giovedì 4 maggio 2017

Il seminarista rosso. L’infiltrazione marxista nella Chiesa

Gianandrea de Antonellis

Il seminarista rosso

L’infiltrazione marxista nella Chiesa


Una volta c’erano i preti operai: oggi quegli
stessi preti sono diventati vescovi.
Paolo Ferrante, 1990.

Secondo Stalin, la forza politica più pericolosa 
per i comunisti è la Chiesa cattolica,
e per colpire questo temibile «avversario» 
suggerisce di «non attaccare» direttamente 
la religione, ma le sue organizzazioni.[1]


La deriva modernista della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Ma, nonostante la distruzione dei dogmi, dei princìpi, dei simboli sia costante, nessuno interviene. E nessuno, soprattutto, la denuncia per quello che è: l’imporsi di una dottrina già ufficialmente condannata da San Pio X nell’enciclica Pascendi (1907). Dal Vaticano II in poi il modernismo, sotto diverso nome, senza mai usare questo termine, perché avrebbe esplicitato l’eresia sottintesa allo strombazzato “spirito del Concilio”, ha imperato nella vita ecclesiastica: introduzione del Novus Ordo, abolizione dei paramenti, introduzione della tavola eucaristica di fronte (ma più spesso al posto) dell’altare principale ed eliminazione (cioè, distruzione) di quelli laterali, eliminazione della balaustra e conseguente banalizzazione dell’eucarestia (comunione nella mano o sotto le due specie), sostituzione dei canti gregoriani con canzonette pop, chitarre al posto dell’organo, etc.
Come tutto questo sia stato possibile in pochi decenni sembra incredibile, ma diventa perfettamente comprensibile se lo si considera non un frutto del caso (o meglio del caos) introdotto dalla voluta ambiguità[2] dei documenti conciliari, bensì come un progetto che parte da lontano (dagli anni Trenta) e che nel Concilio ha visto un fondamentale punto di svolta.
Ogni effetto ha una propria causa: del resto la punta dirompente della lancia rivoluzionaria non avrebbe la sua forza se non fosse innestata su un’asta composta dalle varie stratificazioni del pensiero pre-rivoluzionario.

Nel caso della “rivoluzione nella Chiesa”[3] – cioè il Concilio Vaticano II – non è scaturita dal nulla, ma è stata attentamente preparata nei decenni che lo precedevano. I fautori ne sono stati da un lato i modernisti, sconfitti nel 1907 ma non debellati; dall’altro le nuove leve anticristiane di matrice marxista: ambedue accumunati dal progetto di distruggere la Chiesa tradizionale[4] dall’interno e non dall’esterno, come avevano tentato in precedenza (solo per citare i principali casi dell’ultimo millennio) albigesi, protestanti, fautori delle Chiese nazionaliste (gallicani, giuseppini, etc.), giacobini e, nell’ultimo secolo, nazionalsocialisti.
Un precedente di “lotta dall’interno” si può ritrovare nel movimento “sotterraneo” del giansenismo (sec. XVII), che in Italia ebbe la sua massima espressione nel Sinodo di Pistoia[5] (1786). Il movimento, che prende il nome dal vescovo di Ypres, Cornelius Otto Jansen (latinizzato in Giansenio, 1585-1638), ha cercato di attuare una riforma semi-calvinista senza però mai uscire dall’alveo della Chiesa e tentando di infettarla dall’interno. A causa del suo elitarismo, però, è sempre rimasto abbastanza isolato: la sua “venuta alla luce”, con il Sinodo di Pistoia, suscitò addirittura una rivolta di popolo, perché cercava di abolire alcuni culti molto seguiti dai fedeli[6].
L’iconoclastia e l’abolizione degli altari laterali, l’uso della lingua volgare nella liturgia e l’episcopalismo o conciliarismo (cioè il ritenere la conferenza dei vescovi a capo della Chiesa nazionale, lasciando al papa il semplice ruolo di unus inter pares), proposti dal Sinodo di Pistoia ed immediatamente condannati, sono stati trionfalmente accettati con il Concilio ed il suo “spirito”.
La forze dirompente della mentalità neo-modernista[7] proviene comunque da elementi di formazione extra-ecclesiale: appunto gli infiltrati marxisti che, all’indomani del consolidamento di Stalin nell’Urss e della sottomissione della Chiesa ortodossa, furono incaricati di indebolire la Chiesa cattolica, affrontando un lavoro di lungo periodo ma di buone prospettive e – a ottant’anni di distanza – di successo quasi insperato.
Negli anni Trenta i servizi segreti dell’Unione Sovietica si servivano di qualunque stratagemma, anche il più machiavellico, pur di «portare il seme della controffensiva ideologica fin nel cuore delle democrazie occidentale e degli stessi stati fascisti, a cominciare dall’Italia di Mussolini, dove potevano servire nella duplice veste di quinte colonne dentro la Chiesa cattolica, e di agenti dello spionaggio politico in senso anticapitalista e antiborghese»[8].
Tale penetrazione continuò, ovviamente, dopo la seconda guerra mondiale: durante gli anni della Guerra fredda, un alto numero di membri dei servizi segreti sovietici – italiani, francesi, tedeschi, eccetera, tutti giovani dalla provata fede marxista-leninista – si è abilmente infiltrato, oltre che nei gangli vitali della società civile dei Paesi occidentali (giornali, case editrici, tribunali, sindacato), anche nelle file della Chiesa cattolica, a partire dal livello della formazione sacerdotale, ossia dai seminari e dai noviziati, con il preciso mandato di insinuare accortamente le idee del comunismo nella mentalità e nella pratica del clero.
Così, quando sconsideratamente[9] Giovanni XXIII indisse il Concilio, le idee rivoluzionarie erano già penetrate nella mentalità ecclesiastica: magari non venivano accettate a braccia aperte, ma se non altro non erano immediatamente rigettate e bollate come eretiche. Del resto, è noto che esiste un passaggio quasi obbligato dalla tolleranza verso un’idea ereticale alla persecuzione in senso inverso. I gradini del “trasbordo ideologico” sono costituiti da: 1) tolleranza (in nome della lotta alla discriminazione); 2) accettazione (anche se non sullo stesso piano); 3) equiparazione (identità di piani); 4) subordinazione (privilegio); 5) persecuzione (di coloro che si oppongono).
Prendiamo, ad esempio, la presenza degli invertiti (o, per usare un termine politicamente corretto, omosessuali), fino a pochi decenni fa dileggiati e per i quali sarebbe stato impensabile la semplice idea di proporre una forma di matrimonio. Ebbene, attraverso il passaggio dei succitati cinque gradi siamo passati dalla tolleranza (cioè la derubricazione dell’omosessualità dal novero dei reati); alla accettazione della loro presenza in pubblico (che, tranne che per i femminielli dei bassi napoletani ed i travestiti dei cabaret della Repubblica di Weimar era improponibile in una società normale: pensiamo invece alla presenza nel mondo dello spettacolo dei vari Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti e a tutta la pletora degli outing degli anni ‘80 e ‘90); quindi alla equiparazione, con il divieto di discriminazione per le assunzioni e la richiesta di inserimento nella legislazione dei matrimoni contro natura; alla subordinazione (l’omosessuale visto non come un pervertito degenerato o tutt’al più uno scherzo di natura, ma al contrario come un potenziale artista: “tutti i più grandi artisti erano omosessuali!”[10]) ed infine alla persecuzione (guai a chi discrimina per questioni di gender – o di razza, bisogna aggiungere – pensiamo che in Scandinavia si è giunti all’arresto di un predicatore che sosteneva l’omosessualità essere un peccato).

