Libere riflessioni di Aniello Balestrieri
su Non
mi arrendo di Gianandrea de Antonellis
Il Trono e l’Altare da un lato. La cosiddetta modernità
dall’altro. Non è un banale scontro tra eserciti o fazioni. È il conflitto atavico
fra il vecchio e il nuovo.
L’agricoltore Caino che uccide il pastore Abele. Il popolo
di Israele che pretende un re come gli altri popoli coevi (1Samuele 12,12).
L’operaio che deride il contadino. L’adolescente (anzi, il teenager)
che disprezza i vecchi.
Tutto ciò che è retrogrado per definizione è costretto a subire
la damnatio memoriae da parte del
nuovo. Il nuovo s’impone come tale attraverso atti di violenza fisica o ideologica
chiamati rivoluzioni. Il concetto di rivoluzione è necessariamente positivo
per definizione, altrimenti il nuovo non può autogiustificarsi come unica
alternativa possibile. Di conseguenza il buono trionfa sul cattivo, in un
fatalismo indotto che stride pesantemente con l’ateismo anti-superstizioso dei
liberali, in un circolo vizioso argomentativo che puntualmente non viene
notato.
Non mi arrendo non
è un contorno alla proto-narrativa revisionista di Carlo Alianello. È un’opera
con un linguaggio proprio, agevole e volutamente “vecchio”, che rifiuta gli standard
della narrativa moderna e si comporta come se nulla fosse stato scritto dopo il
1899.
I personaggi del romanzo hanno una forma mentis “retrograda”: ragionano vincolati alla morale,
prigionieri dell’etica, schiavi del senso del dovere, nemici di ogni forma di
edonismo, il cui Es – per usare un linguaggio psicanalitico – è costantemente
tenuto al guinzaglio dal loro invincibile Super-Io. Mica come l’uomo moderno,
libero, individualista, cresciuto a “Monopoli”, marxismo e scuola storica
hollywoodiana?!
Il romanzo si lascia divorare, tra luoghi fisici di un’ex Arcadia
divorata dalla troppa libertà e luoghi mentali impregnati di “buonismo”
all’antica, cioè di tutto ciò che ha consentito alla specie umana di rallentare
il più possibile un immancabile processo di auto-estinzione.
Non c’entra niente il borbonismo alla moda. Non c’entra
niente la presunta nostalgia di ciò che non si è mai vissuto. Vinciguerra
s’impone come la Covadonga della normativa valoriale, senza la quale oggi si è
tutti incanalati in un processo di anarchia non dichiarata di inferno amorale.
Non ci sono descrizioni di battaglie, perché non è uno
scritto di avventura. Non vi sono punte di erotismo perché non è un romanzo di
attivazione fisiologica. Non ci sono lunghi sermoni di lezioni storiche perché
si dà per scontata la sia pur minima capacità di giudizio critico da parte di
chi legge. Vi è un apparente paradosso di pessimismo contornato da relativo
lieto fine, che a mio avviso rappresenta l’autentico messaggio veicolato
dall’Autore : la Storia è ciclica oltre che Maestra di Vita. Altrimenti non
avrebbero motivo di esistere damnatio
memoriae e propaganda storica gestita dagli accademici di regime. Le
rivoluzioni avvengono a segmenti, ma il processo non è necessariamente
irreversibile, seppur proponendosi come “naturale” rispetto all’istintiva
natura individualista dell’homo oeconomicus. Ha sempre senso
difendere i propri principi dalle accuse di “arretratezza”, a costo di
incartarsi nel ruolo di nemici della Storia.
La controrivoluzione (a segmenti) ha sempre motivo di esistere.
Come Vinciguerra, come Lancia, come Borjes, come Navarra, come Ruffo, ogni
sostenitore di Trono e Altare dovrebbe quotidianamente essere orgoglioso del
proprio status retrogrado, ed infilarsi cronicamente e senza via d’uscita in
una logica di pensiero e d’azione che reciti «Non mi arrendo».
Aniello Balestrieri
Gianandrea de Antonellis, Non mi arrendo, Controcorrente, Napoli 2006 (prima edizione: 2001), p. 230, € 12
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