Il palindromo di Maurensig
Leggo un romanzo di Paolo Maurensig, L’oro degli immortali, interessante anche se non all’altezza delle
sue opere migliori – un po’ troppo commerciale, oserei dire – e mi imbatto in
una frase:
Osservai la soglia, che recava il solito palindromo: Si sedes
non Is, ovvero «Se siedi non procedi», ma anche «Se non siedi procedi».[1]
Storco un po’ il naso: possibile che un autore raffinato come
Maurensig possa incappare in un errore simile, utilizzando il termine palindromo (parole che lette al
contrario mantengono lo stesso significato) al posto di bifronte (parole che lette al contrario hanno senso compiuto, ma
diverso)?
Ma, se da un americano che bada al sodo (cioè alle vendite)
ci si può aspettare una certa faciloneria, dal raffinatissimo autore de La variante di Lüneburg questo scivolone
risulta imprevisto: anche perché al termine non corretto (in fondo c’è anche
chi usa palindromo come sinonimo di bifronte) si accompagna un aggettivo, solito, che non sembra aver ragion d’essere,
visto che è la prima volta che quel gioco di parole viene mostrato. Forse
faceva riferimento a una precedente frase, cassata senza tener conto del
richiamo?
Quando feci notare le tante incongruenze del romanzo di Dan
Brown ad un amico collaboratore della Mondadori, stupito dal fatto che le tante
persone ringraziate dall’autore, tra cui vari storici dell’arte, non avessero
rivisto il testo, segnalandogli gli errori più evidenti, mi sentii rispondere:
«In realtà la questione va rovesciata: le persone ringraziate sono quelle che
hanno effettivamente costruito il
romanzo, creando i colpi di scena. Brown, che si picca di essere un intenditore
d’arte, ha scritto solo i passaggi sulla musica e la pittura, con i risultati
che hai visto». Per altro, gli strafalcioni in storia della musica e dell’arte
erano ben poco di fronte alle questioni etiche agitate dal romanzo, per cui era
naturale che passassero in secondo piano…
Ma la risposta dell’amico mi aprì gli occhi su un mondo –
quello degli scrittori ombra – poco noto. A giudicare dalla pagina italiana di
Wikipedia, infatti, sembra che siano soprattutto i politici a far uso di ghost writers per scrivere le proprie
memorie; forse c’è una certa reticenza a parlare dell’argomento, se lo stesso
titolo del film di Roman Polański
The Ghost Writer (2010) è stato
tradotto come L’uomo nell’ombra per
renderlo non solo più accattivante, ma forse anche più comprensibile.
Tornando a Maurensig, quell’errore – o almeno quella mancata
finezza – e quell’aggettivo rimasto slegato dal contesto, presenti in una
stessa frase, anzi, addirittura fianco a fianco, possono far sorgere
nell’umile, ma non disattento lettore, un dubbio. Casualità? Forse. Ma in un
romanzo il cui l’Io narrante per ben due volte dichiara esplicitamente che «non
avevo mai creduto al caso» (cap. 32)«le casualità così strane non esistono»
(cap. 44) si è spinti a pensare ad altro.
Come dicevo, il romanzo non è all’altezza degli altri: è un
affascinante thriller esoterico
incentrato sull’alchimia, in cui fa addirittura capolino il Conte di Saint
Germaine e che presenta nel ruolo del cattivo un ex ufficiale delle SS
(divisione Ahnenerbe, quella delle
ricerche occulte). Scelta, quest’ultima, decisamente un po’ banale: infatti il
fascino delle nere divise naziste sembra essere divenuto imprescindibile per
ogni buon thriller di ambiente
bibliofilo (da Madrid 1605 a La formula Stradivari, da Gli orfani del male a L’Ordine del Sole Nero). Ma questa è
un’altra questione…
A questo punto diventa illuminante la visione casuale – se appunto
esiste casualità… – di un episodio dei Simpson: ne Il colpo del libro (serie XXII, ep. 6), in originale The book job, con riferimento a The Italian job nel titolo e alla saga Ocean’s eleven nella trama, si prende in
giro bonariamente (ma non troppo) l’industria del best sellers. Le opere sono scritte da una equipe di autori sfruttata
e sottopagata:
Le trame si basano su ricerche di mercato e le pagine vengono
sfornate da una stanza piena di studenti di letteratura impasticcati, pronti a
tutto per un lavoro. Gli editori fanno soldi a palate e i bambini ignari
ottengono dieci libri all’anno del loro autore preferito.
e la stessa vicenda biografica del (preteso) autore è
anch’essa frutto di pura fantasia:
– Qual è il tuo passato fasullo?
– Sono cresciuta in un circo itinerante. Mia madre
era la direttrice del circo, mio padre era il barbiere dei leoni. Ho scritto la
mia prima storia su un pacchetto di popcorn appiattito con il rossetto dei
pagliacci.
Viene alla mente lo straziante racconto – anch’esso una
sorta di favola moderna – sull’iniziale povertà nera dell’autrice più ricca
della storia della letteratura contemporanea, che al tempo in cui scrisse il
suo capolavoro era funzionaria di un fondo delle Nazioni Unite e quindi si
presume non dovesse essere costretta a vivere con un caffelatte al giorno…).
Simpson a parte (ma bisogna ricordare che le trame dei loro
episodi molto spesso rispecchiano la società reale) poniamoci nei panni di un
editore cui si presenta il signor Mario Rossi, il quale ha scritto un buon
romanzo o un ottimo saggio, che quasi certamente, però, rimarrebbe invenduto. Che
fare? Rimandare a casa insoddisfatto l’ignoto scrittore? Certo, se invece di
Mario Rossi avesse un altro nome…
«Quella casa editrice, un giorno, di quel grande scrittore pubblicherà
anche la lista della spesa. E riuscirà a vendere!» mi disse un giorno Mario
Scognamiglio, appassionato bibliofilo e raffinato librario antiquario (sue le
Edizioni Rovello e la rivista «L’Esopo»). Allora perché, anziché una lista
della spesa, non dare alle stampe un bel saggio di estetica o un romanzo
sull’editoria, anche se scritto da altri, utilizzando la griffe del grande autore, in modo da attrarre i suoi numerosissimi estimatori?
Quindi, conti alla mano, perché non proporre al romanziere o saggista
sconosciuto un bel contratto, che da un lato prevede un utile sulle vendite e
dall’altro la rinuncia a vedere stampato sulla copertina il proprio nome? Inoltre,
nel caso di un saggio, lo si gratificherebbe di una dotta introduzione; in
quello di un romanzo, di un sentito – e vorrei vedere! – ringraziamento.
A questo punto, che significato dare alla lunga lista di
ringraziamenti presente in Inferno di
Dan Brown? Oppure, cosa ci può suggerire la frase sibillina (ma non troppo): «Il
mio primo grazie è per Adele Grisendi: senza il suo aiuto generoso e decisivo,
questo libro non sarebbe mai nato» che troviamo in chiusura del romanzo storico
I tre inverni della paura di
Giampaolo Pansa?
Volendo pensare male (che, come si sa, pur essendo un
peccato spesso permette di cogliere nel giusto), pensando palindromi e
bifronti, potremmo leggerla inversamente, ricavandone un significato diverso:
«A Giampaolo Pansa, senza il cui generoso e decisivo prestito del nome, questo
libro non sarebbe stato mai pubblicato. Adele Grisendi».
Gianandrea de Antonellis
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