«Mater et magistra, andate pure a sinistra»


«Mater et magistra, andate pure a sinistra» sintetizzava umoristicamente Giovanni Mosca[11]. Con il comunismo anche all’interno della Chiesa si è avuto un processo simile: la condanna esplicita di Pio XI (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937) si è stemperata – se non dottrinalmente, pastoralmente – nel corso degli anni con l’accettazione dei presupposti del socialismo, con la tolleranza nei confronti dei “preti operai”[12], con la leggenda del “Cristo, primo socialista della storia”[13], con l’imporsi della teologia della liberazione[14], cioè l’identificazione tra marxismo e cristianesimo, nata con il Patto delle catacombe (16 novembre 1965) e quindi uscita allo scoperto con la riunione del Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM) di Medellín (Colombia) del 1968.
Ma come è possibile che in pochi anni (Pio XII era scomparso solo dieci anni prima, nel 1958) si sia arrivati a rivoluzionare in tal modo la Chiesa? Evidentemente il Concilio non ha fatto altro che portare allo scoperto un malessere che covava da tempo, un tumore che si annidava da anni: una enciclica come la Pacem in terris[15] o teologi del calibro di Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Yves Congar, Hans Küng e Walter Kasper non spuntano dal nulla… Il lavoro di infiltrazione era iniziato almeno tre decenni prima, come confermano i “Millenari”, un anonimo gruppo di prelati del Vaticano autore di un pamphlet dal titolo Via col vento in Vaticano, da cui riportiamo un lungo, ma molto interessante estratto:
Lenin era della convinzione che un segretario del partito comunista dentro uno Stato cattolico, per essere all’altezza del suo compito avrebbe dovuto vestirsi all’occorrenza anche del saio francescano.
Nel 1935 i servizi segreti segnalarono che all’epoca all’incirca mille studenti comunisti risultavano infiltrati nei seminari e nei noviziati dell’Europa occidentale, dove in perfetta finzione di vita religiosa s’apprestavano a diventare sacerdoti; il partito poi avrebbe pensato a sguinzagliarli nei gangli e nei posti più vitali della Chiesa. Il fenomeno andò man mano allargandosi fino alle gravi contestazioni nei seminali e nei noviziati e di tantissimi preti operai e no, durante gli anni Sessanta-Settanta.
Sotto lo pseudonimo di Caesar, Antonio Gramsci negli anni Venti scrisse su «L’Ordine Nuovo» tale profetica affermazione: «La rossa tunica del Cristo fiammeggia oggi più smagliante, più rossa, più bolscevica. Vi è un lembo di tunica di Cristo nelle innumerevoli bandiere rosse dei comunisti che in tutto il mondo marciano all’assalto della fortezza borghese, per restaurare il regno dello spirito sulla materia, per assicurare la pace in terra a tutti gli uomini di buona volontà».
Henry de Lubac diceva: «Quando il sacro è dappertutto, non è più sacro in nessun luogo». Sembra un paradosso, ma risponde spesso a verità. Succede che il vivere di un’anima consacrata, disseminata di sacro, nella dissipazione della vita finisce col non trovare spazio per il sacro, né dentro di sé, né nel suo divenire, ma soltanto nella carriera.

Effetti devastanti.


