giovedì 1 maggio 2025

Juan Manuel de Prada

In difesa della “Fiesta nacional

Parleremo stasera della “festa nazionale”, dell’arte del toreare, mentre i suoi nemici, con la scusa dell’animalismo, con cui mascherano il proprio odio antispagnolo, celebrano la sua proibizione in Catalogna. La storia delle belle arti potrebbe sintetizzarsi come la storia di una addomesticazione: ci fu un tempo in cui, all’alba ancestrale della sua pura umanità, la gente era spinta a cantare e ballare al calore del vino e a dipingere le pareti di una caverna o recitare in versi le imprese di un eroe o modellare una statuetta di fango e cuocerla con il fuoco per celebrare la fecondità del raccolto; e quest’arte gioiosa, puramente spontanea, sbocciava dal genio popolare con la stessa naturalezza con cui le parole sbocciano dalle labbra di un bambino, quantunque non ne conosca le regole fonetiche, sintattiche, prosodiche o grammaticali.

Arte spontanea, che scaturiva dal genio popolare, era ad esempio quella dei giullari che giravano di paese in paese recitando cantari e canzoni che in seguito venivano imparati a memoria da coloro che li ascoltavano, perché tali cantari e canzoni erano già ibernate nel loro subcosciente, in attesa di una voce miracolosa che dicesse loro: «Alzati e cammina».

Ma quest’arte che nasceva dal basso, arte costitutiva dell’ani­ma popolare, si rivelò presto pericolosa per coloro che aspiravano a trasformare l’arte in uno strumento di dominio, maneggiandola per i loro fini ideologici. Nacque così ciò che oggi i detentori del potere chiamano pomposamente cultura: un’arte stabilita dall’alto, con le sue caste di intellettuali prezzolati e i suoi negoziati burocratici, con la programmazione e i canoni stabiliti dai distributori di erba medica ideologica. E così quel­l’impulso originario, nato dall’animo popolare, si sna­turò fi­no a degenerare in mostre di pittura raffinata, in libercoli di scrittori sublimi, in rappresentazioni teatrali sovvenzionate e in filmetti imposti dalla propaganda. Succedanei dell’arte che si somministrano al popolo per convertirlo in “cittadino” e adattarlo agli schemi sociali che interessano al potere, in maniera che a nessuno capiti né di sentire né di pensare. Perché, infine, non vi sia più arte nata dal mistero, ma solo succedanei addomesticati.

Ma con i tori non ci sono riusciti; e per questo i tori danno tanto fastidio ai detentori del potere; per questo i tori sono tanto insultati nel “matrix” progressista: perché sono una sopravvivenza – benedetta sopravvivenza! – di quella età dorata in cui gli uomini esprimevano attraverso un’arte indomita, un’arte che era espressione di ciò che essi erano, non di quello che gli ingegneri sociali e i dietologi del progresso desideravano che fossero.

E cosa siamo, quando entriamo in una plaza de toros? Siamo niente di più e niente di meno che Spagnoli – numantinamente Spagnoli! –, Spagnoli gravi e profondi che guardano la morte in faccia.

Foxá[1] scriveva che i tori sono l’arte di un popolo religioso, abituato dal proprio sangue a passeggiare tranquillamente tra l’aldiquà e l’aldilà. E proprio in ciò, nel passeggiare tra l’aldiquà e l’aldilà, è consistita l’arte genuinamente spagnola. Il resto è solo inganno, un gargarismo privo d’importanza in cui i detentori del potere mantengono come pecore i cosiddetti cittadini.

