linguaggio che usano oggi i nostri politici, con poche parole inframmezzate da simboli e bandierine… quanto siamo caduti in basso! 

Nel romanzo L’osteria volante (1914) – libro che invitiamo tutti a recuperare –, Chesterton utilizza una frase emblematica: «Oggi ho visto qualche cosa che è peggiore della guerra: il suo nome è Pace»; questa è la pace che soddisfa gli opinionisti (e “filantropi”) filo-ucraini che ammorbano ogni spazio di informazione sia loro concesso in Italia, da ieri molti di essi lodano proprio questa pace piovuta sul Caucaso: la pace che permetterà agli azeri di portare avanti un genocidio. 

Non ci sarà nessun modello tirolese in Artsakh: con ogni probabilità migliaia di azeri, nati ben lontano da quei monti, si trasferiranno lì come coloni e gli armeni dovranno andarsene. Ma andarsene dove?

Gruppi di profughi si sono accalcati all’aeroporto di Stepanakert, dove ieri sventolava ancora la bandiera russa, garanzia che da qui le persone potranno partire per lasciare il paese. Gli accordi internazionali al momento non ci sono, si deve ancora raggiungere una soluzione condivisa, ma secondo alcune notizie che circolano in queste ore la Repubblica di Armenia potrebbe non permettere ai residenti dell’Artsakh di entrare nel suo territorio nazionale; una delle condizioni della resa potrebbe essere quella di non fornire gli abitanti della regione un corridoio: dovranno accettare la cittadinanza azera, oppure partire da Baku, dopo che le autorità azere avranno deciso chi potrà lasciare il paese e chi sarà giudicato colpevole di non ben definiti crimini. Questo sospetto spiegherebbe perché molti abbiano scelto di partire subito, ma dove sono diretti? In Russia? In Iran? Negli Stati Uniti? Ancora non lo sappiamo con certezza. 

In Italia i propagandisti ucraini, evidentemente arrivati all’apice della disinformazione, descrivono gli accadimenti in corso come una sconfitta russa, ma mostrano semplicemente di non capire nulla. Se vogliamo essere malevoli, alla luce di ciò che sappiamo, quello tra Russia e Azerbaigian potrebbe essere stato un patto paragonabile in parte al Trattato di Campoformido. Già ai primi di dicembre del 2020 era corsa voce che il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko avesse offerto al terzo presidente armeno Serzh Sargsyan l’equivalente di cinque miliardi di dollari per rinunciare a sette province dell’Artsakh e normalizzare i rapporti con gli azeri (come prova di tale conversazione ci sarebbero delle registrazioni telefoniche risalenti al 2016). Forse, quindi, era già stato tutto preventivato da anni, e si è semplicemente arrivati al 20 settembre secondo la strada peggiore, e più crudele…

La morte di alcuni soldati russi nei momenti concitati e confusi del cambio di poteri non è ancora stata confermata ufficialmente e possiamo ritenere che Mosca trarrà dei vantaggi dalla nuova situazione del Caucaso. Da ieri l’Azerbaigian non ha più alcun motivo di contesa con la Russia e non avrà più delle ragioni valide per sostenere l’Ucraina con armi e volontari. I rapporti economici tra la Federazione Russa e Baku sono positivi e di reciproco vantaggio. Chi afferma che la Russia è “uscita dal Caucaso” mostra solo di non conoscere né la Geografia, né la Geopolitica e non vale neppure la pena di dilungarsi. 

Putin è e resterà un mediatore fondamentale tra i paesi caucasici, ha avuto un incontro con il ministro degli esteri cinese Wang Yi e ha dichiarato che la Russia collaborerà attivamente con tutte le parti coinvolte nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian, citando Yerevan, Baku, ma pure Stepanakert. 

Ora anche il grande alleato degli azeri, la Turchia, avrà meno problemi con la Russia e la NATO potrà tornare a tirare un sospiro di sollievo: lo scontro tra i blocchi contrapposti è stato rimandato ancora una volta. In tutta questa storia ci hanno rimesso solo gli armeni. 

Forte è il timore, ormai simile a una certezza, che la fine dell’Artsakh sia iniziata. Così si chiude anche la serie di articoli che tra queste pagine abbiamo dedicato a una lunga e disperata resistenza. Forse uno storico del futuro raccoglierà questi nostri scritti, e forte della conoscenza di documenti e punti di vista a noi sconosciuti ci biasimerà, ma noi abbiamo la certezza di esserci espressi con onestà e franchezza, senza nascondere nulla. 

Un’altra tragedia si è consumata, al momento risulta che si siano perse le tracce di molti abitanti dell’Artsakh; possiamo solo pregare. 

Nel romanzo Non mi arrendo, il protagonista Luigi accetta un destino in cui in parte fatica a riconoscere il disegno e la mano di Dio. E anche nella realtà del nostro presente, ogni domanda che nasce in noi trova risposta nelle Sacre Scritture e in ciò che ci rivelano con chiarezza sui destini inevitabili dell’uomo. Preghiamo, ma continuiamo a lottare come possiamo, almeno per far conoscere al maggior numero di persone possibile il disastro che si è abbattuto sul popolo armeno: non arrendiamoci, forse un giorno qualcosa cambierà. 

Riccardo Pasqualin

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