Il vescovo slovacco[16] monsignor Pavol Hnilica [1921-2006] negli anni Settanta fu espulso dall’Urss, dove era detenuto, con la promessa della controparte vaticana che s’impegnava a persuaderlo di trasferirsi in Usa. Ma il prelato, una volta liberato, preferì impostare il suo ministero pastorale a favore dei fedeli di oltrecortina, prendendo residenza in Roma. Di tanto in tanto veniva chiamato da qualcuno della segreteria di Stato e invitato a trasferirsi negli Stati Uniti per svolgere meglio il suo intrapreso apostolato. Il prelato prometteva, ma sempre in differita.
Trovandosi sull’aereo di ritorno da quei Paesi d’oltrecortina, monsignor Hnilica approfitta di chiedere alla hostess la Pravda del giorno, per informarsi sugli avvenimenti nei Paesi comunisti.
Con sorpresa, legge in un trafiletto ben in vista la notizia che lui, monsignor Hnilica, aveva chiesto e ottenuto di essere trasferito negli Usa per svolgere al meglio il suo ministero pastorale. Il prelato, non ignaro dei metodi colà in uso, piega il giornale e a ogni buon conto se lo conserva in borsa.
Tre giorni dopo viene chiamato in segreteria di Stato, questa volta ricevuto da uno di quelli a più alto livello, il quale con stile perentorio gli riferiva senza mezzi termini che era stato deciso il suo trasferimento definitivo negli Stati Uniti; gli davano solo pochi giorni di tempo per i necessari preparativi.
Monsignor Hnilica si era portato con sé la Pravda che lo chiamava in causa; con calma trovò la pagina dov’era scritto il trafiletto, la mise sotto gli occhi dell’importante prelato traducendogliela e poi, sincero e leale in modo impressionante, chiese: «Monsignore, a che gioco giochiamo?».
La conclusione fu che non se ne fece niente e monsignor Hnilica è potuto restare a Roma fino ai nostri giorni. Di certo non la spuntarono, ma lui non se ne uscì indenne. Poco tempo dopo, restò coinvolto in un’accusa di traffico monetario. Ripicca? Chissà! E vento di libeccio anche quello.
Nel 1956 don Pasquale Uva, fondatore a Bisceglie della Casa della Divina Provvidenza, presentò con qualche ritardo alla direzione del seminario regionale pugliese un giovane della Basilicata, aspirante religioso presso la sua incipiente Fraternità, e del quale si rendeva garante. Sanomonte, il suo nome, era un seminarista intelligente ed esemplare in tutto: alquanto chiuso, statura media e robusta, d’aspetto simpatico. Nella nota caratteristica del prefetto di camerata si leggeva: alquanto circospetto e poco loquace, ma gentile con tutti.
Frattanto, l’anno scolastico volgeva al termine. Pomeriggio di una giornata afosa, i componenti la sua camerata, una trentina, si dirigevano in fila a passeggio verso il porto. Sanomonte, in genere, preferiva rimanere ultimo della fila: così quella volta.
A un tratto si china a tirar su le calze, tenendo d’occhio il gruppo che voltava l’angolo. Guarda con certa stizza la saracinesca chiusa della sezione del partito comunista. Un uomo obeso con le mani dietro la schiena s’appoggiava all’anta laterale, come se ne aspettasse l’apertura. Un attimo d’insicurezza e, pensando alla camerata che si allontanava, si fece coraggio e abbordò lo sconosciuto, dicendogli: «Compagno, dia questa busta chiusa al compagno segretario… Mi raccomando: chiusa!».
Ma aveva scambiato cavallo; manco a dirlo, il panciuto era noto a tutta la città come il più sfegatato democristiano; si chiamava Peruzzi. Da sornione qual era, Peruzzi aveva seguito l’imbarazzo e le mosse del seminarista in ogni suo particolare.
Ora, con la busta chiusa in suo possesso, egli si domandava: che fare? Stette tre giorni a chiederselo: darla o non darla al segretario comunista? È un suo parente, o no? E se no, strapparla? Lasciarla chiusa, o leggerne il contenuto? Recarsi dal rettore del seminario? E che dirgli? Un bel rebus, che si risolse alla fine con la punta di un tagliacarte infilato all’angolo della busta che s’apriva. Era scritto: «Caro compagno segretario, mi trovo distaccato dal mio paese a studiare in questo seminario regionale. Ho urgente bisogno di vederti per definire con te il piano da seguire nel prossimo futuro. Mi raccomando di qualificarti come mio zio. Le visite dei parenti sono consentite ogni giovedì dalle 16 in poi nell’attiguo parlatorio a pianoterra. Saluti Andrea Sanomonte».
Non sembrava vero a Peruzzi, che nei pettegolezzi ci guazzava, d’esser ricevuto in tutta segretezza dal rettore. Gesticolò tutto l’accaduto con le mani e col faccione esilarante e alla fine consegnò la lettera in busta aperta. La sera, d’intesa col vicerettore e il prefetto di camerata, furono perquisiti accuratamente la scrivania e gli effetti personali di Sanomonte.
Ai tre parve di non aver trovato materiale di rilievo: qualche appunto sospetto, qualche scritto d’orientamento comunista, l’agendina tascabile, con certi ghirigori indecifrabili di vago interesse, tuttavia prelevata e acquisita.
Era la prima volta che succedeva un caso del genere e c’era divergenza di pareri in direzione. Si chiese consiglio alla Polizia, la quale per ispezionare con calma il plico lo portò in questura. D’accordo col venerando don Uva, si invitò il Sanomonte a tornare a casa fino a nuovi ordini. Quando tutto sembrava finito, dal dicastero addetto ai seminari in curia romana arriva un severo cicchetto al rettore per non aver informato subito dell’accaduto l’organo vaticano.
Ecco cos’era successo: alcune di quelle cifre trascritte nell’agendina di Sanomonte contenevano codici segreti sul carico e la destinazione di una nave bellica italiana in aperto oceano pacifico, noti soltanto agli addetti al controllo di tutte le navi italiane, in navigazione per i mari del globo. Detto ufficio militare si trovava nella galleria sottostante la caserma Santa Rosa nei pressi della Storta, frazione di Roma, importantissimo sito secreto che si ramificava a raggiera lungo 18 chilometri sotterranei. Sull’accaduto si fece scendere la coltre del più rigoroso silenzio. Nessun altro ne fece più cenno.
Ma quanti di quei finti seminaristi, segnalati fin dalla metà degli anni Trenta, riuscirono a farla franca e ad arrivare al sacerdozio? E quanti di essi furono vescovi e cardinali? Tutti ricordavano all’epoca l’uscita del cardinale Alfredo Ottaviani, legato al mondo dell’intransigenza dentro e fuori della Chiesa, che in un suo articolo postconciliare apostrofava certi ecclesiastici col nomignolo di “comunistelli di sagrestia”.
Invece, la corrente comunistoide della curia romana adottò l’ostpolitik verso il blocco comunista e i suoi governanti. Sotto codesto vento di bufera, fra tanti martiri della fede cadde abbattuta due volte la quercia, il testimone, il primate d’Ungheria, il cardinale Josiph Mindszenty [1892-1975], condannato prima dai comunisti alla pena di morte tramutata in ergastolo per alto tradimento all’ideologia ateistica, e poi dagli ostpolitikanti vaticani, che lo estromisero da primate d’Ungheria in virtù dei compromessi storici coi magiari atei. A tutt’oggi per lui nessun processo di beatificazione è in corso.
