martedì 13 agosto 2019

La società tradizionale e i suoi nemici


Recensione a: 

José Miguel Gambra, La sociedad tradicional y sus enemigos, Guillermo Escolar, Madrid 2019, p. 238, € 15


Una sintesi efficacissima del pensiero politico tradizionale, definita «il libro dell’anno e un libro per molti anni» dal periodico "Las Libertades" e «un libro per dissidenti autentici e non di facciata» dallo scrittore cattolico Juan Manuel de Prada. E la lettura non delude le aspettative. L’autore è José Miguel Gambra, nato a Pamplona nel 1950, è ordinario di Logica presso l’Università Complutense di Madrid e, dal 2010, Capo delegato della Comunione Tradizionalista, come lo fu il padre, Rafael Gambra (1920-2004), illustre docente universitario e filosofo neotomista.
Il testo – ci avverte l’autore – non è una confutazione estemporanea dell’opera di Popper La società aperta e i suoi nemici, saggio che si è limitato a suggerire il titolo della presente opera: i nemici della società tradizionale sono, infatti, sia la “società aperta” che i suoi nemici, essendo sia il liberalismo che il totalitarismo due facce della stessa medaglia.

La tradizione può essere intesa in due modi: in senso dinamico, come trasmissione della cultura da una generazione all’altra (in modo cumulativo, ma critico, cioè scegliendo il meglio del passato e apportando miglioramenti); oppure – in senso statico – come cultura trasmessa, acriticamente riportata (pensiamo agli Amish). Il secondo è un falso tradizionalismo, poiché il vero tradizionalista non pretende di vivere nel passato bensì, una volta spezzata la tradizione, recuperane i princìpi, i valori. Il Carlismo appartiene sicuramente al tradizionalismo “dinamico”. Eppure, «la malevola ignoranza di storici e giornalisti ha bollato il Carlismo come assolutista, fascista, separatista, se non clericale; e, tra gli eretici usciti dalle sue fila, non sono mancati liberali, democratico-cristiani, socialisti e comunisti. Il pensiero carlista non s’identifica con alcuno di essi, pur avendo qualcosa del loro pensiero: ma non perché il Carlismo sia eclettico e abbia spilluzzicato qui e là per creare un’ideologia incoerente. Al contrario, sono tutte quelle altre correnti politiche che hanno attinto al corpo dottrinale carlista – che si basa essenzialmente sul periodo di maturità della Cristianità – dando luogo alle proprie ideologie, sempre faziose, sempre deboli, cieche, monche o zoppe.
La dottrina tradizionale, fusione della sapienza cristiana con un’esperienza naturale millenaria, cerca di dare ad ogni aspetto di una realtà sociale enormemente complessa il posto che le corrisponde, in maniera da non concepire la società né come una moltitudine disgregata, né come una unità monolitica; non vede l’uomo come un angelo materializzato né come un robot particolarmente complesso; non ammette alcun dispotismo, ma non tollera l’anarchia; non riduce la politica ad economia, ma non prescinde da essa; non confina la religione a questione di coscienza, ma non concede al sacerdozio il potere politico diretto; e sostiene una monarchia temperata, non quella assoluta» (p. 17-18).
Per spiegare quale siano i fondamenti filosofici dell’ideario (e non ideologia!) carlista, il punto di partenza è la razionalità aristotelica, che Gambra contrappone al razionalismo illuminista, anche proponendo il gustoso apologo di un philosophe che per sbaglio esce di casa, anziché con il proprio bastone, con un metro di un carpentiere e che, accortosi dell’errore, si chiede che farne e si lascia trascinare da una serie di riflessioni astratte che lo allontanano dalla risposta più ovvia: restituire l’oggetto. Ancora più esilarante la descrizione di ciò che accade ad un suo giovane allievo, che raccoglie il metro abbandonato dal “maestro”. Sarà solo un vecchio contadino, istruito dai principi della religione anziché da quelli della filosofia alla moda, a compiere ciò che è più giusto e naturale: restituire lo strumento.
