Nicolás Gómez Dávila,
Escolios a un texto implícito, Gog,
Roma 2017, p. 440, € 15
«Gómez
Dávila non è politicamente scorretto, ma di più, metafisicamente scorretto, con
eleganza». La massima di Marcello Veneziani a proposito dello scrittore
colombiano Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 18 maggio 1913 – 17 maggio 1994)
potrebbe provenire da uno degli innumerevoli Escolios a un texto implícito
che la coraggiosa casa editrice romana Gog ha iniziato a riprodurre
integralmente. Opera in cinque volumi apparsi tra il 1977 e il 1992, di cui il
pubblico di lingua italiana ha potuto assaporare solo tre brevi antologie, due
delle quali pubblicate da Adelphi (In
margine a un testo implicito, Milano 2001; Tra poche parole, 2007) e una da Ar (Pensieri antimoderni, Padova-Salerno 2008), sarà editorialmente
completata con uscite previste ogni sei mesi.
Etichettato
– non senza una certa faciloneria – come “il Nietzsche della Colombia” o un
“Cioran più salubre e meno nichilista”, Gómez Dávila fu quello che si può
definire – ed egli stesso si definiva – un reazionario
puro.
A tale fondamentale aspetto dello
scrittore colombiano questa rivista ha recentemente dedicato un approfondito
saggio di Miguel Ayuso (Conservazione,
reazione e tradizione. Una
riflessione sull’opera di Nicolás Gómez Dávila, «Veritatis
Diaconia», n. 5), in cui si sottolineava come spesso non risulti facile distinguere il reazionario dal conservatore o dal tradizionalista,
se si considerano dal punto di vista dei comportamenti come da quello delle
idee o anche dei movimenti in cui si incarnano. Il saggio di Ayuso aveva cercato
di chiarire queste differenze, senza nascondere le loro somiglianze: la
dialettica classica, vale a dire perenne, tra due fenomeni che si somigliano
mette in risalto gli elementi di differenza; mentre tra altri che si presentano
come diversi, sottolinea ciò che li accomuna. Inoltre, a partire da alcuni
elementi trovati nell’opera complessa e singolare del grande scrittore e
pensatore Nicolás Gómez Dávila, si comprende con molta facilità come questo
sforzo chiarificatore cerchi di profilare nel migliore dei modi la sua
caratterizzazione intellettuale. Allora la richiesta del cattedratico spagnolo
fu quella di tradurre i numerosi escolios
che citava utilizzando la versione ufficiale pubblicata: ma la mancanza sia di
una traduzione completa – ipotesi impensabile per uno studioso di lingua
spagnola! – che del testo a fronte rendevano difficoltosa l’operazione, che fu
risolta proponendo una traduzione e fornendo al lettore il testo originale in
nota.
Ora,
finalmente, questa gravissima lacuna è stata colmata, evitando la
frammentazione che si prospettava (pare – la fonte è sempre Marcello Veneziani
– che la casa editrice milanese volesse riproporre con gli Escolios la stessa operazione intrapresa con successo con i Parerga e
paralipomena di Arthur Schopenhauer, saccheggiati e proposti in una serie
di libretti dal titolo L’arte di…) e
dando al lettore di lingua italiana la possibilità di accedere al capolavoro di
Gómez Dávila in versione integrale. Si tratta di un’opera che è – a dispetto
della sua circolazione dìnella Penisola italiana – già considerata un classico,
data l’intensità dei suoi aforismi e che deve la luce grazie alla traduzione di
Loris Pasinato. Il testo edito da GOG si avvale inoltre dei contributi di Gennaro
Malgieri, Gabriele Zuppa e Antonio Lombardi.
Ogni
libro, è stato detto, è una lettera indirizzata a ciascun lettore, che non lo
legge mai allo stesso modo, forse perché quidquid
recepitur ad modum recipientis recepitur. Pertanto, a ragione, Gómez Dávila
scrive che «senza un lettore intelligente non ci può essere un testo acuto».
