domenica 17 agosto 2025

Gli abbagli di Dostoevskij riguardo il Carlismo



Il Diario di uno scrittore (in russo Дневник писателя, Dnevnik pisatelja) è una vasta raccolta di articoli che Fëdor Dostoevskij iniziò a pubblicare nel 1873 sulle pagine della rivista Il Cittadino (in russo Гражданин, Graždanin), dapprima con cadenza settimanale e successivamente riuniti in volumi per volontà dell’autore stesso. Gli scritti, pur con discontinuità, arrivano sino al 1881. In Italia il testo è stato reso disponibile nella traduzione Sansoni, per la collana Le Betulle, ed è noto soprattutto per un celebre passaggio in cui lo scrittore russo critica con durezza il processo risorgimentale.

Il brano è citato da molti, ma pochi – purtroppo – si spingono ad affrontare il libro nella sua interezza.

Tuttavia, per il lettore tradizionalista questa imponente raccolta di scritti rivela molte altre sorprese: è una vera e propria miniera di notizie e riflessioni da cui emergono dati preziosi per comprendere l’atmosfera di un’epoca e la prospettiva del grande romanziere sul mondo. Particolarmente rilevanti appaiono, in questo senso, le osservazioni dedicate da Dostoevskij al Conte di Chambord e a Carlo VII, campioni del legittimismo europeo.

Nel Capitolo Secondo, nel testo intitolato Altri indizi del «principio della fine», Dostoevskij scrive: «Ho letto con grande curiosità dell’arrivo di don Carlos in Inghilterra.», si allude a uno dei viaggi del Re legittimo nel Regno Unito dopo la fine della Terza Guerra Carlista (1872-1876). La notizia è accostata a una riflessione sul rapporto tra la realtà e la letteratura: «Si dice sempre che la realtà è noiosa, monotona; per distrarsi si ricorre all’arte, alla fantasia, si leggono romanzi. Per me, al contrario: che cosa ci può essere di più fantastico e inaspettato della realtà?», Dostoevskij vedeva quindi Don Carlos come un Re da romanzo, un personaggio apparentemente impossibile nell’Europa liberale, eppure realmente esistente: «Don Carlos che arriva tranquillamente e solennemente come ospite in Inghilterra dopo il sangue ed il massacro “in nome del re, della religione e della Vergine”: ecco ancora una figura, un caso di “isolamento”! Potreste voi inventare qualcosa di simile?»

Non va dimenticato il pregiudizio anticattolico che caratterizza lo scrittore russo, che, pur restando stupito, non poteva in ogni caso mostrare piena simpatia per un monarca fedelissimo a Pio IX. Le opinioni dell’autore, però, si fanno più chiare nei paragrafi successivi.

In questo “flusso di pensiero”, Dostoevskij associa subito Carlo VII a Enrico V di Borbone: «A proposito, vi ricordate l’episodio di due anni fa, del conte di Chambord (Enrico V)? Anche questi è un re, un legittimista e anch’egli cercava il suo trono in Francia, mentre don Carlos lo cercava in Spagna. Essi possono essere considerati come imparentati fra loro, d’una stessa famiglia, e d’uno stesso ramo, e intanto, che differenza!»

La stima dell’autore va esclusivamente al monarca francese, Enrico V era «chiuso fermamente nelle proprie convinzioni, una figura malinconica, elegante, umana. Il conte di Chambord, nel momento più fatale, quando realmente poteva diventare re (naturalmente solo per un momento), non si lasciò tentare da niente, non abbandonò la sua “bandiera bianca”, dimostrando così che era un generoso e vero cavaliere, quasi un don Chisciotte, antico cavaliere in voto di castità e di povertà, una figura degna di chiudere maestosamente l’antica stirpe dei re». Va ricordato che l’opera di Cervantes ha avuto ampia fortuna tra i russi, e anche Dostoevskij fu affascinato dalla saggezza del letterato ispanico.

L’autore de Gli indemoniati (libro pubblicato per altro nello stesso anno in cui iniziarono ad apparire gli articoli del Diario) trova che il legittimo Re di Francia sia «Maestoso e forse soltanto un pochino ridicolo, ma senza ridicolo non c’è mai nulla nella vita», le sue parole ricordano quelle del romanziere Jean Raspail (1925-2020), maestro dell’assurdo: «Chi ama davvero le tradizioni non le prende troppo sul serio e va in guerra divertendosi un mondo; sa infatti che sta per morire per qualcosa di evanescente, generato dai suoi fantasmi, una via di mezzo tra l’umorismo e la farneticazione. Forse si tratta di un sentimento più sottile: quel fantasma cela il pudore di un uomo ben nato che per non apparire così ridicolo da battersi per un’idea l’ammanta di note strazianti, di parole vuote, di orpelli inutili e si concede il piacere supremo di un sacrificio quasi fosse uno scherzo di carnevale».