Ribadito il carattere sociale dell’uomo – che dai primordi della Storia nasce, vive e muore all’interno di una società – l’Autore analizza quindi il concetto di “bene comune”, mutuato da Aristotele e perfezionato dal pensiero cristiano (vivere “bene” significa vivere virtuosamente e il bene comune non va quindi inteso – nel senso liberale – come beneficio personale o come l’utile dello Stato). Ricordando le parole evangeliche «date a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio», Gambra commenta: «Poiché è palese che Nostro Signore esiga questa duplice obbedienza indirizzata al bene comune, […] come può il cattolico, senza cadere in un conflitto insolubile, cercare il bene comune immanente sotto la direzione di un Principe ed il bene comune trascendente sotto la direzione del Sommo Pontefice? Tale questione sembra avere solo due possibili soluzioni: unire il potere o dividere il cristiano» (p. 54-55).
L’unione dei due poteri non va intesa nel senso di fusione (come avveniva nell’antichità o avviene in certi Paesi protestanti, quale l’Inghilterra), bensì come armonia tra loro, giustificata dalla comune origine divina e dalla complementarità dei fini, evitando sia il cesaropapismo (l’intromissione del potere civile nelle questioni ecclesiastiche) che la gerocrazia o clericalismo (l’abuso inverso). Dopo vari esempi di fallibilità papale (dalla deposizione di Federico II e la sua sostituzione con Luigi IX, rifiutata dal Re Santo, perché il Papa «non è competente in tali questioni», all’errore sul ralliement di Leone XIII, pur validissimo teorico), Gambra riporta le parole del legittimo Carlo VII alla cugina Isabella (II), che gli proponeva di sottoporre al Papa, essendo ambedue cattolici, il giudizio su a chi di loro spettasse il Trono di Spagna: «in materia di politica considero l’opinione del Pontefice come quella di un qualsiasi altro sovrano, con molta esperienza, ma niente di più; in materia di fede o di morale, invece, mi sottoporrei completamente, perché lo ritengo infallibile» (p. 70).
Quindi, in un denso capitolo intitolato Il liberalismo: la radice del male, definisce tale dottrina (citando Vázquez de Mella) il principio per cui «ogni persona, dall’individuo allo Stato, ha il diritto a non riconoscere come limite giuridico della propria libertà, il dogma, la morale, il culto e la gerarchia cattolica» (p. 89). Successivamente, Gambra analizza il liberalismo di stampo inglese (Locke) e quello d’impronta francese (Rousseau), per giungere quindi al liberalismo cattolico (o cattolicesimo liberale), «corrente giunta a trionfare ai nostri giorni, nata all’inizio del XIX secolo e costantemente condannata dal magistero ecclesiastico» (p. 97). Da Lamennais e Maritain, ambedue accomunati dalla stessa visione liberale di fondo, nonostante le diverse vicissitudini esistenziali, l’Autore passa ad una veloce disanima della gnosi, che con i suoi ideali utopici, lontani dalla realtà effettiva, sta alla base tanto del liberalismo laico (nelle sue varianti di Locke, Rousseau e Marx) che di quello cattolico ed impedisce la soluzione dei problemi concreti del presente.
Altri problemi – e quindi altri nemici della società tradizionale – sono il nazionalismo ed il totalitarismo, cui Gambra dedica pagine interessanti: non si tratta solo di distinguere tra termini (come patria e nazione, ad esempio, etimologicamente identici, ma il primo utilizzato dalla filosofia politica classica, il secondo da quella moderna), quanto di distinguere il fine che essi si pongono.
Il patriottismo “naturale” corrisponde al sentimento di “pietas” per la patria terrena (mai dimenticando la patria celeste, obiettivo finale della nostra esistenza): poiché nasciamo in una società concreta (la famiglia), inserita a suo volta in altre società concrete (la città, lo Stato), così come dobbiamo rispetto ai genitori, lo dobbiamo anche alla patria, purché i fini di questi siano leciti. E come non dovremmo seguire i genitori che ci volessero allontanare dalla vera religione, così non dovremmo obbedire a governanti che comandino il contrario di ciò che è voluto da Dio. Il problema dei «patriottismi spuri attuali [è che] hanno perduto di vista il fine naturale e soprannaturale della vita umana nella società» (p. 117).
