Parleremo stasera della “festa nazionale”, dell’arte del toreare, mentre i suoi nemici, con la scusa dell’animalismo, con cui mascherano il proprio odio antispagnolo, celebrano la sua proibizione in Catalogna. La storia delle belle arti potrebbe sintetizzarsi come la storia di una addomesticazione: ci fu un tempo in cui, all’alba ancestrale della sua pura umanità, la gente era spinta a cantare e ballare al calore del vino e a dipingere le pareti di una caverna o recitare in versi le imprese di un eroe o modellare una statuetta di fango e cuocerla con il fuoco per celebrare la fecondità del raccolto; e quest’arte gioiosa, puramente spontanea, sbocciava dal genio popolare con la stessa naturalezza con cui le parole sbocciano dalle labbra di un bambino, quantunque non ne conosca le regole fonetiche, sintattiche, prosodiche o grammaticali.
Arte spontanea, che
scaturiva dal genio popolare, era ad esempio quella dei giullari che giravano
di paese in paese recitando cantari e canzoni che in seguito venivano imparati
a memoria da coloro che li ascoltavano, perché tali cantari e canzoni erano già
ibernate nel loro subcosciente, in attesa di una voce miracolosa che dicesse
loro: «Alzati e cammina».
Ma con i tori non ci sono riusciti; e per questo i tori
danno tanto fastidio ai detentori del potere; per questo i tori sono tanto
insultati nel “matrix” progressista: perché sono una sopravvivenza – benedetta
sopravvivenza! – di quella età dorata in cui gli uomini esprimevano attraverso un’arte
indomita, un’arte che era espressione di ciò che essi erano, non di quello che
gli ingegneri sociali e i dietologi del progresso desideravano che fossero.
E
cosa siamo, quando entriamo in una plaza de toros? Siamo niente di più e
niente di meno che Spagnoli – numantinamente Spagnoli! –, Spagnoli gravi e
profondi che guardano la morte in faccia.
Foxá[1] scriveva che i tori sono l’arte
di un popolo religioso, abituato dal proprio sangue a passeggiare
tranquillamente tra l’aldiquà e l’aldilà. E proprio in ciò, nel passeggiare tra
l’aldiquà e l’aldilà, è consistita l’arte genuinamente spagnola. Il resto è
solo inganno, un gargarismo privo d’importanza in cui i detentori del potere
mantengono come pecore i cosiddetti cittadini.
E
come arte di un popolo religioso che passeggia tranquillamente tra l’aldiquà e
l’aldilà, il toreare è un’arte allo stesso tempo molto carnale e molto
spirituale, come lo è, ad esempio, la pittura di El Greco. Così è l’arte del
toreare: pienezza di anima e di corpo; una cornata di divinità che può entrare
nel nostro sangue, cercando la nostra arteria femorale. Così lo sente il torero
in occasione di una intera corrida, quando calpesta la sabbia dell’arena come
se levitasse, offrendo generosamente il suo corpo. Così lo sente l’aficionado
che ha contemplato la faena, con capelli rizzati in testa e gli occhi
pieni di lacrime. E poiché è vera arte – e non inganno manipolato dai manovali
della cultura – il toreare coraggioso si distingue immediatamente dal toreare
mediocre, cosa che non avviene quando si visita una mostra o si legge un
libretto approvato dai dispensatori di bolle e di anatemi: leggendo uno di
questi libercoli o visitando una di queste mostre non si sa cosa sentire o
pensare e si finisce per fingere di sentire o pensare – o pensa – in forma
attorcigliata e confusa, perché la finzione richiede molti attorcigliamenti e
lambiccamenti nella frase.
Al
contrario, la vera arte ci lascia muti, risoluti di bellezza, in colloquio con
la nostra anima.
Che il toreare sia un’arte
non significa che tutti coloro che la coltivano siano artisti e nemmeno che i
pochi che sono veramente artisti possano realizzare sempre l’arte. Il fatto è
che la vera arte è il contrario della tecnica. Un manovale della cultura può,
con l’applicazione, supplire alla propria mediocrità e raggirare il pubblico.
All’artista del toreare la tecnica non serve affatto, perché la sua arte si
realizza solo se il toro lo vuole. Ed essendo un’arte effimera, momentanea,
irrecuperabile, che passa in un amen e non sappiamo se tornerà, ci
obbliga a una costante vigilanza, ci obbliga a stare sempre vigilanza con la
lampada accesa, come le vergini savie della parabola evangelica che aspettavano
il ritorno dello sposo. E in questa attesa consiste la sopravvivenza, la
benedetta sopravvivenza di quell’età dell’oro in cui noi uomini ci esprimevamo
con un’arte indomita, un’arte che è espressione di quello che siamo: Spagnoli,
orgogliosi della nostra ascendenza; non di ciò che gli ingegneri sociali e i
dietologi del progresso vogliono che diventiamo. […]
Pemán[2]
diceva che i tori sono comprensibili solo al genio spagnolo, che professa una
religione in cui anima e corpo procedono mano nella mano. Le religioni pagane –
religioni con corpo, ma senz’anima – creano lo sport; le religioni
spiritualiste – religioni con anima, ma senza corpo – creano lo yoga. L’una
e l’altra fuggono la morte come da una minaccia, o attraverso la frenesia del
corpo o attraverso la sublimazione dello spirito. Ma lo Spagnolo affronta la
morte con coraggio, perché crede nella resurrezione della carne e per questo il
genio spagnolo prende la morte molto seriamente: tanto seriamente da esporla
alla luce del sole, in un nudo circuito di sabbia, per accentuare la sua cruda
realtà drammatica. Allo stesso tempo, però, la prende gioiosamente, tanto gioiosamente
da vestirsi a festa, con abiti di seta e lustrini.