A tal riguardo il segretario di Stato, Agostino Casaroli [1914-1998], deceduto appena il 9 giugno 1998, fattosi intervistare in Tv, si vantava d’aver portato avanti i contatti coi governi comunisti tramite l’ostpolitik, con cui avrebbe ottenuto smaglianti risultati sul disgelo politico. Ma la stampa all’indomani commentava interrogandosi: se gli uomini di Chiesa, come lui e Montini, non avessero blandito a lungo l’amoroso intrallazzo con quei governi d’oltrecortina, il crollo del Muro di Berlino di quanti anni prima si sarebbe anticipato? Un futuribile del passato, a cui non ci sarà mai una risposta in avvenire.
Mentre colà Cristo agonizzava con la sua Chiesa nei manicomi politici e nelle carceri a vita dei credenti condannati ai lavori forzati, l’ateismo entrava trionfante in Vaticano a proclamare che Dio era finalmente morto o quantomeno reso inoffensivo. A quei vescovi e sacerdoti dei manicomi-lager e dei lavori forzati si mostravano apposta foto e cortometraggi sugli incontri tra alti prelati e governanti comunisti, perché loro constatassero de visu d’esser rimasti soli a intestardirsi e a non firmare quell’insignificante foglio di carta d’abiura alla Chiesa cattolica, per allinearsi così a quella di regime al fine di uscire in libertà.
Stalin, che degli eserciti più armati del mondo temeva principalmente quello dei fedeli al comando del Papa, accortosi che la persecuzione bolscevica contro la Chiesa aveva dato risultati fin allora scarsi, decise di cambiare tattica: bisognava corromperla e lacerarla dal di dentro, per ottenere effetti ben più devastanti.
I frutti furono talmente abbondanti che le altre organizzazioni, le quali tuttora propugnano e diffondono l’ateismo sociale in tutto il mondo, hanno fatto propria la strategia stalinista.[17]
È realistico pensare che un uomo sacrifichi tutta la propria esistenza per recitare una parte che, presumibilmente, odia profondamente? È possibile che un giovane rivoluzionario accetti di infiltrarsi non per qualche mese, ma per decenni, se non per la vita intera, in una struttura in cui sarà costretto a rigidi orari, onerose privazioni, rinunciando non solo – ovviamente – al sesso (e in un’epoca in cui la Legione di Cristo non era stata ancora costituita!), ma anche a svaghi più comuni, come una partita di rugby e una birra con gli amici o una serata al cinematografo, una gita in comitiva o seguire la propria squadra del cuore allo stadio? Allora – prima del Vaticano II – non c’era la “libertà” di cui gode adesso un giovane sacerdote e tali svaghi non erano minimamente concepiti. Le suore da discoteca ed i preti da stadio (o i preti da discoteca e le suore da stadio) non erano prevedibili. Ad un giovane che sognava la rivoluzione, le barricate, le retate di nemici, la fucilazione dei preti, l’impiccagione «dell’ultimo papa con le budella dell’ultimo re»[18] l’ordine di andarsi a chiudere in un seminario per minare la Chiesa dall’interno anziché, più semplicemente, dare fuoco a una chiesa dall’esterno, di dover consumare i migliori anni della propria vita a studiare teologia anziché i testi di Marx, di dover servire messa anziché distribuire volantini poteva pesare come una condanna alla “morte civile”; per accettare l’idea di un simile passo, fondamentale nell’esistenza di un uomo, ci si deve calare nella mentalità del fanatico bolscevico, dell’apostolo della rivoluzione, che è disposto a qualsiasi sacrificio per il trionfo dell’idea (anzi, dell’Idea) o per il bene del partito (pardon, del Partito).
È presumibile che un tale idealista avrebbe preferito una morte eroica affrontando impavido la mitraglia nemica, attraversare le linee avversarie per portare ordini o per far brillare cariche di dinamite, anziché consumare i propri giorni tra tomi di Scolastica e facendo oscillare turiboli, respirando il profumo dell’incenso e non l’odore della polvere da sparo; ma come il sacrificio della vita è richiesto all’eroico portaordini in tempo di guerra, così un altro tipo di sacrificio è richiesto a che deve non attraversare momentaneamente le linee nemiche, bensì infiltrarsi per un’intera vita, divenire il cancro che corrode dall’interno, non la ferita che colpisce dall’esterno.
È chiaro che un simile lavoro d’infiltrazione è meno esaltante della lotta aperta e può non portare ad alcun riconoscimento; ma tale distacco dalla gloria è appunto ciò che si richiede a un fanatico, disposto a tutto per un ideale, anche al proprio completo annichilimento. Del resto, sono interessanti alcuni studi psicologici che si ricavano da due romanzi: Buio a mezzogiorno (Darkness at Noon, 1941) di Arthur Koestler (1905-1983) e Il montaggio (Le retournement, 1979) di Vladimir Volkoff (1932-2005). In essi troviamo la storia di due agenti che sono disposti ad annullarsi per un bene superiore: la credibilità del Partito, nel primo caso; la promessa di ritornare in patria fatta al figlio di un ufficiale “bianco” emigrato a Parigi, nel secondo. Ambedue gli agenti, sia pure per motivi diversi, accettano di vivere un’intera esistenza (e, nel caso del romanzo di Koestler, anche di affrontare una morte ignominiosa) nel segno delle direttive di Mosca.
Particolarmente interessante uno dei passaggi finali di Buio a mezzogiorno (titolo che indica l’imposizione di una verità assurda, come pure la cappa di tenebre materiali e morali che gravava su tutto il mondo comunista), in cui al funzionario Rubasciov viene spiegato il perché della sua condanna, nonostante egli sia palesemente innocente. Per di più, gli viene chiesto di confessare la propria inesistente colpa, perché è più semplice spiegare al popolo gli errori del Partito con un preteso boicottaggio che far perdere ad esso la fiducia nel Capo (che non viene mai chiamato Stalin, ma definito sempre «il N. 1»).
«La linea del Partito è stata nettamente stabilita, la sua tattica determinata dal principio che il fine giustifica i mezzi, tutti i mezzi, senza eccezione. Nello spirito di questo principio, il Pubblico Ministero chiederà la vostra vita, cittadino Rubasciov. […] Sapete dello scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare di qui a qualche mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D’onde la necessità imperiosa per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l’ultimo servizio che il Partito vi chiede. Il vostro compito è semplice. Lo avete formulato voi stesso: indorare ciò che è giusto, annerire ciò che è errore. La politica dell’opposizione è l’errore. È vostro compito, quindi, rendere l’opposizione spregevole; far capire alle masse che l’opposizione è un delitto e che i capi dell’opposizione sono dei criminali! Questo è il semplice linguaggio che le masse comprendono. Se cominciate a parlare dei vostri complicati motivi, creerete solo confusione tra di esse. Il vostro compito, cittadino Rubasciov, è di evitar di ridestare la simpatia e la pietà. La simpatia e la pietà per l’opposizione sono un pericolo per il Paese. […]
«Notate bene», riprese Gletkin, «che il Partito non vi offre alcuna prospettiva di compenso. Alcuni accusati sono stati resi ragionevoli da pressioni fisiche; altri dalla promessa d’avere salva la vita, o la vita dei loro parenti che erano caduti come ostaggi nelle nostre mani. A voi, compagno Rubasciov, non facciamo alcuna proposta e non promettiamo nulla.» […] «C’è un brano nel vostro giornale che mi ha colpito. Avete scritto: “Ho pensato e agito come dovevo. Se ho avuto ragione, non ho nulla di cui pentirmi; se ho sbagliato, pagherò”».
