Lo Trovatore, Ernesto il disingannato, a cura di Gianandrea de Antonellis, D’Amico Editore, Nocera Superiore 2016,
p. 220, € 15
Il giornale Lo
Trovatore (nato come Lu Trovatore e
poi divenuto prima Lo e poi Il Trovatore, con un mutamento di
articolo che seguiva una ben precisa linea editoriale) vide la luce nel 1866
come pubblicazione satirica, nella (delusa)
speranza di poter criticare il governo sabaudo evitando gli strali della
censura, che invece non mancarono. Caratterizzandosi, nel corso degli anni, in
maniera sempre più esplicitamente cattolica e legittimista, mutuò dalla rivista
dei Gesuiti «La Civiltà cattolica» l’idea di pubblicare in ogni numero un
romanzo “morale”. Così, tra il 1873 ed il 1874 dette alle stampe Il passato e il presente ovvero Ernesto il
disingannato, il primo romanzo “borbonico” italiano.
La trama inizia nel 1858 e segue le vicende di Ernesto, un giovane perbene ma in gravi ristrettezze finanziarie, cui viene offerto un impiego da parte di una società affiliata alla massoneria: egli lavorerà a lungo come agente filo-unitario per preparare il terreno affinché l’invasione garibaldina, anziché essere gettata immediatamente a mare dall’esercito napoletano, divenga la nota passeggiata che farà cadere in pochi mesi il più antico Regno italiano. Ernesto agisce in buona fede per gli ideali di “unità e libertà” che ha sentito propalare dal Quarantotto in poi, rimanendo però invischiato in una serie di truffe, corruzioni e ruberie; essendo comunque un giovane cristianamente educato, quando si rende conto che alle belle parole di “unità e libertà” non corrispondono i fatti, ma che tutti i “martiri” della rivoluzione italiana vogliono in realtà solamente arricchirsi a spese dei “fratelli” che hanno contribuito a “liberare”, decide di accusare quelli che crede i pochi elementi traditori. Si ritrova però subito di fronte alla “consorteria”, cioè all’unione dei camorristi e dei liberali, che ha preso il potere e non intende rinunciarvi. Ernesto denuncia quindi le ruberie, ma viene zittito ed anzi a sua volta ingiustamente incriminato, finendo in carcere e disingannandosi completamente rispetto alle aspettative preunitarie.
A tale aperto j’accuse! sulla situazione amministrativa post-unitaria, nella seconda parte del romanzo si aggiunge una visione politica – anzi, politologica – che va molto al di là dei confini duosiciliani: la restaurazione del Re legittimo deve essere soprattutto lotta alla rivoluzione, non semplice restituzione del Trono al Re scacciato. Ecco perché i legittimisti di tutta Europa si devono riunire sotto le bandiere di Carlo VII di Spagna, il pretendente al trono carlista, perché dalla sua vittoria dipenderanno il ritorno in Francia di Enrico V e a Napoli di Francesco II.
Il romanzo fu pensato come arma per la battaglia culturale:
come accennato, il giornale Lo Trovatore
aveva una impostazione molto vicina a quella della rivista «La Civiltà
cattolica», con le notizie di politica nazionale ed internazionale, i commenti
in vernacolo – scherzosi, ma non troppo – e il romanzo di appendice,
solitamente di argomento sociale (sullo stile di Mastriani) o direttamente
politico, come le due parti di Ernesto.
I redattori – tra le mille difficoltà imposte loro dalla censura sabauda e che
si riflettono nei numerosi errori di stampa, dovuti alla fretta nel comporre e
nello stampare prima che arrivasse il sempre incombente sequestro del foglio di
opposizione – avevano però ben chiaro il ruolo della letteratura nella
battaglia politica: lungi dall’essere un semplice intrattenimento, era un mezzo
fondamentale per convincere il maggior numero di lettori, in ogni tempo
sicuramente più attratti da un romanzo (o da un’opera teatrale, lirica o, in
anni più recenti, cinematografica) che non da un “fondo” di analisi politica.
Chi ne fu l’autore? È arduo dirlo: forse si può pensare
all’opera di più mani e, in particolare, a quelle dell’editore-direttore
Pasquale Tomas, che affrontava coraggiosamente i continui attacchi della
censura (pagando anche con il carcere) e che era subentrato alla guida del
giornale a “Don Saverio” (al secolo Giovanni Gagliardi [1837-1908], prolifico
autore dialettale) nel marzo 1869, dopo una carcerazione preventiva di ben 32 giorni! Di Tomas, “tipografo-editore” che
aveva la propria amministrazione al Largo del Mercatello (odierna piazza
Dante), non si hanno molte notizie: di certo, dopo il suo passaggio da semplice
proprietario a direttore responsabile della testata, il Trovatore non solo cambiò la lingua del proprio articolo
determinativo (da Lo a Il), ma con essa anche l’impostazione
generale, divenendo apertamente un giornale di lotta politica legittimista.