E come arte di un popolo religioso che passeggia tranquillamente tra l’aldiquà e l’aldilà, il toreare è un’arte allo stesso tempo molto carnale e molto spirituale, come lo è, ad esempio, la pittura di El Greco. Così è l’arte del toreare: pienezza di anima e di corpo; una cornata di divinità che può entrare nel nostro sangue, cercando la nostra arteria femorale. Così lo sente il torero in occasione di una intera corrida, quando calpesta la sabbia dell’arena come se levitasse, offrendo generosamente il suo corpo. Così lo sente l’aficionado che ha contemplato la faena, con capelli rizzati in testa e gli occhi pieni di lacrime. E poiché è vera arte – e non inganno manipolato dai manovali della cultura – il toreare coraggioso si distingue immediatamen­te dal toreare mediocre, cosa che non avviene quando si visita una mostra o si legge un libretto approvato dai dispensatori di bolle e di anatemi: leggendo uno di questi libercoli o visitando una di queste mostre non si sa cosa sentire o pensare e si finisce per fingere di sentire o pensare – o pensa – in forma attorcigliata e confusa, perché la finzione richiede molti attorcigliamenti e lambiccamenti nella frase.

Al contrario, la vera arte ci lascia muti, risoluti di bellezza, in colloquio con la nostra anima.

Che il toreare sia un’arte non significa che tutti coloro che la coltivano siano artisti e nemmeno che i pochi che sono veramente artisti possano realizzare sempre l’arte. Il fatto è che la vera arte è il contrario della tecnica. Un manovale della cultura può, con l’applicazione, supplire alla propria mediocrità e raggirare il pubblico. All’artista del toreare la tecnica non serve affatto, perché la sua arte si realizza solo se il toro lo vuole. Ed essendo un’arte effimera, momentanea, irrecuperabile, che pas­sa in un amen e non sappiamo se tornerà, ci obbliga a una costante vigilanza, ci obbliga a stare sempre vigilanza con la lampada accesa, come le vergini savie della parabola evangelica che aspettavano il ritorno dello sposo. E in questa attesa consiste la sopravvivenza, la benedetta sopravvivenza di quell’età dell’oro in cui noi uomini ci esprimevamo con un’arte indomita, un’arte che è espressione di quello che siamo: Spagnoli, orgogliosi della nostra ascendenza; non di ciò che gli ingegneri sociali e i dietologi del progresso vogliono che diventiamo. […]

Pemán[2] diceva che i tori sono comprensibili solo al genio spagnolo, che professa una religione in cui anima e corpo procedono mano nella mano. Le religioni pagane – religioni con corpo, ma senz’anima – creano lo sport; le religioni spiritualiste – religioni con anima, ma senza corpo – creano lo yoga. L’una e l’altra fuggono la morte come da una minaccia, o attraverso la frenesia del corpo o attraverso la sublimazione dello spirito. Ma lo Spagnolo affronta la morte con coraggio, perché crede nella resurrezione della carne e per questo il genio spagnolo prende la morte molto seriamente: tanto seriamente da esporla alla luce del sole, in un nudo circuito di sabbia, per accentuare la sua cruda realtà drammatica. Allo stesso tempo, però, la prende gioiosamente, tanto gioiosamente da vestirsi a festa, con abiti di seta e lustrini.

La corrida è infine una semplice catechesi con musica di trombe che può essere apprezzata solo da chi è Spagnolo e cattolico, anche senza saperlo, anche senza volerlo. E come può apprezzare pienamente la corrida solo uno Spagnolo, quantunque non sappia e non voglia esserlo, così a perseguitarla con accanimento può essere solo uno Spagnolo capovolto. Al pagano o allo spiritualista una corrida risulta incomprensibile, così come incomprensibile al buddista o all’ateo risulta il Crocifisso appeso a una parete. Per ribellarsi furiosamente contro le corride, come per ribellarsi furiosamente contro un crocifisso è necessario odiare qualcosa in cui intimamente si crede, qualcosa che intimamente si possiede. Poi quest’odio si può nascondere dietro maschere ideologiche diverse: così chi odia il crocifisso si nasconde dietro la maschera della “libertà religiosa offesa”, così come chi odia le corride si nasconde dietro la maschera animalista. Da qualche anno a questa parte gli animalisti hanno iniziato ad attaccare la fiesta nacional, la corrida, sostenendo che incarna la violenza e la vessazione contro i tori.