Il russo, pur sorridendo, non può negare la profonda dignità morale di Chambord: «Egli ripudiò il potere e il trono unicamente perché voleva diventare re di Francia non per sé soltanto, ma per la salvezza della stessa Francia, e siccome, a suo parere, la salvezza non s’accordava con le concessioni che si esigevano da lui (concessioni molto possibili) egli non volle regnare. Che differenza col recente Napoleone, ingannatore astuto e proletario, che ha promesso tutto, abbandonato tutto e ingannato tutti, pur di arrivare al potere. Poco fa ho paragonato il conte di Chambord con Don Chisciotte, ma non conosco una lode superiore a questa. Se non mi sbaglio è stato [Heinrich] Heine [1797-1856] a raccontare come da bambino sia scoppiato in un pianto [a] dirotto, quando, leggendo il Don Chisciotte, arrivò al punto in cui l’eroe è vinto dallo spregevole e ragionevole barbiere Sansone Carasco. Non c’è in tutto il mondo un’opera poetica più profonda e più forte di questa». Con tale parallelo letterario egli sembra volerci dire: «par difficile che sia possibile ai tempi nostri» (sempre per citare Gli indemoniati).

Per Dostoevskij, il Don Chisciotte è addirittura l’opera d’arte che svela il senso della vita, tutto il mistero dell’esistenza umana: «L’ideale del cavaliere errante è così grande, così bello ed utile ed ha tanto affascinato il cuore del nobile Don Chisciotte che per lui è diventato ormai impossibile rinunziarvi del tutto, sarebbe la stessa cosa che tradire l’ideale, il dovere, l’amore per Dulcinea e per l’umanità (quando egli vi rinunziò, quando guarì dalla sua pazzia e rinsavì, ritornando dalla sua seconda impresa, nella quale fu vinto dal saggio e bensensato barbiere Carasco, negatore e satirico, egli morì, in silenzio, con un triste sorriso, consolando Sancio in pianto, amando tutto il mondo con tutta la grande forza dell’amore racchiuso nel suo santo nome, e comprendendo, però, che per lui non c’era più nulla da fare in questo mondo)».

La figura di Don Carlos, invece, lo inquieta, lo intimorisce: «Don Carlos, parente del conte di Chambord, è anch’egli un cavaliere, ma un cavaliere nel quale si vede il Grande Inquisitore. Egli ha versato fiumi di sangue ad maiorem gloriam Dei, e in nome della Vergine, la dolce supplicatrice per gli uomini, la “pronta difesa e l’aiuto” come la chiama il nostro popolo». Il romanziere fu probabilmente vittima dei suoi pregiudizi sugli spagnoli (frutto della leggenda nera), ma in ogni caso espose una versione piuttosto fantasiosa dei fatti della terza carlistada: «Anche a lui [a Don Carlos], come al conte di Chambord, sono state fatte delle offerte, e anch’egli le ha rifiutate. Questo, pure, accadde subito dopo Bilbao e subito dopo la sua grande vittoria, quando nella battaglia perì il generalissimo dell’armata di Madrid. Allora da Madrid gli si mandò a chiedere “che cos’avrebbe detto se lo avessero lasciato entrare in Madrid, e se non volesse dare per lo meno un programma per un possibile inizio delle trattative”. Ma egli declinò altezzosamente ogni idea di trattative, e, credo, non per sola superbia, ma anche per il principio profondamente radicato nella sua anima, per cui non poteva riconoscere in quelli che inviavano l’ambasceria la parte belligerante, e perché non poteva egli, “re”, entrare in qualsiavoglia accordo con la “rivoluzione”!»

Che Don Carlos fosse irremovibile è vero, che gli siano stati proposti dei compromessi (posti in questi termini) è quantomeno discutibile, è vero anche che non li avrebbe accettati, ma non fu questo il motivo della sua sconfitta.

Prosegue Dostoevskij: «Brevemente, con una mezza parola, ma chiaramente, [Don Carlos] fece dire che il re sapeva da sé che cosa dovesse fare e quando avrebbe raggiunta la sua capitale, senza aggiungere altro. Si capisce che immediatamente l’abbandonarono e si affrettarono a chiamare il re Alfonso».

La defezione dei monarchici liberali e il loro appoggio all’usurpatore è innegabile, ma più avanti nel brano è riscontrabile l’influenza delle calunnie della stampa internazionale: «Il momento favorevole era perduto, ma egli [Don Carlos] continuò a combattere; scrisse manifesti in stile alto e maestoso, ai quali era il primo a credere; superbamente e maestosamente fece fucilare i suoi generali, “per tradimento”, domò le sommosse dei suoi soldati sfiniti e, bisogna rendergli giustizia come guerriero, combatté fino all’ultimo pollice di terra».

