Quando Sarge Latchimy, deputato della Martinica, ha rifiutato di partecipare alle celebrazioni del 5 maggio 2021, bicentenario della scomparsa di Napoleone, ricordando come il corso ristabilì la schiavitù e ordinò crudeli spedizioni in Guadalupa e Santo Domingo, il progressismo italiano ha accolto tali proteste come un legittimo passo avanti in un processo di «decolonizzazione». Del resto Latchimy è di area progressista. Ben diversa è stata la reazione dei progressisti quando, pochi giorni fa, si è diffusa la notizia che Fabio Rampelli (Fardelli d’Italia), Vicepresidente della Camera, ha deciso di “sfrattare” il ritratto di Napoleone da Montecitorio chiedendo di ricollocarlo in un luogo più adeguato e ribadendo che il generale trafugò una grande quantità di opere d’arte dalla Penisola, molte delle quali sono rimaste in Francia.
Avezzi all’abitudine di denigrare il nemico politico facendo sempre il contrario di tutto ciò che dice, in questa occasione i progressisti si sono fatti bonapartisti di ferro, giustificando ogni azione del flagello d’Europa. Gli africani possono chiedere indietro ai musei europei ogni singolo manufatto che gli è stato portato via tra Otto e Novecento, ma agli italiani non è concesso tale diritto. Se nel 2023 un ebreo guarda con disprezzo l’arco di Tito e lo evita i progressisti mostrano la massima comprensione: che sarà mai qualche secoletto? Suvvia, è roba ancora fresca! Ma se un veneto parla male di Napoleone, per i progressisti è un fanatico che vive nel passato.
Davanti alla nuova del ritratto di Bonaparte il solito giornalista Aldo Cazzullo – eterno tuttologo – ha sfoderato un veteronazionalismo praticamente dvcesco: Napoleone ha rubato due o tre sassolini, sì, ma ha portato da noi i bei frutti della rivoluzione francese. Del resto si sa, in Asia e in Africa quando sono arrivati i colonizzatori gallici, inglesi, tedeschi, olandesi e belgi i nativi avevano già la tabella dei diritti dell’uomo tatuata in fronte!
Ma in Italia i nazionalisti non sono meno ridicoli degli “amici del progresso”: blaterano sempre di autarchia, ma davanti a Napoleone si emozionano come scolarette che adulano il cantante pop del momento. Le loro scuse sono le più risibili: “gli stati italici erano tutti sotto il controllo degli stranieri”...ah si? Quali stranieri serviva il Regno di Sardegna? Quali stranieri serviva la Repubblica Veneta, i cui figli oggi hanno ancora ribrezzo per il Bonaparte? La risposta è la solita: “Venezia era in decadenza da tempo...” e sia, ma facciamo un confronto tra la Repubblica Veneta nel 1796, prima dell’arrivo delle armate francesi, e l’Italia di oggi.
Ecco la vecchia Venezia a fine Settecento: politici corrotti, politica estera fallimentare, ma aveva Venezia la libertà di stringere accordi con chi voleva? Sì, se avesse voluto la avrebbe avuta. Aveva basi militari straniere sul suo territorio? No. Aveva eserciti e armi straniere sul suo territorio? No, prima dell’arrivo delle truppe austriache e francesi, nella Venezia non c’era nulla di paragonabile alle tante basi statunitensi che attualmente forano il territorio della Repubblica Italiana come una misera fetta di cacio bucato.
A questo punto, di solito, i nazionalisti si dividono in due categorie: i più saggi tacciono, imprecano contro gli statunitensi o notano come la fine della Repubblica Veneta dovrebbe insegnare qualcosa anche agli italiani di oggi (è un pochino tardi per imparare la lezione, considerando che, già nell’Ottocento, il rivoluzionario Alberto Cavalletto in parlamento invitava i suoi connazionali a ricordarsi del traffico di Campoformio). Altri nazionalisti moderati giustificano invece le ingerenze dell’“alleato” d’oltreoceano, confermando che esistono anche dominazioni straniere buone, fatte “a fin di bene”. Chissà cosa direbbe Garibaldi delle basi statunitensi o ad esempio dei soldati americani che escono dalla base di Vicenza e commettono ogni sorta di ribalderie, tra risse e ubriachezza, restando sempre impuniti.
Denigrando gli stati preunitari i nazionalisti italici fanno solo la figura del fesso e trasmettono l’idea che dai tempi dell’Impero Romano in poi (difficile salvare la “nuova Italia”, il fascismo e la nostra miseria attuale) a sud delle Alpi nessuno sia mai stato in grado di fare qualcosa di buono. Ma che bellezza, di una storia così mutilata bisogna proprio andare fieri!
A Nuova Delhi ha sede un governo che rappresenta un popolo in gran parte povero, ma dignitoso e che evidentemente ha prodotto politici più colti di quelli italiani: gli statisti di Nuova Delhi hanno un’attenzione linguistica che i “nostri” hanno perduto da tempo, o che forse non hanno mai avuto.
Il governo di Nuova Delhi ha ripristinato i nomi storici di oltre 100 città e ora vuole cambiare anche quello della nazione intera: il nome India lo si può lasciare ai greci, ai latini, agli anglosassoni, però è un nome proprio inadeguato per indicare non solo il territorio dell’attuale repubblica, ma anche quello dei passati imperi che sono alla base di una civiltà ammirevole per infiniti aspetti. Il subcontinente himalayano tornerà a chiamarsi come nei testi antichi: Bharat, parola sanscrita che esprime un’idea di luminosità e ben designa l’aspirazione a seguire un cammino illuminato dal sole e dalla prosperità. Bharat: ci hanno messo secoli, ma sono arrivati a liberarsi.
Sarebbe bello se gli italici si liberassero almeno di una bandiera nata proprio ai tempi del Bonaparte e figlia di un vessillo straniero, invece nella nostra disgraziata Penisola si preferisce ancora fare l’apologia di Napoleone, al solo fine di fomentare vomitevoli guerricciole tra sette partitiche. Giorgia Meloni non sa spiegare il significato del tricolore italiano: “Oh, che vergogna!” inveiscono i suoi sfidanti alla giostrina della democrazia. Ma cosa avrebbe dovuto dire la poveretta? Che la sua bandiera è copiata da quella francese? Forse s’è vergognata anche lei.
Che un popolo possa dirsi “antico” o “giovane”, gli ci vuole poco per tenere un atteggiamento più dignitoso di quello che gli italiani trasmettono al mondo.
Riccardo Pasqualin
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