Questi ardenti difensori degli animali sanno che l’allevamento del toro da combattimento contribuisce come nessun’altra attività economica a conservare l’ecosistema iberico, preservando più di 300.000 ettari dall’aggressione palazzinara e garantendo la conservazione di molteplici specie animali e vegetali?

Sanno che il toro da combattimento è l’animale che meno soffre di tutti quelli che vivono negli allevamenti? Hanno mai visitato un allevamento di polli in batteria o un allevamento di produzione intensiva di latte? Si sono mai fermati a considerare che questi animali ingabbiati, imbottiti di ormoni e alimentati con prodotti che accelerano artificialmente la crescita hanno vissuto un’esistenza infinitamente più dolorosa e penosa che i tori da lotta?

Perché il toro è il principe del pascolo finché vive e nell’arena gli si tributa la morte più onorevole a cui nessun animale d’allevamento potrebbe ambire, infinitamente più onorevole di quella che viene dispensata in qualsiasi mattatoio.

Non facciamoci ingannare: la scusa ecologista, come in altro senso la scusa laicista, è il cavallo di Troia che i nemici del genio spagnolo introducono nella nostra sguarnita fortezza per erodere, rammollire e distruggere quei tratti caratteristici che costituiscono la nostra identità. In una parola: per farci smettere di essere Spagnoli.

È ovvio che dobbiamo amare gli animali e, in realtà, non ho mai conosciuto qualcuno che ami tanto gli animali come gli aficionados alla corrida. Ma solo a patto che questo amore verso gli animali non sia la cortina di fumo che nasconda una perversione morale: la difesa ad oltranza degli animali è di solito la scusa utilizzata da chi disprezza olimpicamente la vita umana, come ci ha mostrato Hitler, tanto amante dei suoi cagnolini.

Nella Cripta dei Cappuccini, un romanzo scritto alla vigilia dell’Anschluss, Joseph Roth scrive: «In tutta la mia vita mi è sembrato che le persone che amano le bestie sottraggano una parte dell’amore agli uomini, e particolarmente giustificato mi è apparso il mio punto di vista quando per caso ho saputo che i Tedeschi del Terzo Reich amano i cani lupo, i cani da pastore tedeschi. Povere pecore! – mi dissi a quel punto»[3].

Questa perversione morale a cui allude Roth, che destina agli animali l’amore che bisognerebbe riservare agli esseri umani, diviene oggi più palese che mai, quando scopriamo, rimanendo perplessi, che coloro che più osteggiano la corrida, sostengono e applaudono alla mattanza industriale perpetrata nelle cliniche abortive.

«Povere pecore!» potremmo esclamare seguendo Joseph Roth.

E poveri noi!



[1] Il marchese Agustín de Foxá (1906-1959), scrittore e poeta madrileno.

[2] José María Pemán (1897-1981), poeta e drammaturgo di Cadice.

[3] Joseph Roth, La cripta dei Cappuccini, cap. XXXIV.


Il presente scritto, che costituisce la postfazione del volume di Giorgio Ponticelli, La Tauromachia in Italia, è la trascrizione dell’editoriale della terza puntata del programma televisivo Lágrimas en la Lluvia (Lacrime nella pioggia), diretto dallo stesso Juan Manuel de Prada, con la collaborazione di María Cárcaba sul canale Intereconomía Televisión, presumibilmente il programma di cultura più elegante che sia mai stato trasmesso da un mezzo televisivo. Il tema trattato nel dibattito era La Fiesta Nacional: la tauromaquia (corridas de toros)Come introduzione era stato proiettato il film Tarde de toros (1955), di Ladislao Vajda. La puntata andò in onda l’8 ottobre 2010.

Ringraziamo sentitamente l’Autore per la cortese concessione.

E ringraziamo l’Editore D’Amico per la pubblicazione di questo stralcio dal volume di Giorgio Ponticelli, La Tauromachia in Italia.

 

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