Antonio Baschirotto (1842-1920),
uomini e cose della vecchia Padova
di Riccardo Pasqualin
Nel novembre del 1923, in apertura al libro Uomini e cose della vecchia Italia, Benedetto Croce scriveva che nella stesura di alcune sue opere storiche si era imbattuto in figure e temi che avrebbe voluto approfondire maggiormente «senonché» non gli era stato dato «di trattarne in quei libri, perché uscivano fuori dal loro disegno» (serie prima, seconda edizione riveduta, Laterza, Bari 1943).
Così è stato anche per lo scrivente quando tra il 2020 e il 2021 si è trovato a redigere il saggio introduttivo della riedizione del Don Pedro di Elisonda (1900), il dramma storico carlista del vicentino Giovanni Martini (1876-1905), affrontando in uno spazio limitato il vasto argomento dell’intransigentismo cattolico nel Veneto. «Se la fortuna consentirà», chi scrive continuerà a studiare questa porzione di storia regionale che da alcuni decenni pare dimenticata dai più. Come per Croce, «mi è assai grato rintracciare e rievocare queste memorie, quasi ricordi di famiglia» (ibidem).
L’attivista
cattolico patavino che, per necessità, più è stato trascurato nell’anzidetto
studio su Martini è il padovano Antonio Baschirotto (1842-1920), amico dei suoi
concittadini e colleghi giornalisti Giuseppe Sacchetti (1845-1906), Alessio De
Besi (1842-1893) e Pietro Balan (1840-1893).
Nel
maggio del 1868, Baschirotto fu tra i fondatori del Circolo S. Antonio di Padova
e in seguito collaborò con il comitato diocesano dell’Opera dei Congressi,
confermandosi un ottimo organizzatore. Si laureò a Padova in Filosofia nell’agosto
del 1872, ma divenne avvocato e direttore della Biblioteca Cattolica per il
Popolo («La Dalmazia Cattolica», Zara 19 settembre 1875, anno VI, n. 38).
Gli
anni dei suoi studi furono tormentati dagli attacchi degli anticlericali; un
testimone di quei giorni travagliati racconta: «[a Padova] Bastava avere nomea
di studenti cattolici per ricevere una solenne fischiata ad ogni apparire.
Qualche volta, oltre ai fischi, lavoravano le mani, e il povero cappello di
qualcuno andò spesso a fare conoscenza delle orecchie». Gli italianissimi
insultavano gli intransigenti chiamandoli “malvoni” e “nemici della patria”:
«Talvolta il furore liberale rincrudiva, e allora erano minacce serie di bastonate
e peggio. Conveniva che ci armassimo anche noi, e che evitassimo le posizioni
pericolose. Ricordo ancora quelle sere, quando un manipolo di coraggiosi doveva
accompagnare a casa l’ottimo Baschirotto, perché al
principio della via ove abita, stavano appostati ad aspettarlo alcuni
valentissimi, fiore di patrioti» (Ricordi di Giuseppe Sacchetti,
riportati da Francesco Saccardo, in «La Difesa», 27 ottobre 1908). Oggi, le
persecuzioni ottocentesche contro i cristiani – dimenticate dai più – ci
riportano drammaticamente alla realtà della nostra epoca, forse non molto nella
Penisola è cambiato da allora...
Anche
se spesso non lo si ricorda, il risorgimento nel Padovano è stato anche questo;
tra il 1859 e il 1866, infatti, la polizia austriaca non difese adeguatamente i
cattolici veneti, confidando con questa logica del “non intervento” di
conservare il quieto vivere. Dopo la pace di Villafranca (11-12 luglio 1859) il
Veneto era rimasto sotto il controllo asburgico, ma (come osservava Cesare
Cantù) ci sono rivoluzioni che non abbattono i governi, eppure riescono a
snaturarli e a privarli del loro potere, nonché del rispetto dei sudditi.
Il
Nostro scrisse alcuni saggi divulgativi sulle elezioni amministrative.