Scrive Gianandrea de Antonellis nell’introduzione: «Il passaggio dal dialetto
alla lingua (pur mantenendo fino al settembre 1877, due mesi prima della
chiusura, una rubrica dialettale, la dialogica Chiacchiarata dint’a lo Cafè dell’Allegria) fu dovuto all’intento
di dare maggior peso culturale al giornale, che altrimenti poteva essere
creduto “un giornale da buffoni, o per lo meno una gazzetta teatrale”» (p. VI).
Parimenti il sottotitolo passò da “Giornale spassatiempo” a “Giornale politico
pel popolo”. Il Trovatore si definiva
apertamente “legittimista”, “cattolico”, “borbonico” e un suo memorabile
editoriale (4 gennaio 1873) si chiudeva traducendo fedelmente il motto carlista
«Dios, Patria, Fueros, Rey»: «Quindi
riepilogando diciamo, che noi saremo la vigile sentinella del popolo
napolitano, propugneremo la integrità della Fede de’ nostri padri, e saremo
apostoli della verità, sfolgorando la menzogna, sinanche detta da grandi o da
re: borbonici legittimisti per convinzione e per principi, propugneremo anche a
costo di qualsiasi sacrificio il dritto della legittimità. In una parola, sulla
nostra bandiera è scritto: Per Dio, per
la Patria, per la Giustizia e pel Diritto legittimo!!!» (p. XXII).
Nel 1873 il giornale (usciva – quando non era sequestrato –
tre volte alla settimana) iniziò la pubblicazione del romanzo a puntate Ernesto il disingannato: come nelle
intenzioni si trattava di uno scritto popolare, che apprezzava i colpi di scena
e andava alla ricerca di emozioni forti, che badava più alla sostanza che
all’eleganza della forma.
Ciononostante, pur non essendo un capolavoro letterario,
come detto Ernesto ha il primato di
essere il primo romanzo “borbonico” della letteratura italiana, il primo
romanzo carlista italiano e, in fin dei conti, un buon romanzo cattolico, che
risente delle influenza dell’Ebreo di
Verona di padre Antonio Bresciani (la vicenda seguita dal punto di vista
del liberale pentito; l’ingombrante presenza della “setta”; il fosco
personaggio della contessa Erminia, agente della setta, che richiama la
spietata Babette d’Interlaken, «la Gran Vergine del comunismo elvetico») e che,
nella sua ingenuità, ha comunque il pregio di farsi leggere tutto di un fiato e
di ribadire alcuni imprescindibili valori della politica cristiana.
Ernesto il
disingannato dunque non costituisce la semplice riscoperta di un testo
finora completamente obliato (nelle biblioteche pubbliche non rimane più alcuna
copia dell’edizione in volume stampata dallo stesso Tomas al termine della
pubblicazione sul giornale): è anche un monito ad ampliare, al di là di ogni
singolo nazionalismo, la visione della Restaurazione di una monarchia cattolica
che sui principi del Carlismo ponga le basi imprescindibili per una nuova
società cristiana.
Il romanzo, fortunosamente ritrovato dall’editore Vincenzo
D’Amico e pubblicato a cura di Gianandrea de Antonellis (che ne ha curato la
trascrizione e l’introduzione) è arricchito dalla prefazione di S.A.R. Don
Sisto Enrico di Borbone, dalla post-fazione di Francesco Maurizio di Giovine,
che sintetizza quasi due secoli di vicende del Carlismo, e da una serie di
documenti inediti, tra cui una lettera-manifesto di Carlo VII e uno scritto
programmatico di Francisco Elías de Tejada.
È quindi un ottimo strumento per portare a conoscenza del
pubblico italiano l’ideologia carlista, che – forse non è inutile ricordarlo –
si caratterizza non per mere
questioni dinastiche (i discendenti di Don Carlos contro quelli di Isabella
II), bensì perché contrappone la Monarchia tradizionale e cattolica a quella
moderna di stampo liberale, di fatto anticristiana (pensiamo soltanto alla
deriva omosessualista che si è avuta in Spagna durante la recente legislatura a
guida socialista, deriva per nulla combattuta, anzi pienamente accettata, da
quella che è stata acutamente definita una “Repubblica coronata”, anziché una
vera e propria “Monarchia” sia durante il governo Zapatero che durante quello
del suo successore del Partito Popolare).
Il romanzo e gli scritti che lo accompagnano costituiscono
dunque un valido e sintetico manualetto di politica cristiana.
Luigi Vinciguerra
Bene!! Bella iniziativa pubblicare questi racconti edificanti.
RispondiEliminaProseguite nella vostra buona battaglia.
Salvatore Rebecchini.