Lo scrittore si interroga sulla provenienza del denaro che finanziò l’ultima guerra carlista – raccolto in massima parte dai tradizionalisti stessi, e dai cattolici d’ogni paese – e sembra ignorare che anche nella Russia ortodossa vi fu chi sostenne i carlisti e gli inviò degli aiuti (o combatté addirittura al loro fianco): «Partendo ora dalla Francia per l’Inghilterra, egli ha dichiarato in una lettera cupa e superba ai suoi amici francesi, che “era contento del loro servizio e appoggio e che, servendo lui, essi avevano servito se stessi, e che era sempre pronto di nuovo a sfoderare la sua spada a un appello del suo infelice paese”. Non vi preoccupate, comparirà ancora. A proposito, con questa lettera agli “amici”, per lo meno un pochino si spiega l’enigma: con quali mezzi, col denaro di chi, quest’uomo terribile (dicono giovane e bello d’aspetto) ha potuto così a lungo e così tenacemente fare la guerra? Vuol dire che gli amici sono forti e numerosi. Ma chi sono? La cosa più probabile è che egli più di tutto sia stato sostenuto dalla Chiesa cattolica, come ultima speranza da questa riposta nei re. Altrimenti nessun amico avrebbe potuto raccogliere per lui tanti milioni». È una mezza illazione, di quelle che pubblicarono anche tanti altri giornali dell’epoca: Pio IX, sino alla sua morte (7 febbraio 1878), non si è mai sbilanciato apertamente per Don Carlos, anzi, ha ribadito più volte la linea di imparzialità politica che intendeva mantenere come capo della Chiesa. Che tanti gruppi di fedeli abbiano spedito denaro in Spagna è un discorso diverso, che non indica la posizione ufficiale del Pontefice.

Dostoevskij ammette di non aver conosciuto il Re in esilio di persona, ma continua a criticarlo: «Notate che quest’uomo, il quale orgogliosamente ed aspramente rifiuta ogni conciliazione con la rivoluzione, si è recato in Inghilterra sapendo benissimo in precedenza che sarebbe andato a cercare ospitalità in un paese liberale e libero, rivoluzionario, secondo i suoi concetti; però quale associazione di idee! Ed ecco al suo ingresso in Inghilterra capitargli un piccolo, ma caratteristico incidente. Egli s’imbarcò sul vapore a Boulogne per sbarcare a Folkestone; ma sullo stesso vapore andavano in Inghilterra, come ospiti, anche dei membri del consiglio municipale di Boulogne, invitati dagli inglesi alla pacifica solenne inaugurazione della nuova stazione ferroviaria di Folkestone. Questi ospiti, fra i quali era anche il deputato del dipartimento di Pas de Calais, erano attesi sulla riva inglese da una folla d’inglesi, autorità, eleganti signore, corporazioni e deputazioni di varie società, con stendardi e con la musica, riunitisi per porger loro il benvenuto. Per caso si trovò sul posto anche un membro del parlamento, sir Edward Watkin [1819-1901], accompagnato da altri due membri del parlamento. Avendo saputo che fra i passeggeri era arrivato don Carlos, mentre egli passava e prendeva posto in treno, si udirono dei fischi e degli zittii. Una simile condotta dei suoi compatrioti offese profondamente sir Watkin. Del resto, egli stesso ha descritto l’episodio nel giornale e per quanto gli era possibile ha mitigato il ricordo della scortese accoglienza “dell’ospite”». Don Carlos (già espulso dalla Francia) non scelse di spostarsi nel Regno Unito per “incoerenza”, bensì va considerato che un paese realmente amico nel continente europeo e nel mondo non lo aveva: l’Austria era ancora una potenza cattolica, ma (in nome degli equilibri diplomatici) era più plausibile che l’Impero Austroungarico ostacolasse anziché sostenesse il Re proscritto nel suo proposito di tornare a liberare gli spagnoli.

Riprendiamo comunque il racconto di Dostoevskij, il quale, non avendo mai visto Carlo di persona, per affermare che Watkin abbia offerto una versione dei fatti meno offensiva, per operare un confronto deve aver per lo meno letto più di un resoconto giornalistico.

«Egli racconta che colpa di tutto fu che la cosa accadde senza preavviso, altrimenti tutto sarebbe andato in modo diverso: “… Nel momento in cui – racconta egli – salivamo sulla piattaforma e don Carlos sollevava il cappello in risposta alle acclamazioni di alcune persone che lo salutavano, il vento aprì lo stendardo dell’associazione Old fellows e su questo stendardo apparve l’immagine della Carità, che protegge i bambini col motto Non dimenticare le vedove e gli orfani! L’effetto fu rapido e sorprendente: nella folla si udì un mormorìo, che esprimeva però piuttosto tristezza che collera. Sebbene mi rincresca dell’accaduto, debbo dire che nessun popolo, radunato per una festa allegra e che si trovi all’improvviso faccia a faccia col principale attore di una guerra sanguinosa e fratricida, avrebbe manifestato tanta cortesia, quanta ne ha manifestata l’enorme maggioranza del pubblico di Folkestone». Stendiamo un velo pietoso su queste accuse ingiuste verso il Re, definito da Dostoevskij addirittura «tiranno inzuppato di sangue». Segue una sviolinata sulla buona educazione degli inglesi e sull’onestà dei liberali britannici. Non ci è stato possibile rintracciare la citazione originale di Watkin, ma Dostoevskij – solitamente antiliberale e critico verso tutti i rivoluzionari – in queste pagine sembra proprio aver perso la sua bussola politica. Salviamo esclusivamente le sue frasi su Cervantes, che invitiamo invece a recuperare, anche solo affidandosi all’indice dei nomi che correda le edizioni italiane del Diario.

Riccardo Pasqualin

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