Il brano è citato da molti, ma pochi – purtroppo – si spingono ad affrontare il libro nella sua interezza.
Tuttavia, per il lettore
tradizionalista questa imponente raccolta di scritti rivela molte altre
sorprese: è una vera e propria miniera di notizie e riflessioni da cui emergono
dati preziosi per comprendere l’atmosfera di un’epoca e la prospettiva del
grande romanziere sul mondo. Particolarmente rilevanti appaiono, in questo
senso, le osservazioni dedicate da Dostoevskij al Conte di Chambord e a Carlo
VII, campioni del legittimismo europeo.
Nel Capitolo Secondo, nel testo
intitolato Altri indizi del «principio della fine», Dostoevskij
scrive: «Ho letto con grande curiosità dell’arrivo di don Carlos in
Inghilterra.», si allude a uno dei viaggi del Re legittimo nel Regno Unito dopo
la fine della Terza Guerra Carlista (1872-1876). La notizia è accostata a una
riflessione sul rapporto tra la realtà e la letteratura: «Si dice sempre che la
realtà è noiosa, monotona; per distrarsi si ricorre all’arte, alla fantasia, si
leggono romanzi. Per me, al contrario: che cosa ci può essere di più fantastico
e inaspettato della realtà?», Dostoevskij vedeva quindi Don Carlos come un Re
da romanzo, un personaggio apparentemente impossibile nell’Europa liberale, eppure
realmente esistente: «Don Carlos che arriva tranquillamente e solennemente come
ospite in Inghilterra dopo il sangue ed il massacro “in nome del re, della
religione e della Vergine”: ecco ancora una figura, un caso di “isolamento”!
Potreste voi inventare qualcosa di simile?»
Non va dimenticato il pregiudizio
anticattolico che caratterizza lo scrittore russo, che, pur restando stupito,
non poteva in ogni caso mostrare piena simpatia per un monarca fedelissimo a
Pio IX. Le opinioni dell’autore, però, si fanno più chiare nei paragrafi
successivi.
In questo “flusso di pensiero”,
Dostoevskij associa subito Carlo VII a Enrico V di Borbone: «A proposito, vi
ricordate l’episodio di due anni fa, del conte di Chambord (Enrico V)? Anche
questi è un re, un legittimista e anch’egli cercava il suo trono in Francia,
mentre don Carlos lo cercava in Spagna. Essi possono essere considerati come
imparentati fra loro, d’una stessa famiglia, e d’uno stesso ramo, e intanto,
che differenza!»
La stima dell’autore va esclusivamente
al monarca francese, Enrico V era «chiuso fermamente nelle proprie convinzioni,
una figura malinconica, elegante, umana. Il conte di Chambord, nel momento più
fatale, quando realmente poteva diventare re (naturalmente solo per un
momento), non si lasciò tentare da niente, non abbandonò la sua “bandiera
bianca”, dimostrando così che era un generoso e vero cavaliere, quasi un don
Chisciotte, antico cavaliere in voto di castità e di povertà, una figura degna
di chiudere maestosamente l’antica stirpe dei re». Va ricordato che l’opera di
Cervantes ha avuto ampia fortuna tra i russi, e anche Dostoevskij fu
affascinato dalla saggezza del letterato ispanico.
L’autore de Gli indemoniati
(libro pubblicato per altro nello stesso anno in cui iniziarono ad apparire gli
articoli del Diario) trova che il legittimo Re di Francia sia «Maestoso
e forse soltanto un pochino ridicolo, ma senza ridicolo non c’è mai nulla nella
vita», le sue parole ricordano quelle del romanziere Jean Raspail (1925-2020),
maestro dell’assurdo: «Chi ama davvero le tradizioni non le prende troppo sul
serio e va in guerra divertendosi un mondo; sa infatti che sta per morire per
qualcosa di evanescente, generato dai suoi fantasmi, una via di mezzo tra
l’umorismo e la farneticazione. Forse si tratta di un sentimento più sottile:
quel fantasma cela il pudore di un uomo ben nato che per non apparire così
ridicolo da battersi per un’idea l’ammanta di note strazianti, di parole vuote,
di orpelli inutili e si concede il piacere supremo di un sacrificio quasi fosse
uno scherzo di carnevale».
Il russo, pur sorridendo, non può
negare la profonda dignità morale di Chambord: «Egli ripudiò il potere e il
trono unicamente perché voleva diventare re di Francia non per sé soltanto, ma
per la salvezza della stessa Francia, e siccome, a suo parere, la salvezza non
s’accordava con le concessioni che si esigevano da lui (concessioni molto
possibili) egli non volle regnare. Che differenza col recente Napoleone,
ingannatore astuto e proletario, che ha promesso tutto, abbandonato tutto e
ingannato tutti, pur di arrivare al potere. Poco fa ho paragonato il conte di
Chambord con Don Chisciotte, ma non conosco una lode superiore a questa. Se non
mi sbaglio è stato [Heinrich] Heine [1797-1856] a raccontare come da bambino
sia scoppiato in un pianto [a] dirotto, quando, leggendo il Don Chisciotte,
arrivò al punto in cui l’eroe è vinto dallo spregevole e ragionevole barbiere
Sansone Carasco. Non c’è in tutto il mondo un’opera poetica più profonda e più
forte di questa». Con tale parallelo letterario egli sembra volerci dire: «par
difficile che sia possibile ai tempi nostri» (sempre per citare Gli
indemoniati).