Alzò gli occhi dall’incartamento e li fissò su Rubasciov. […] Parlando, aveva spinto la deposizione già bell’e preparata verso Rubasciov, con la stilografica accanto. […] Rubasciov firmò la dichiarazione, in cui confessava d’avere commesso i suoi delitti per motivi controrivoluzionari e al servizio di una potenza straniera.
Del resto lo stesso protagonista, Rubasciov, aveva scritto sul proprio diario: «La storia ci ha insegnato che spesso la menzogna la serve meglio della verità»[19].
Parimenti votata a una vita di inganni è l’esistenza di Psar, protagonista de Il montaggio, che – nonostante sia presumibilmente antibolscevico, essendo figlio di un ufficiale bianco emigrato – pur di tornare nell’amata Russia accetta di entrare nel kgb e di rimanere in Francia come “agente d’influenza”: diventerà un grande agente letterario e metterà sul mercato libri utili. Non apologie del marxismo-leninismo, ma opere che possano incentivare il declino della società, disgregarla dall’interno per renderla una facile preda dell’Urss e del comunismo. Dunque, dagli anni Cinquanta Psar riesce a mandare in libreria autori d’avanguardia che demoliscono la sintassi e l’ortografia: a Mosca sono convinti che la lingua forgi il popolo e di conseguenza votarla al caos sarà fruttuoso.
Ma il vero successo di vendite saranno i “libri bianchi”, snelli pamphlet incisivi sui settori strategici: quello sulla donna ha contribuito ad aumentare gli aborti, denatalizzando la nazione; quello sull’istruzione ha ispirato il ‘68; quello sulla Chiesa ha fatto pressione per l’appiattimento del cattolicesimo sul piano sociale; quello sulle dittature – che prevede lo stesso numero di pagine per descrivere l’arcipelago Gulag sovietico con i suoi settant’anni di crimini e la risibile esperienza dei colonnelli greci – tiene desta l’attenzione sull’inesistente (ma fondamentale per la propaganda) “pericolo fascista”. Opere che sembrano scritte da un anticomunista e che vengono presentate come tali al fine di trarre in inganno i lettori.
Se ci può essere – e c’è ben stata… – un’infiltrazione nel mondo della cultura; se ci può parimenti essere – e si è anch’essa verificata, eccome! – un’infiltrazione nel mondo della giustizia; e come i giornali, le case editrici e i tribunali (nonché le forze armate e di polizia) sono state infiltrate da elementi comunisti, prima agenti nascosti, poi sempre più sicuri di sé; parimenti elementi marxisti sono penetrati nella Chiesa: dapprima nei seminari, quindi nelle Conferenze Episcopali, infine nel Vaticano.
All’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II fu infatti diffuso tra i padri conciliari un lungo documento che voleva mettere in guardia dalle aperture al comunismo e da chi vi era alle spalle. In un passaggio leggiamo:
Un ecclesiastico che stia facilitando il trionfo del comunismo nel suo Paese, con pericolo mortale per gli altri ecclesiastici, e di grave danno per la Santa Chiesa, dev’essere immediatamente accusato presso la Santa Sede, non da uno, ma da più parti, attraverso diversi canali, in quanto qualcuno di questi potrebbe rivelarsi insufficiente, onde egli sia privato dei mezzi atti a continuare ad infliggere danni e causare mali. […] Se tutto questo fosse stato fatto in tempo la catastrofe di Cuba sarebbe stata impedita, per esempio. E la Chiesa, il clero e tutto il popolo cubano non sarebbero sprofondati in quel baratro in cui gemono attualmente. È triste e doloroso ammetterlo ma è così : l’attività perniciosa e traditrice di molti ecclesiastici in favore di Fidel Castro ha costituito uno dei fattori decisivi del suo trionfo, quello che ha consentito al dittatore marxista di trascinare dietro di sé la maggioranza del clero cubano, il quale a sua volta, in assoluta buona fede, senza rendersi conto dell’inganno, ha spinto un popolo intero al suicidio. Un popolo che aveva riposto tutta intera la sua Fede nei suoi Pastori d’Anime!
Segnaliamo questo recentissimo episodio con assoluta franchezza, soprattutto perché tutti si rendono conto della gravità del pericolo, visto che gli ecclesiastici della «quinta colonna» cercano anche di gettare in braccio al comunismo Stati di antica tradizione cattolica come la Spagna, il Portogallo, il Paraguay, il Guatemala e altri. E ciò fanno col tradizionale metodo, esperimentato e collaudato, che consiste nell’usare l’arte dell’inganno più sottile e nel nascondere la loro tremenda attività sotto le ipocrite apparenze di quel falso zelo, che, se anche appare ottimo alla Santa Chiesa, è invece diretto a tentare di abbatterla.[20]
L’ammirazione – o almeno la mancata immediata (e naturale) repulsione – per il marxismo ha portato, nel 1959, alla presa del potere da parte di Fidel Castro, anche grazie all’appoggio indiretto della Chiesa locale. Il Concilio, con la sua smania di aperture, evitò la condanna esplicita del comunismo, anche grazie all’accordo di Metz[21].
Evitata la condanna esplicita, il Cremlino cantò vittoria: i giornali comunisti accennarono all’accordo, considerandolo un palese riconoscimento della evidente superiorità del sistema socialista mondiale. Le successive ambigue prese di posizione della Chiesa (in particolare durante il pontificato di Paolo VI, definito da Jean Madiran «il Papa dell’accordo di Metz»[22]) nei confronti dei regimi socialisti, i cavillosi distinguo tra filosofia marxista e prassi sovietica permetteranno la confusione e, di conseguenza, la nascita della teologia della liberazione, che cercherà addirittura di coniugare il Vangelo con il Capitale.
Che Gesù fosse inconciliabile con Marx era evidente a chi viveva nel “paradiso” sovietico, ma la mancata nuova condanna dell’ideologia (la prima, del 1846, precedette addirittura il Sillabo) mandò in confusione i credenti del mondo occidentale. Eppure lo stesso Lenin aveva dichiarato che educare le masse cristiane alla lotta di classe le avrebbe portate al socialismo ed all’ateismo «cento volte meglio di un sermone ateo tout-court»[23]. Ecco perché il sistema comunista ha sempre cercato di infiltrare i seminari (la stessa carriera ecclesiastica di monsignor Nicodemo – decano prima di terminare gli studi e vescovo a soli trentun anni – risulta fin troppo celere per non far pensare ad una compiacenza da parte delle autorità sovietiche), al fine, ripetiamo, di indebolire dall’interno il suo nemico principale. L’accordo di Metz trasformò quindi il Concilio Vaticano II in un’occasione mancata per essere vicino a chi soffriva nel blocco comunista. Anzi, a leggere le dichiarazioni conciliari e post-conciliari, sembrava che l’unico difetto del marxismo fosse l’ateismo e per il resto ci fosse piena conciliabilità, se non comunanza di intenti; per anni si criticò il sistema sovietico utilizzando il termine astratto “marxismo”, ma non quello relativo alla sua applicazione concreta, “comunismo”. Si giunse perfino ad inserire la data della morte di Marx (14 marzo 1883) nel Messale redatto dalla Conferenza episcopale francese (lo si trova a p. 139 dell’edizione del 1983), ricordando l’evento con termini super partes degni di un qualunque distaccato dizionario scientifico.

