Coloro che abitano il territorio della Repubblica Italiana pagano un canone televisivo per ascoltare propaganda a stelle e strisce: se il tuo nemico è la Nato non puoi difenderti, non hai il diritto di reagire. Continua a essere ripetuto il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito, dei russi che superano il confine senza una ragione. Viene ripetuta la domanda: “Quale confine ha superato l’esercito ucraino?”
La risposta è: le milizie nazionaliste ucraine hanno sconfinato nelle lande maledette dell’odio di razza, hanno superato il confine dell’attacco ai costumi e alla lingua, violato il rispetto dell’esistenza di un popolo.
Dire “no alla guerra” e basta è una riflessione incompleta; gli appelli alla pace sono sempre giusti, ma non possono disconnettersi dalla realtà. Senza lotta per la pace non c’è giustizia e senza la sconfitta dell’atlantismo non c’è vera indipendenza. Per questo tanti uomini in tutto il mondo sono vicini al governo della Federazione Russa. Uomini di tutto il mondo tengono gli occhi puntati sul fronte in attesa di notizie, perché credono che da questo scontro dipenderà anche il loro futuro. Il crollo dell’egemonia statunitense fermerà le rivoluzioni ideologiche? «Era quello il giorno atteso da anni», così scrive Dino Buzzati nella prima pagina del suo romanzo Il Deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940. Non è strano pensare di rileggerlo oggi, quando tanti, così di frequente, parlano di una nuova stagione per il mondo? Se in un passaggio del romanzo, però, la ridefinizione dei confini è determinata dalle posizioni occupate da delle spedizioni tutto sommato pacifiche tra le creste montuose, altrettanto non può dirsi oggi sul fronte russo-ucraino, dove si combatte per settimane per pochi chilometri quadrati, o nell’est della Repubblica di Armenia, dove l’esercito azero intacca l’integrità dello Stato con piccole, ma cruente avanzate.
Rileggendo questo capolavoro, possiamo concederci questo bonario azzardo, ma senza dimenticare che la nostra tranquillità è fragile e la situazione globale è critica.
Buzzati compose il suo libro più celebre mentre lavorava alla redazione del Corriere della Sera, una mansione che «lasciò al giovane Dino il tempo di annoiarsi nelle giornate vuote dell’archivio, nelle lunghe notti in cronaca, nella ritualità della vita [...]» (1). Così contestualizzate assumono tutto un altro senso le parole del capitolo III: «Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?». Non esiste il rischio che anche le nostre vicende d’attualità, reali e presenti, siano la storia del destino di un uomo medio che spera in un’occasione, la quale sta per realizzarsi e poi svanisce?
L’abilità di un narratore si coglie nella sua capacità di saper descrivere e catturare in maniera indimenticabile delle sensazioni che tutti conoscono, ma che pochi sanno rendere sulla carta. Ad esempio quando Rigoni Stern parlava dell’“odore della neve”, che in realtà è solo il freddo pungente che colpisce le mucose del naso in inverno. Il freddo a volte avvolge come un’aurea chi entra in casa dopo tanto tempo trascorso al gelo, ogni ragazzo veneto si è sentito dire almeno una volta: «Te se da fredo!» (puzzi di freddo).
Quando si è giovani, scrive Buzzati, la vita appare «inesauribile, ostinata illusione»; il narratore dipinge così i sentimenti del suo protagonista: «Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro presenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta». Ma gli anni passano e non è raro che in ambienti controrivoluzionari, chi per decenni ha desiderato di vedere un cambiamento, arrivi alla vecchiaia temendo di non riuscire ad assistervi. «Uguale è il cielo, uguale il deserto dei Tartari»!
Cadrà infine «la fortezza Bastiani»? È tutta un’attesa inutile? Questo non lo possiamo sapere, ma chi sa di essersi sempre impegnato per contrastare la dissoluzione con i mezzi che aveva non deve compiere l’errore di ritenere che gli eserciti russi siano senza alcuna ombra di dubbio un catechon degli anni Venti. La moltitudine delle forze russe e dei loro sostenitori, presa tutta insieme, non coincide con la difesa della tradizione.
Ciò che invece è certo è che ogni singolo uomo è chiamato ad agire da catechon. Nella buona battaglia non c’è chi arriva tardi, ci sono solo quelli che (come hanno potuto) l’hanno combattuta.
Riccardo Pasqualin
(1) Ferruccio De Bortoli, Buzzati e il «Corriere». Il giornalista e lo scrittore, in «Studi buzzatiani», anno XVIII, 2013, p. 90.
Nessun commento:
Posta un commento