La corrida è infine una
semplice catechesi con musica di trombe che può essere apprezzata solo da chi è
Spagnolo e cattolico, anche senza saperlo, anche senza volerlo. E come può
apprezzare pienamente la corrida solo uno Spagnolo, quantunque non sappia e non
voglia esserlo, così a perseguitarla con accanimento può essere solo uno
Spagnolo capovolto. Al pagano o allo spiritualista una corrida risulta
incomprensibile, così come incomprensibile al buddista o all’ateo risulta il
Crocifisso appeso a una parete. Per ribellarsi furiosamente contro le corride,
come per ribellarsi furiosamente contro un crocifisso è necessario odiare
qualcosa in cui intimamente si crede, qualcosa che intimamente si possiede. Poi
quest’odio si può nascondere dietro maschere ideologiche diverse: così chi odia
il crocifisso si nasconde dietro la maschera della “libertà religiosa offesa”,
così come chi odia le corride si nasconde dietro la maschera animalista. Da
qualche anno a questa parte gli animalisti hanno iniziato ad attaccare la fiesta
nacional, la corrida, sostenendo che incarna la violenza e la vessazione
contro i tori.
Sanno che il toro da
combattimento è l’animale che meno soffre di tutti quelli che vivono negli
allevamenti? Hanno mai visitato un allevamento di polli in batteria o un
allevamento di produzione intensiva di latte? Si sono mai fermati a considerare
che questi animali ingabbiati, imbottiti di ormoni e alimentati con prodotti
che accelerano artificialmente la crescita hanno vissuto un’esistenza
infinitamente più dolorosa e penosa che i tori da lotta?
Perché il toro è il
principe del pascolo finché vive e nell’arena gli si tributa la morte più
onorevole a cui nessun animale d’allevamento potrebbe ambire, infinitamente più
onorevole di quella che viene dispensata in qualsiasi mattatoio.
Non facciamoci ingannare:
la scusa ecologista, come in altro senso la scusa laicista, è il cavallo di
Troia che i nemici del genio spagnolo introducono nella nostra sguarnita
fortezza per erodere, rammollire e distruggere quei tratti caratteristici che costituiscono
la nostra identità. In una parola: per farci smettere di essere Spagnoli.
È ovvio che dobbiamo amare
gli animali e, in realtà, non ho mai conosciuto qualcuno che ami tanto gli
animali come gli aficionados alla corrida. Ma solo a patto che questo
amore verso gli animali non sia la cortina di fumo che nasconda una perversione
morale: la difesa ad oltranza degli animali è di solito la scusa utilizzata da
chi disprezza olimpicamente la vita umana, come ci ha mostrato Hitler, tanto
amante dei suoi cagnolini.
Nella Cripta dei
Cappuccini, un romanzo scritto alla vigilia dell’Anschluss, Joseph
Roth scrive: «In tutta la mia vita mi è sembrato che le persone che amano le
bestie sottraggano una parte dell’amore agli uomini, e particolarmente
giustificato mi è apparso il mio punto di vista quando per caso ho saputo che i
Tedeschi del Terzo Reich amano i cani lupo, i cani da pastore tedeschi. Povere
pecore! – mi dissi a quel punto»[3].
Questa perversione morale a
cui allude Roth, che destina agli animali l’amore che bisognerebbe riservare
agli esseri umani, diviene oggi più palese che mai, quando scopriamo, rimanendo
perplessi, che coloro che più osteggiano la corrida, sostengono e applaudono
alla mattanza industriale perpetrata nelle cliniche abortive.
«Povere pecore!» potremmo
esclamare seguendo Joseph Roth.
E poveri noi!
[1] Il
marchese Agustín de Foxá (1906-1959), scrittore e poeta madrileno.
[2] José María Pemán (1897-1981), poeta e
drammaturgo di Cadice.
[3] Joseph
Roth, La cripta dei Cappuccini, cap. XXXIV.
Il presente scritto, che costituisce la postfazione del volume di Giorgio Ponticelli, La Tauromachia in Italia, è la trascrizione dell’editoriale della terza puntata del programma televisivo Lágrimas en la Lluvia (Lacrime nella pioggia), diretto dallo stesso Juan Manuel de Prada, con la collaborazione di María Cárcaba sul canale Intereconomía Televisión, presumibilmente il programma di cultura più elegante che sia mai stato trasmesso da un mezzo televisivo. Il tema trattato nel dibattito era La Fiesta Nacional: la tauromaquia (corridas de toros). Come introduzione era stato proiettato il film Tarde de toros (1955), di Ladislao Vajda. La puntata andò in onda l’8 ottobre 2010.
Ringraziamo sentitamente l’Autore per la cortese concessione.
E ringraziamo l’Editore D’Amico per la pubblicazione di questo stralcio dal volume di Giorgio Ponticelli, La Tauromachia in Italia.
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