Per Dostoevskij, il Don
Chisciotte è addirittura l’opera d’arte che svela il senso della vita,
tutto il mistero dell’esistenza umana: «L’ideale del cavaliere errante è così
grande, così bello ed utile ed ha tanto affascinato il cuore del nobile Don
Chisciotte che per lui è diventato ormai impossibile rinunziarvi del tutto,
sarebbe la stessa cosa che tradire l’ideale, il dovere, l’amore per Dulcinea e
per l’umanità (quando egli vi rinunziò, quando guarì dalla sua pazzia e rinsavì,
ritornando dalla sua seconda impresa, nella quale fu vinto dal saggio e
bensensato barbiere Carasco, negatore e satirico, egli morì, in silenzio, con
un triste sorriso, consolando Sancio in pianto, amando tutto il mondo con tutta
la grande forza dell’amore racchiuso nel suo santo nome, e comprendendo, però,
che per lui non c’era più nulla da fare in questo mondo)».
La figura di Don Carlos, invece,
lo inquieta, lo intimorisce: «Don Carlos, parente del conte di Chambord, è
anch’egli un cavaliere, ma un cavaliere nel quale si vede il Grande
Inquisitore. Egli ha versato fiumi di sangue ad maiorem gloriam Dei, e
in nome della Vergine, la dolce supplicatrice per gli uomini, la “pronta difesa
e l’aiuto” come la chiama il nostro popolo». Il romanziere fu probabilmente
vittima dei suoi pregiudizi sugli spagnoli (frutto della leggenda nera), ma in
ogni caso espose una versione piuttosto fantasiosa dei fatti della terza carlistada:
«Anche a lui [a Don Carlos], come al conte di Chambord, sono state fatte delle
offerte, e anch’egli le ha rifiutate. Questo, pure, accadde subito dopo Bilbao
e subito dopo la sua grande vittoria, quando nella battaglia perì il
generalissimo dell’armata di Madrid. Allora da Madrid gli si mandò a chiedere
“che cos’avrebbe detto se lo avessero lasciato entrare in Madrid, e se non
volesse dare per lo meno un programma per un possibile inizio delle
trattative”. Ma egli declinò altezzosamente ogni idea di trattative, e, credo,
non per sola superbia, ma anche per il principio profondamente radicato nella
sua anima, per cui non poteva riconoscere in quelli che inviavano l’ambasceria
la parte belligerante, e perché non poteva egli, “re”, entrare in qualsiavoglia
accordo con la “rivoluzione”!»
Che Don Carlos fosse irremovibile
è vero, che gli siano stati proposti dei compromessi (posti in questi termini) è
quantomeno discutibile, è vero anche che non li avrebbe accettati, ma non fu
questo il motivo della sua sconfitta.
Prosegue Dostoevskij: «Brevemente,
con una mezza parola, ma chiaramente, [Don Carlos] fece dire che il re sapeva
da sé che cosa dovesse fare e quando avrebbe raggiunta la sua capitale, senza
aggiungere altro. Si capisce che immediatamente l’abbandonarono e si
affrettarono a chiamare il re Alfonso».
La defezione dei monarchici
liberali e il loro appoggio all’usurpatore è innegabile, ma più avanti nel
brano è riscontrabile l’influenza delle calunnie della stampa internazionale: «Il
momento favorevole era perduto, ma egli [Don Carlos] continuò a combattere;
scrisse manifesti in stile alto e maestoso, ai quali era il primo a credere;
superbamente e maestosamente fece fucilare i suoi generali, “per tradimento”,
domò le sommosse dei suoi soldati sfiniti e, bisogna rendergli giustizia come
guerriero, combatté fino all’ultimo pollice di terra».
Lo scrittore si interroga sulla
provenienza del denaro che finanziò l’ultima guerra carlista – raccolto in
massima parte dai tradizionalisti stessi, e dai cattolici d’ogni paese – e
sembra ignorare che anche nella Russia ortodossa vi fu chi sostenne i carlisti
e gli inviò degli aiuti (o combatté addirittura al loro fianco): «Partendo ora
dalla Francia per l’Inghilterra, egli ha dichiarato in una lettera cupa e
superba ai suoi amici francesi, che “era contento del loro servizio e appoggio
e che, servendo lui, essi avevano servito se stessi, e che era sempre pronto di
nuovo a sfoderare la sua spada a un appello del suo infelice paese”. Non vi
preoccupate, comparirà ancora. A proposito, con questa lettera agli “amici”,
per lo meno un pochino si spiega l’enigma: con quali mezzi, col denaro di chi,
quest’uomo terribile (dicono giovane e bello d’aspetto) ha potuto così a lungo
e così tenacemente fare la guerra? Vuol dire che gli amici sono forti e
numerosi. Ma chi sono? La cosa più probabile è che egli più di tutto sia stato
sostenuto dalla Chiesa cattolica, come ultima speranza da questa riposta nei
re. Altrimenti nessun amico avrebbe potuto raccogliere per lui tanti milioni».