Sostenitore dell’astensionismo spiegava che «l’influenza de’
cattolici a far buone leggi sarà nulla; e per contrario la loro entrata in
Parlamento servirà solo ad assodare il Governo Rivoluzionario», consigliava
quindi di non lasciarsi coinvolgere a livello nazionale, lasciando che il
settarismo partitico si autodistruggesse (Anonimo, Se sia espediente l’entrata
de’ Cattolici nel parlamento italiano, in «La Civiltà
Cattolica», anno 30, serie X, vol. X, 1879).
Contro
uno di questi volumetti, Le elezioni politiche in Italia e i cattolici (Tipografia
del Seminario, Padova 1878), si scagliò un garibaldino di Udine che accusò il
padovano di austriacantismo: «Ma, Dio mio, che cosa ci ho trovato in questo
libro? Dei consigli a non concorrere alle elezioni! Dunque, se tutti i
cattolici seguissero il consiglio del sig. Baschirotto non si farebbero le
elezioni [...]». Nella protesta della camicia rossa non manca neppure un
accenno di razzismo verso i tedeschi e gli slavi (una tendenza ancora
abbastanza ignorata anche da certa storiografia nazionalista contemporanea):
«Noi cittadini italiani, a cui non piaceva né il sego croato, né il Terteufel
tedesco, abbiamo fatto di tutto, non lo nego, per far sgomberare casa nostra da
quei ladri puzzolenti; e ce ne lodiamo ancora. Non pretendiamo per questo di
avere fatto l’Italia, perché l’aveva fatta
Domeneddio una tra le Alpi ed il mare e la aveva data ad abitare ad una stirpe
che parla la stessa lingua ed i cui figli s’intendono tra loro;
ma pure fu un gran benefizio voluto da tutta la gente onesta la rivoluzione a
cui Domeneddio mostrò il suo favore coronandola di buon esito. Non erano poi
soltanto i tedeschi ed i Croati quelli che venivano a rubarci il nostro. Ci
furono in più volte Spagnuoli, Francesi ed anche da ultimo questi, assieme agli
Svizzeri, avevano occupato la nostra Roma» (Uno dei mille, Protesta per
danni e spese, in «Giornale di Udine», anno XV, martedì 2 marzo 1880, n.
53). Ma l’avvocato veneto era fermamente convinto che la “questione
Romana” fosse solo una delle tappe di una tragedia mondiale che richiedeva una
soluzione internazionale, e In la vita politica dei cattolici in
Italia. Considerazioni (Tipografia Del Seminario, Padova 1879) aveva
obiettato: «Finché la rivoluzione è stata ristretta ai confini del Piemonte, la
questione era pari a quella di qualunque altro paese, ed i cattolici erano in
dovere di fare ogni loro passo per combatterla […]. Ma dal momento che […] essa
è uscita dal Piemonte per tendere alla sua meta necessaria […] la questione non
era più italiana; essa diveniva mondiale. Nuovi e più importanti doveri ne
venivano pertanto ai cattolici italiani in faccia ai cattolici del mondo» (cit.
da Luigi Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica
estera in Italia dal 1871 al 1914, Bari, Laterza 1970, pp. 28-29, n. 34).
L’opera
più famosa di Baschirotto non è però politica, si tratta infatti dell’opuscolo
Guida artistica e religiosa di Padova per i pellegrini, stampato dai
Fratelli Drucker (proprietari di una tipografia padovana e di una veronese) nel
1895, ed avvicinandosi il 13 di giugno non vi è momento migliore nell’anno
per ricordare questo piccolo fascicolo. A suo tempo, La Civiltà Cattolica accolse
la pubblicazione con assoluta fiducia: «Opportunissima, in questo centenario di
S. Antonio giunge una nuova guida di Padova; e quando si sa che n’è
autore il ch. Baschirotto, nome caro ai cattolici quant’altro mai, si può
comperarlo con sicurezza di trovarvi, per la parte religiosa, quella fede onde
arde il suo cuore; per la parte storica, notizie copiose ed attinte alle fonti
più autorevoli; per la parte artistica, giudizii retti e conformi al gusto più
sano. Crescono pregio al libro la pianta della città, e le belle fototipie che
ne illustrano i monumenti» (anno 46, serie XVI, vol. III, quaderno 1082).
