martedì 27 agosto 2019

Il sogno della Storia


La narrativa come strumento educativo

Ci sono più persone che conoscono le vicende storiche attraverso opere di fantasia che attraverso la lettura di saggi. Ad esempio, la guerra di secessione americana (1861-1865) è più nota al grande pubblico attraverso film come Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) di David W. Griffith (1915), pietra miliare della cinematografia statunitense, e Via col vento di Victor Fleming (1939) – e naturalmente, almeno per il pubblico americano, dai romanzi ispiratori di tali pellicole, The Clansman: A Historical Romance of the Ku Klux Klan (1905) di Thomas Dixon Jr. e Gone with the Wind (1936) di Margaret Mitchell – anziché dalla lettura di saggi storici incentrati su una fredda sequela di date e più o meno lunghe trascrizioni di documenti.
Così, per affrontare la storia della nascita di Fabrizia, oggi piccolo comune in provincia di Vibo Valentia, più che (od oltre che) a un saggio storico, necessariamente limitato localmente nella diffusione e nella riscossione dell’interesse, conviene invece affidarsi alla lettura di queste pagine che ricostruiscono una storia, vissuta come un sogno dall’io narrante della “cornice” del racconto.
Veniamo in tal modo ad apprendere che il paese sorse per volere del feudatario di quei luoghi, Fabrizio Carafa della Spina, Principe della Roccella, vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo (sarebbe morto nel 1629) il quale nel 1591 trasformò il villaggio di Prunare in un agglomerato urbano più consistente, a cui volle dare il proprio nome, fornendolo di un palazzo ducale, chiamato La Cavalera (tuttora esistente, sia pure non integralmente) e passandovi lunghi periodi estivi.
Alla ricostruzione delle vicende urbanistiche si affianca quella del tessuto sociale del paese, fatto di artigiani ed agricoltori, felici della benevolenza del Principe e angustiati solo quando Fabrizio Carafa, costretto a lunghe assenze, affiderà le terre ad amministratori disonesti.
«L’inizio dei guai» sostiene uno dei protagonisti «coincide esattamente con la fine della gestione diretta da parte dei nobili proprietari. Fabrizia era stata un’isola protetta fino a poco tempo fa. Questo è il punto da cui partire per comprendere l’enigma, senza trascurare i recenti cambiamenti avvenuti nel tipo di esazione di tributi» (p. 90).
La vicenda che si dipana e che tiene il lettore con il fiato sospeso – una vicenda di soprusi e di angherie da parte di “fattori”, che cercano di spremere il più possibile i poveri contadini – permette all’Autrice, funzionario comunale, avvocato e soprattutto amante delle proprie radici (grazie a lei è nato il sito www.vivifabrizia.it), di ricostruire la vita quotidiana di Fabrizia agli inizi del Seicento: viene alla luce il forte senso religioso della popolazione, il suo rispetto per la famiglia e per la gerarchia familiare, ma anche quelle libertà concrete (libertà al plurale: opposte quindi alla libertà astratta – necessariamente sempre declinata al singolare – che verrà imposta dal secolo successivo), come i diritti di legnatico e di pascolo,  che rendono possibile l’esistenza pacifica di tutti gli strati della popolazione.
Al malgoverno degli amministratori disonesti (quanta attualità c’è nelle pagine di Maria Cirillo!) viene contrapposta la cosiddetta logica del “buon padre di famiglia” posta in essere dal Principe, il quale si guardava bene dal vessare i suoi sudditi, poiché era perfettamente conscio che al loro benessere avrebbe corrisposto il suo stesso benessere, alla loro ricchezza la sua ricchezza, al presente e per le future generazioni.
La storia di Fabrizia – poco nota anche perché in qualche modo “schiacciata” dalla fama di due paesi vicini e molto conosciuti per diverse ragioni: Mongiana, sede del celebre complesso siderurgico borbonico e Serra San Bruno, nei cui pressi si trova la prima Certosa della penisola italica, fondata nell’XI secolo da San Bruno in persona, che vi morì – è però anche la storia dell’intero Regno di Napoli (per non dire di tutto il mondo feudale): l’accentramento del potere politico nella capitale e il conseguente allontanamento dell’aristocrazia feudale dalle proprie terre nelle grandi città è la causa principale dell’indebolimento socio-economico del Regno. In un periodo in cui, grazie all’unione personale della Corona napoletana con quella della Monarchia Cattolica – ovvero del Re delle Spagne, di cui anche Napoli faceva parte, entrando così in un “impero” sul quale «non tramontava mai il sole» e di cui proprio Napoli era la città più ampia, popolata e ricca, meta di tutti gli artisti del tempo, da Caravaggio a Cervantes, da Lope de Vega a José de Ribeira, da Guido Reni a Francisco de Quevedo e a Calderón de la Barca – e fermiamoci qui altrimenti la lista sarebbe lunghissima) – il Regno napolitano avrebbe potuto svilupparsi enormemente, data la privilegiata posizione geografica, al centro del Mediterraneo, assistiamo invece ad un costante adagiarsi su se stessa dell’economia periferica, ad uno sfruttamento delle risorse locali in favore del centralismo partenopeo. Fabrizia, finché il suo “nume tutelare”, il fondatore eponimo è presente, gode del benefico influsso della sua presenza e della sua paterna amministrazione; quando il Principe si allontana, però, rischia di decadere ed è soltanto il ritorno di Fabrizio Carafa in persona a riportare serenità e prosperità nel borgo.
Romanzo educativo, si potrebbe dire, oltre che storico e sociale, che si legge con entusiasmo e in cui l’analisi dei rapporti personali, la descrizione dei luoghi e l’approfondita introspezione psicologica fa ben perdonare alcune piccole imperfezioni nel linguaggio militare, del resto secondarie.
Il capitolo finale, Il risveglio di Maria, ci riporta a un presente novecentesco, nella seconda metà del secolo scorso: leggendolo, siamo pervasi da un senso di vera nobiltà, quella dell’animo, indipendente da quella del sangue e contrapposta a quella del denaro; le ultime parole della narrazione – «Il bambino protagonista del libro, che doveva ancora finire di leggere, non possedeva nulla, eppure era molto felice» – chiudono il romanzo regalando al lettore un senso di serenità che è ancora più forte poiché la vicenda narrata non ha il classico “lieto fine” delle fiabe di un tempo, ma termina in modo amaro o almeno agrodolce. La felicità del bambino che «non possedeva nulla», però, regala al lettore una sincera speranza per il futuro.

Gianandrea de Antonellis


Maria Cirillo, Fabrizia e il principe. La favola di un borgo, Planet Book, Castellana Grotte (Bari) 2017, p. 304, € 15,90

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