La famiglia, peso o baluardo?


Perché l’infiltrazione dei seminari è avvenuta da parte di membri o simpatizzanti del partito comunista e non da elementi di Destra? Perché è mancata una risposta di Destra alla politica egemonica marxista? Perché – allargando il discorso – alle case editrici di Sinistra non si sono contrapposti editori, saggisti, narratori, giornalisti di Destra? In realtà il tentativo c’è stato, ma è mancato – prima ancora che un corposo finanziamento come quello proveniente dal cosiddetto “oro di Mosca” – un coordinamento delle varie forze in campo.
In una sola frase, si può sintetizzare il motivo della schiacciante vittoria della Sinistra nel campo culturale affermando che ciò che è mancato alla Destra è una figura come Gramsci, un pensatore che comprendesse il fondamentale ruolo della cultura e che questo ruolo venisse riconosciuto come primario dal Partito (a prescindere dalla vicenda umana e dal rapporto personale di Gramsci con il capo di quest’ultimo, Togliatti[24]).
Attenzione: ciò non significa che la Destra non abbia avuto pensatori di rilievo. Tutt’altro: non ne trascrivo l’elenco – che sarebbe lunghissimo[25] – perché in fondo, da Omero fino alla metà del Novecento, i più grandi scrittori, filosofi e poeti sono stati, sostanzialmente, di Destra, cioè religiosi, monarchici, meritocratici, aristocratici e antidemocratici (basti pensare a come Omero, nell’Iliade, sintetizzi lo spirito democratico in Tersite…). Ciò che è assolutamente mancato è un grande uomo di cultura che sia stato considerato e valorizzato come tale: «Quando sento parlare di cultura la mano corre alla fondina»[26] dice più o meno una celebre frase di un pressoché sconosciuto autore, attribuita con molta leggerezza a vari uomini politici di Destra, da Göring a Goebbels, da Codreanu a Primo de Rivera.
La cultura è stata sempre considerata come lo svago dell’ozioso (nel senso etimologico, da otium): solo chi ha una posizione economica stabile se la può permettere. Impensabile, dunque, fare del giornalismo politico o della letteratura una professione. La conseguenza è che – con qualche eccezione numericamente di scarsa rilevanza – per affiancare vocazione alla cultura e necessità di mantenimento è sempre stato necessario o approdare a un giornale, una rivista, una casa editrice di Sinistra o trovarsi un lavoro e quindi, nel tempo libero, dedicarsi alla scrittura in maniera non professionistica, ma da semplice amatore. Lo sbocco è quindi la dispersione del fiume della cultura di Destra in mille rivoli insignificanti.
Come manca una capacità di incanalare le potenzialità culturali della Destra, così manca la capacità di indirizzare le sue potenzialità politiche. Sarebbe impensabile, quindi, imporre ad una schiera di ragazzi di scegliere la «via del chiostro» per un progetto a lunga scadenza, per fermare la rivoluzione nella Chiesa dall’interno della Chiesa. Ci saranno, sicuramente, giovani con la vocazione (i quali, negli ultimi tempi, troveranno seminari modernisti con insegnanti modernisti e, una volta presi i voti, officeranno riti modernisti sotto lo sguardo vigile e severo di vescovi modernisti), ma saranno un’esigua minoranza. Perché non pensare, allora, ad un ingresso[27] di tradizionalisti nei seminari per contrastare la rivoluzione nella Chiesa?
Oltra alla mancanza di una organizzazione che spinga al seminario i giovani militanti, cozza con l’idea di un sacrificio (che tale però non dovrebbe essere) il profondo legame dell’Uomo di Destra nei confronti del valore della famiglia, nucleo fondamentale della società: in generale è difficile che l’Uomo di Destra vi rinunzi, anche per una carriera prestigiosa; cercherà piuttosto di far convivere vita pubblica e vita privata, lavoro e famiglia, magari sacrificando questa a quella, ma non abbandonandola del tutto, tranne che in casi numericamente limitati.
Lo stesso Evola, il pensatore che più di tutti si può avvicinare a Gramsci nel mondo della Destra[28] si rendeva conto di ciò e perciò indicava una via fatta di «largo margine di libertà sessuale» pur di evitare da parte dell’«uomo libero» il tradimento del “metter su famiglia”:
Per ciò che in vista di un movimento rivoluzionario-conservatore e di resistenza può importare, vi è bisogno anzitutto di uomini pei quali l’essere liberi da quei complessi sentimentali borghesi dovrebbe essere cosa ovvia e che avendo da seguire una linea di impegno militante assoluto ed essere pronti a tutto, dovrebbero sentire quasi come un tradimento il “mettere su famiglia”: costoro è bene che siano sine impedimenta, che nulla li vincoli, che nulla limiti la loro possibilità di disporre assolutamente di sé. Peraltro, vi furono antichi Ordini nei quali il celibato era la regola. Pel resto, va riconosciuto quel che di giusto è contenuto nella nota massima nietzschiana: «L’uomo deve essere educato per la guerra, la donna pel riposo (o ristoro = Erholung) del guerriero; il resto è sciocchezza». In ogni caso, l’ideale della “società di uomini” non può essere evidentemente quello parrocchiano e piccolo-borghese di “casa e bambini”, anzi riteniamo che nella sfera personale il diritto ad un largo margine di libertà sessuale, per gli uomini in discorso, può venire senz’altro riconosciuto, di contro a moralismo, conformismo sociale e eroismo in pantofole.[29]
La rivoluzione auspicata da Evola è fallita anche per mancanza di un “esercito” di uomini liberi da legami familiari (sarebbero dovuto esserlo anche da legami lavorativi[30], ma forse il barone riteneva aristocraticamente che tali vincoli non fossero sufficientemente forti da impedire di scegliere “la via del bosco”, laddove necessario): la “sirena” dell’amore e della famiglia ha quasi sempre sopraffatto la “chimera” della lotta politica e della gloria (il riferimento a tale dualismo viene da un tuttora validissimo romanzo politico di fine Ottocento[31]).
In ogni caso, all’attacco marxista ai seminari, all’infiltrazione degli agenti comunisti nell’interno della Chiesa non è corrisposta una “resistenza” o una “controrivoluzione” ecclesiastica, sia per mancanza di elementi sufficienti, sia per aver sottovalutato il pericolo (è difficile pensare che lo abbiano ignorato), probabilmente perché ritenevano impossibile che qualcuno potesse condurre una finzione per decenni senza tradirsi. La crisi vocazionale post-conciliare, poi, ha acuito il problema: con i seminari sempre più vuoti, ogni vocazione (o supposta tale) è stata incoraggiata. Il problema più palese è stata la legione di preti omosessuali e pedofili che sono stati sfornati; quello più nascosto – ma non per questo assente – è stata l’infiltrazione della mentalità marxista nella Chiesa.