Passando alla questione della nazione moderna, vista nella sua triplice espressione di nazione-contratto (costituzionale), nazione-razza (hitleriana) e nazione-stato (mussoliniana), essa viene ampiamente affrontata anche con riferimenti impliciti alla situazione spagnola attuale e al nazionalismo catalano. Un punto dolente, quest’ultimo: spesso si sente ripetere la frase di Marcelino Menendez Pelayo (1856-1912) secondo cui la rottura dell’unità porterebbe ai cosiddetti “regni di Taifas”, con riferimento ai caotici regni arabi d’Iberia. Un timore effettivo; ma, in una prospettiva tradizionale, la minaccia non deriverebbe tanto dalla frammentazione territoriale o, conseguenza più grave, dal caos politico, bensì – sottolinea Gambra – soprattutto dal fatto di essere musulmani, perdendo la propria identità religiosa (cfr. p. 129).
Come il falso patriottismo è uno dei nemici della società tradizionale, così lo è anche il dispotismo, di cui vengono considerate le varie declinazioni: assolutismo settecentesco, parlamentarismo post-rivoluzionario ottocentesco, totalitarismo novecentesco, cui va aggiunta la democrazia mediatica – o partitocratica – attuale. «Il totalitarismo è come un campo di concentramento che schiavizza i cittadini, mentre la democrazia sembra un riformatorio che li tratta come bambini da rieducare» (p. 149).
La presenza di corpi intermedi, unico e naturale rimedio al dispotismo, è però generalmente assente dalle previsioni costituzionali e, quando previsto (come nel caso della Costituzione spagnola del 1978), è di fatto schiacciato dal sistema partitocratico.
Infine l’ultimo capitolo è dedicato alla forma di governo: nella pars construens di questa sezione, l’Autore dimostra come sia importante la ricerca teorica della perfetta forma di governo, quantunque si debba fare la massima attenzione a non cadere nell’errore (verrebbe da dire nel crimine) di cercare di applicare uno schema astratto senza tenere conto della realtà sociale con cui si ha a che fare.
Partendo dalla distinzione delle tre forme pure di governo (monarchia, aristocrazia e repubblica – le cui ben note degenerazioni sono rispettivamente tirannia, oligarchia e democrazia), Gambra, sulla scorta di San Tommaso, propone come ottimale una forma mista che, unendo monarchia, aristocrazia e repubblica possa evitare degenerazioni. Per varie ragioni, però, il discorso di San Tommaso è carente: forse è più teorico che pratico, secondo alcuni critici; comunque è basato sull’os­ser­va­zione di una società, quella feudale, che non presenta le problematiche di quella moderna.
Va quindi individuata una soluzione che presenti la moderazione del potere attraverso la presenza dei corpi intermedi, il cui ruolo, già compromesso dalla monarchia assoluta, è stato definitivamente esautorato dalla Rivoluzione francese e dal trionfo del centralismo assoluto. Battersi per una restaurazione, ove possibile, o una rinascita dei corpi intermedi è quindi l’obiettivo prioritario di una corretta azione politica tradizionale.
E l’Autore conclude, andando nella esatta direzione opposta alla cosiddetta “opzione Benedetto”, proponendo una scelta attiva, anziché di ritirata: «Al cattolico non basta seguire la Chiesa, deve svolgere un’attività politica dentro la società civile. E quest’attività politica, che punta direttamente al bene comune naturale, mentre favorisce indirettamente l’attività della Chiesa, è la politica del carlismo o legittimismo» (p. 225), cioè una politica priva di deviazioni e di compromessi. Fermo restando che non bisogna «confondere il carlismo con una ideologia e la Comunione Tradizionalista con un partito» (p. 227) che offra meravigliose formule e promesse di futura felicità materiale, essendo essa invece l’ultima sistematizzazione possibile della dottrina che sosteneva la nostra società prima della distruzione rivoluzionaria.
Davvero emozionante, infine, leggere le ultime due parole che sigillano il saggio, semplici ed essenziali, ma del tutto inattese in un saggio politico: «Laus Deo». E non si può aggiungere altro.

Gianandrea de Antonellis


La recensione è apparsa sulla rivista "Veritatis Diaconia", n. 10, interamente scaricabile all'indirizzo http://www.samnium.org/veritatis-diaconia/item/67-veritatis-diaconia-n-10

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