martedì 13 dicembre 2022

Diritto ispanico e diritto veneziano: una comparazione possibile?


Il carlista Tirso de Olazábal con sua moglie
e le figlie in visita presso Carlos VII
e Berta de Rohan (Venezia, ottobre 1904)


Le riflessioni dei tradizionalisti ispanici sulle leggi consuetudinarie e il foralismo possono avere un valore anche per chi studia il diritto veneziano? Spiegarlo in un breve articolo è difficile e sicuramente un giurista potrebbe eviscerare meglio la questione, ma possiamo subito rispondere affermativamente.

Venezia aveva una costituzione? Se per costituzione intendiamo un testo unico no, Venezia una carta costituzionale non l’ha mai avuta. Con pragmatismo il suo governo è invece progredito con verifiche, stabilimento di equilibri e integrazioni successive, provando con l’esperienza l’efficacia delle norme.

Anche l’elezione del Doge, il Serenissimo Principe, è stata perfezionata con il tempo: dal 1178 si stabilì che gli undici elettori ducali ne indicassero quattro, che ne nominavano qua-ranta, che insieme sceglievano il Principe (che era primo tra i suoi pari). Ma novant’anni dopo fu escogitato il sistema che rimase immutato sino al 1797, l’anno del suicidio del governo aristocratico. Alla riunione del Maggior Consiglio si metteva-no in un’urna tante sfere quanti erano i presenti, trenta d’oro e le altre d’argento: le più preziose contenevano un biglietto con scritto elettore. Il più giovane tra i consiglieri si recava in Piazza San Marco e prendeva con sé il primo bambino (tra gli otto e i dieci anni) che incontrava, il quale estraeva dall’urna una ballotta per ciascun consigliere, e solo quei 30 a cui capitava la palla con il foglietto elettore restavano nella sa-la. Le 30 ballotte venivano poi riposte nell’urna e solo 9 con-tenevano il biglietto. I 30 si riducevano quindi a 9, che si riu-nivano in una votazione durante la quale, con il voto favorevo-le di almeno 7 elettori, dovevano indicare il nome di 40 consi-glieri.

Con il sistema delle ballotte contenenti il biglietto, i 40 veni-vano ridotti a 12. Costoro, con almeno nove voti favorevoli, ne eleggevano altri 25, i quali venivano ridotti di nuovo a 9 che ne avrebbero eletto altri 45, con almeno 7 voti favorevoli. I 45 – sempre a sorte – venivano ridotti a 11, i quali con almeno 9 voti favorevoli, ne eleggevano altri 41 che sarebbero stati i veri elettori del Serenissimo Principe (primo tra i suoi pari).

I 41 si raccoglievano in un salone (in cui restavano rinchiu-si per tutta la durata delle successive operazioni) dove ognuno metteva in un’urna un foglio con un nome. Ne veniva estratto uno a sorte, e gli elettori potevano esporre eventuali obiezioni o accuse contro il prescelto. Costui veniva poi chiamato a ri-spondere e a fornire eventuali giustificazioni. Dopo averlo in-terrogato si procedeva ad una nuova votazione, se il candidato otteneva il voto favorevole di almeno 25 elettori su 41, era proclamato Doge, se invece non si riusciva a ottenere questi voti, si procedeva con una nuova estrazione finché l’esito non risultava positivo. 

Non vi era nessuna carta unica, quindi, ma dei capitolari. Insiemi di leggi che guidavano gli organi istituzionali, le magistrature o i corpi intermedi, ed essi, uniti, definivano il corpo delle regole fondamentali. Nel 1032, con il Doge Flabanico (?-1041, in carica dal 1032 alla sua morte), e poi gradualmente coi suoi successori, si sono perfezionati gli organi collegiali elettivi e le rispettive promissioni, che hanno ripartito i poteri equilibrandoli sulla base delle esperienze conseguite, forgiate dalla storia e dai costumi del popolo. Le consuetudini hanno così creato una costituzione viva, o meglio delle convenzioni costituzionali.

A Venezia i partiti (intesi come organismi per la conquista del potere) non sono mai nati, si sosteneva l’uno o l’altro candidato in ragione della soluzione politica che in quel dato momento proponeva, a fronte di quella specifica questione.

Venezia era uno stato che potremmo definire “imperiale ma non imperialista”, a buona parte del patriziato non è mai interessata l’espansione in Terraferma. Tutto cambiò verso il 1338, quando gli Scaligeri cedettero ai veneziani Treviso e la sua Marca come segno di pace. Da allora si ebbero le prime “dedizioni”, che non furono patti federativi (cioè non furono accordi tra pari, bensì tra una Dominante e i suoi Dominii), ma appunto richieste di protezione, motivate da ragioni di sicurezza, prestigio, ricchezza e potenza. Camposampiero, Castelfranco, Conegliano, Ceneda, Asolo, Montebelluna e altri centri rinunciarono alla loro sovranità e vennero accettate come parte dei Dominii Veneti, in una logica di strategia difensiva contro i signori di Verona che minacciavano il Dogado. Non esisteva però una politica espansionistica definita, tanto che nel 1331 il Senato respinse l’ambasceria del Comune di Portogruaro, suddito del Patriarca di Aquileia, per non creare dissidi e crisi diplomatico-militari. Tutti questi paesi, comunque, mantennero dei loro statuti, che dovevano essere approvati da Venezia, ma che conservavano le loro peculiarità in ragione del fatto che erano nati come ordinamenti adeguati a un territorio specifico e si erano formati sui costumi e sulla storia del popolo che lo abitava, un popolo e un territorio che potevano avere esigenze diverse rispetto ai confinanti. Gli studi e le considerazioni dei carlisti, ma diciamo pure anche le conquiste che hanno ottenuto con decenni di ricerche, sono quindi compatibili con l’analisi del diritto veneziano e le comparazioni potrebbero essere fruttuose.

Riccardo Pasqualin

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