È una mezza illazione, di quelle che pubblicarono anche tanti altri giornali
dell’epoca: Pio IX, sino alla sua morte (7 febbraio 1878), non si è mai
sbilanciato apertamente per Don Carlos, anzi, ha ribadito più volte la linea di
imparzialità politica che intendeva mantenere come capo della Chiesa. Che tanti
gruppi di fedeli abbiano spedito denaro in Spagna è un discorso diverso, che
non indica la posizione ufficiale del Pontefice.
Dostoevskij ammette di non aver
conosciuto il Re in esilio di persona, ma continua a criticarlo: «Notate che
quest’uomo, il quale orgogliosamente ed aspramente rifiuta ogni conciliazione
con la rivoluzione, si è recato in Inghilterra sapendo benissimo in precedenza
che sarebbe andato a cercare ospitalità in un paese liberale e libero,
rivoluzionario, secondo i suoi concetti; però quale associazione di idee! Ed
ecco al suo ingresso in Inghilterra capitargli un piccolo, ma caratteristico
incidente. Egli s’imbarcò sul vapore a Boulogne per sbarcare a Folkestone; ma
sullo stesso vapore andavano in Inghilterra, come ospiti, anche dei membri del
consiglio municipale di Boulogne, invitati dagli inglesi alla pacifica solenne
inaugurazione della nuova stazione ferroviaria di Folkestone. Questi ospiti,
fra i quali era anche il deputato del dipartimento di Pas de Calais, erano
attesi sulla riva inglese da una folla d’inglesi, autorità, eleganti signore,
corporazioni e deputazioni di varie società, con stendardi e con la musica,
riunitisi per porger loro il benvenuto. Per caso si trovò sul posto anche un
membro del parlamento, sir Edward Watkin [1819-1901], accompagnato da altri due
membri del parlamento. Avendo saputo che fra i passeggeri era arrivato don
Carlos, mentre egli passava e prendeva posto in treno, si udirono dei fischi e
degli zittii. Una simile condotta dei suoi compatrioti offese profondamente sir
Watkin. Del resto, egli stesso ha descritto l’episodio nel giornale e per
quanto gli era possibile ha mitigato il ricordo della scortese accoglienza
“dell’ospite”». Don Carlos (già espulso dalla Francia) non scelse di spostarsi
nel Regno Unito per “incoerenza”, bensì va considerato che un paese realmente
amico nel continente europeo e nel mondo non lo aveva: l’Austria era ancora una
potenza cattolica, ma (in nome degli equilibri diplomatici) era più plausibile
che l’Impero Austroungarico ostacolasse anziché sostenesse il Re proscritto nel
suo proposito di tornare a liberare gli spagnoli.
Riprendiamo comunque il racconto
di Dostoevskij, il quale, non avendo mai visto Carlo di persona, per affermare
che Watkin abbia offerto una versione dei fatti meno offensiva, per operare un
confronto deve aver per lo meno letto più di un resoconto giornalistico.
«Egli racconta che colpa di tutto
fu che la cosa accadde senza preavviso, altrimenti tutto sarebbe andato in modo
diverso: “… Nel momento in cui – racconta egli – salivamo sulla piattaforma e
don Carlos sollevava il cappello in risposta alle acclamazioni di alcune
persone che lo salutavano, il vento aprì lo stendardo dell’associazione Old
fellows e su questo stendardo apparve l’immagine della Carità, che protegge
i bambini col motto Non dimenticare le vedove e gli orfani! L’effetto fu
rapido e sorprendente: nella folla si udì un mormorìo, che esprimeva però
piuttosto tristezza che collera. Sebbene mi rincresca dell’accaduto, debbo dire
che nessun popolo, radunato per una festa allegra e che si trovi all’improvviso
faccia a faccia col principale attore di una guerra sanguinosa e fratricida,
avrebbe manifestato tanta cortesia, quanta ne ha manifestata l’enorme
maggioranza del pubblico di Folkestone». Stendiamo un velo pietoso su queste
accuse ingiuste verso il Re, definito da Dostoevskij addirittura «tiranno inzuppato
di sangue». Segue una sviolinata sulla buona educazione degli inglesi e
sull’onestà dei liberali britannici. Non ci è stato possibile rintracciare la
citazione originale di Watkin, ma Dostoevskij – solitamente antiliberale e
critico verso tutti i rivoluzionari – in queste pagine sembra proprio aver
perso la sua bussola politica. Salviamo esclusivamente le sue frasi su
Cervantes, che invitiamo invece a recuperare, anche solo affidandosi all’indice
dei nomi che correda le edizioni italiane del Diario.
Riccardo Pasqualin
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