È
appunto un piccolo scritto questa guida, ma fu utile a tanti
viaggiatori, che forse in gran parte non seppero mai delle umiliazioni a cui in
gioventù fu sottoposto il suo compilatore.
Il
testo ottenne il visto di approvazione per la stampa da parte della Cancelleria
vescovile il 20 maggio 1895, si apre con una storia della città e una sintesi
della biografia di Sant’Antonio (perfetto connubio
ispano-italico), seguono le descrizioni degli edifici religiosi: ovviamente la
Basilica del Santo, Santa Giustina e la Cattedrale. Le descrizioni sono
completate dai capitoletti sulle insigni reliquie, i corpi dei santi e i
monumenti laici di maggior pregio: il Salone e il Palazzo della Ragione, il
Prato della Valle e i musei civici. Meditando su queste note si può ancora
immaginare un bell’itinerario per una gita, ma al
cattolico patavino deve sorgere anche un’altra riflessione: la
nostra architettura separata dal suo carattere religioso non ha senso. Nei
luoghi di culto i cristiani non possono vedere esclusivamente l’artisticità
o l’utilità pratica delle strutture, non ne devono ignorare
il significato spirituale. Aver impresso nell’architettura un
carattere cristiano è un prodotto naturale della storia padovana e se oggi non
si riesce più a costruire edifici gradevoli (compresi quelli di culto) è perché
chi li progetta ha perso la religiosità, che è il seme del sentimento della
bellezza. Tutte le meraviglie di Padova sono nate come creazioni vive della
Fede di chi è vissuto nel passato, e ne riflettono la visione del mondo. Quando
a giugno, alla processione del Santo, si vedono gli uomini delle corporazioni
con i loro abiti caratteristici si rimane colpiti dai loro stendardi colorati,
ma realizzando che questi enti hanno perduto la loro dimensione di corpi
intermedi cresce la tristezza di essere a cospetto di simulacri, eppure ciò che
ci circonda potrebbe ricordarci ancora il modello dei nostri padri e riportarci
a seguire le loro orme nel presente. Innanzitutto l’esempio di Sant’Antonio,
definito da Manuel de Azevedo (1713-1798): «Un apostolo, che, appena cominciò
ad esser noto al mondo, divenne il martello degli eretici e in Rimini, in
Milano, in Tolosa li cercò, li convinse in pubbliche dispute colle prove
evidenti delle Scritture e de’ Padri; e non arrestandosi per
veleni o tradimenti, né rimettendo perciò di sua dolcezza in trattarli, operò
in vita i più stupendi miracoli, a fine di ridurli al grembo di santa Chiesa,
un tal apostolo, dico, non doveva dal cielo rimettere quel suo gran zelo per
loro, e Dio dovea coi miracoli a questo fine proseguire a glorificarlo. [Dio
gli permise di operare] [...] la conversione miracolosa di eretici non pure, ma
di maomettani ancora e di gentili, quasi Dio gli abbia conceduto nella sua
beatitudine la grazia negatagli in vita, quando dall’Africa, a cui era
indirizzato il fece passare all’Italia a salute de’
cristiani o degli eretici o de’ malcostumati cattolici» (Vita
di Sant’Antonio di Padova taumaturgo portoghese, ediz.
Emiliana, Venezia 1852).
È
solo perché esiste l’universalismo cristiano
(inconciliabile col mondialismo e il cosmopolitismo progressista) se i patavini
possono intonare le parole di una celebre canzone del 1976: «Rivedo
tutti i popoi/ Davanti a sta basiica».
Nel
1942 Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, noi rispondiamo
che non si può essere veramente padovani senza essere cattolici.
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