Quest’ultimo, dunque, deve certamente svilupparsi con una scrittura concentrata
che non si può definire isolata, in quanto sono intrecciati, cementati (da qui
nasce il “testo implicito”), perché la separazione esistente tra un aforisma e
l’altro non può che ostacolare l’integrazione, permettendo la moltiplicazione
delle letture attraverso la diramazione delle connessioni. Quindi solo su
alcuni dei suoi testi si può costruire una interpretazione. Ma con quegli
stessi testi se ne potrebbe creare un’altra. Infine, con ulteriori testi,
sarebbe possibile raggiungere sia la prima che la seconda, oppure addirittura
una terza. Urge, di conseguenza, la lettura diretta e completa.
Il
che rende pressoché impossibile tentare una silloge: è necessario andare
direttamente alla fonte – e quindi a questa preziosa edizione in lingua
italiana, la cui lettura fa sperare che il testo non finisca mai, anziché
giungere alla sua conclusione – ma per dare almeno un’idea dell’intelligenza,
della brillantezza e della profondità delle massime vale la pena riportare
alcuni escolios, sottolineando il
fatto che essi sono tratti dalla stessa pagina – la 300 – aperta a caso:
«Lo
scrittore moderno scrive un romanzo con quello che Balzac esauriva in un
paragrafo»
«Il
Concilio Vaticano II sembra meno un’assemblea episcopale che un conciliabolo di
manifatturieri impauriti per aver perso la clientela»
«Il
Cristo dei moderni è il figlio di un falegname che la propria eloquente
rivendicazione della giustizia sociale erge a prototipo dell’intelligenza
rivoluzionaria. Oppure, alternativamente, egli è simbolo mitico dell’umanità
divinizzata. Come sono stolti, tuttavia, quei lettori che non sono intimiditi
da questo strano personaggio che attraversa lande evangeliche come una burrasca
notturna. L’agitatore crocifisso assomiglia più al Pantocratore bizantino che
all’esempio delle assistenti sociali».
«Essendo
l’irrecusabilmente gratuito, ciò che è estetico deve servire da canone supremo
per il pensiero. Dobbiamo utilizzare le categorie estetiche come criterio di
qualunque interpretazione storica. Ciò che è estetico è la manifestazione
sensibile e profana della grazia».
Come
si può notare, l’Autore spazia dalla analisi letteraria alla cronaca coeva, da
un ragionamento sulla religione a questioni di estetica senza soluzione di
continuità. Sempre sottostante permane la sua impostazione “reazionaria”: il
disprezzo per la vuota ampollosità dello scrittore contemporaneo, la
constatazione dello scivolamento verso un livello inferiore del Vaticano II
(cioè pastorale rispetto a quello dottrinario che era stato proprio del
Concilio Vaticano I); in un mondo che esalta la figura di Cristo non come
Redentore, ma come “primo socialista della storia” Gómez Dávila oppone la
grandiosità dei mosaici bizantini, il Pantocrator, il Creatore di tutto che con
la propria Maestà supera di un balzo il ristretto ambito in cui lo vogliono
collocare sociologi ed antropologi della religione o teologi modernisti. E la
pagina (solo la pagina 300!) termina con l’appello alle coscienze affinché si
rivolgano, dopo decenni (o secoli?) di volgarità alla contemplazione del Bello.
È un caso che tale Bello sia evocato subito dopo aver impresso nel lettore la
grandiosa figura del Pantocrator disegnato su uno sfondo d’oro in una cupola
bizantina? È difficile credere ad una casualità. E per questo, ancor prima di
giungere all’ultima pagina di un testo che può essere letto anche al contrario,
per come è stato concepito, si sospira l’uscita del volume successivo.
Gianandrea de Antonellis
Per gentile concessione della rivista «Veritatis Diaconia», n 7
http://www.samnium.org/veritatis-diaconia
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