Il ruolo dei Gesuiti


Strumento privilegiato per questo progetto di infiltrazione è stato svolto dalla Compagnia di Gesù: se in passato i Gesuiti sono stati i nemici per eccellenza della massoneria (che ne ottenne addirittura lo scioglimento dalla Santa Sede[32]) adesso sono diventati il suo strumento elettivo «al preciso scopo di giungere a una “normalizzazione” dei rapporti con la massoneria»[33]. Con l’arrivo di un gesuita al soglio pontificale, è lecito chiedersi: «che uso farà, del suo immenso potere, l’ordine religioso di gran lunga più potente, più ricco, più colto, più duttile, più avventuroso, più scaltro in fatto di esperienza politica e diplomatica, più fornito di entrature e collegamenti con il mondo profano, con le altre religioni e con la stessa massoneria, oltre che con la grande finanza internazionale?»[34].
In realtà, da tempo l’ordine gesuita è solo esteriormente la stessa cosa di quello dei secoli passati[35]: già verso la metà del XX secolo alcuni membri dell’ordine, come Teilhard de Chardin[36], hanno suscitato polemiche e controversie con le loro audaci prese di posizione teologiche; altri, come Karl Rahner[37], hanno sostenuto apertamente la necessità di una radicale riforma della Chiesa e hanno spinto energicamente in tale direzione, fin dentro le aule del Concilio Vaticano II.
Lo stesso Concilio è stato giudicato, da più di un osservatore, come il tentativo di attuazione della riforma globale auspicata da Rahner e da altri[38]; tendenza poi sviluppata e ulteriormente approfondita sotto lo stimolo della teologia della liberazione, anch’essa nata – guarda caso – nell’ambiente dei gesuiti latino-americani[39].
Al Concilio ha fatto seguito lo “spirito del Concilio”, cioè l’interpretazione in senso esteso dei – volutamente – ambigui documenti conciliari. Ecco perché da un Novus ordo (la messa moderna) che doveva affiancarsi alla liturgia tradizionale si è avuto un sostanziale divieto di quest’ultima[40].
Francesco Lamendola, nello studio citato, enumera i principali punti del “nuovo corso” dei moderni gesuiti, sottolineando come esso non sia mai stato apertamente presentato come una rottura con la tradizione, pur essendolo di fatto:

1.               la “svolta antropologica” di Karl Rahner, che pone l’Uomo, e non più Dio, al centro dell’orizzonte spirituale;
2.               la priorità alla “dignità dell’uomo” rispetto alla Verità;
3.               relativizzazione del concetto di verità (si ricordi ciò che disse in proposito Bergoglio a Eugenio Scalfari nella ben nota intervista rilasciata a La Repubblica, poco dopo la sua elezione);
4.               l’obbedienza al papa non è più assoluta e incondizionata, ma dipende dal fatto che il papa sostenga, oppure no, tale processo di riforma;
5.               il papa non deve essere più considerato come il capo della Chiesa, ma come il vescovo di Roma e, al massimo, come un primus inter pares fra i vescovi di tutto il mondo, perché la Chiesa si deve trasformare in una specie di grande assemblea democratica permanente, sul modello “conciliarista” del Vaticano II;
6.               la Chiesa deve lasciar cadere anche le ultime riserve nei confronti delle altre “verità”, comprese quelle irreligiose, e deporre ogni pretesa di superiorità derivante dal possesso di una verità oggettiva: «si ricordi quel “buonasera” pronunciato da Bergoglio, al popolo dei fedeli di Roma, la sera della sua proclamazione, dal balcone del Palazzo vaticano, quasi che non volesse offendere gli atei con un bel: Sia lodato Gesù Cristo»[41];
7.               la Chiesa si deve schierare politicamente al fianco dei “poveri”, quindi anche dei “migranti”, apertamente e incessantemente, persuadendo tutti al “dovere” della solidarietà e dell’accoglienza: «quest’ultimo elemento proviene dalla teologia della liberazione e, dunque, è un regalino che il cattolicesimo sudamericano fa alla vecchia e stanca Europa, in apparenza per rinvigorirla, aprendola alle “delizie” del multiculturalismo, in realtà sposando la causa delle lobby finanziarie che perseguono la distruzione della identità europea per spianare la strada alla globalizzazione dei mercati e, quindi, delle culture e dei localismi. Ed ecco saldato il cerchio, e spiegata l’apparente incongruenza, fra un ordine gesuita vicino alla massoneria e, mediante lo ior, alle centrali finanziarie mondiali, e l’opzione preferenziale per i poveri, per gli ultimi, per i diseredati; le due cose non configgono affatto, anzi, si completano e si integrano a meraviglia: l’una è la faccia nascosta (e inconfessabile), ma necessaria, dell’altra»[42].

Un momento di svolta nella storia dell’ordine di Sant’Ignazio avviene con l’elezione di padre Pedro Arrupe a “papa nero”:
[nel 1965] Pedro de Arrupe y Gondra fu eletto ventisettesimo padre generale dei gesuiti. Sotto la guida di Arrupe e nelle aspettative di un cambiamento autorizzato dal Concilio, la visione di natura antipapale e socio-politica che era maturata di nascosto per più di un secolo fu accolta dalla Compagnia in quanto organizzazione. Il repentino cambiamento non fu casuale, ma un atto deliberato, al quale Arrupe, come padre generale, fornì una guida ispirata ed entusiasta.
Ma ci vuole del tempo prima che il modo di considerare una grande istituzione religiosa cambi. La reputazione che la Compagnia si era guadagnata nei secoli era il migliore paravento dietro il quale costruire una Compagnia molto diversa, come quella che si è venuta a creare negli ultimi vent’anni. In effetti la storia, la storia gloriosa della Compagnia fece sì che i fatti attuali risultassero invisibili e che i nuovi capi potessero presentare il nuovo atteggiamento verso il mondo come l’estrema e migliore espressione della spiritualità e della lealtà ignaziane.
Per la grande massa dei cattolici, sia laici che ecclesiastici, era impensabile che proprio i gesuiti potessero diffondere una nuova idea della Chiesa; o che muovessero guerra non a un solo Papa, ma addirittura a tre, denigrandoli, ingannandoli, disubbidendo loro, aspettando la morte di ciascuno con la speranza che il prossimo avrebbe lasciato loro mano libera.
Inevitabilmente, la guerra dei gesuiti contro il papato è venuta alla luce durante il pontificato di Karol Wojtyla. Quest’uomo carismatico e ostinato giunse al soglio pontificio con l’esperienza diretta del marxismo in Polonia. […] Dal momento dell’elezione, fu chiaro che Giovanni Paolo II avrebbe incontrato l’opposizione di molti membri della burocrazia vaticana che aveva ereditato. Ciò che fu meno chiaro, anche per i consumati osservatori vaticani, era che anche i gesuiti avrebbero sfidato la sua autorità in materia politica.
Niente di ciò che Giovanni Paolo II ha tentato dal momento in cui è arrivato alla cattedra di S. Pietro nel 1978 è servito a dissipare o almeno ad attenuare l’opposizione gesuita.[43]
La teologia della liberazione è stata formalmente condannata sotto Giovanni Paolo II[44] e sotto Benedetto XVI[45], ma sembra che con e grazie a Bergoglio, torni in auge, assieme ai fautori del modernismo, della Chiesa che si adatta ai tempi e degli ammiratori del protestantesimo: si pensi all’elogio di Lutero fatto dal cardinale Carlo Maria Martini, punto di riferimento ideologico di Bergoglio, e dalla incombente “beatificazione” dell’agostiniano spretato che si profila per l’ottobre 2017.
Dopo la condanna ricevuta dalla Santa Sede e la smentita ricevuta dalla storia, questo movimento perse prestigio e influenza. Ma la fine dell’anticomunismo e la crisi economica mondiale gli hanno offerto una occasione di riproporsi come alternativa globale. Oggi la teologia della liberazione, senza rinnegare le idee originarie, fa una parziale autocritica e si ripropone all’opinione pubblica cambiando paradigma, metodo e linguaggio, ossia riciclandosi in chiave ambientalista, psicoanalitica e tribale. Dopo aver tentato invano di suscitare una rivoluzione economico-politica suscitata dai movimenti di massa delle classi proletarie, oggi la teologia della liberazione tenta di animare una rivoluzione psicologico-culturale basata sull’azione di gruppi emarginati o discriminati. In tal modo, essa s’inserisce nell’attuale passaggio storico dalla “terza Rivoluzione” (quella social-comunista) alla “quarta Rivoluzione” (quella ecologista e anarchica), come temeva 30 anni fa un suo grande oppositore: il prof. Plinio Corrêa de Oliveira.[46]
È ipotizzabile che alla base della sovversione interna alla Chiesa ci sia stata una infiltrazione dei Gesuiti? Rispetto ad altri Ordini, infatti, la Compagnia di Gesù presentava molte importanti attrattive che la rendevano una preda ambita: la natura colta (i Gesuiti hanno creato e diffuso il modello educativo che è alla base della scuola moderna[47] e soprattutto fornito alla scienza e alla cultura un numero enorme non solo di teologi, ma anche di astronomi, matematici, filologi, glottologi, architetti, storici, geologi, letterati…[48]; dunque una indubbia capacità di formare le menti e presenza nell’apparato educativo: fattori che, assieme all’obbedienza cieca, caratteristica della Compagnia[49], la rendevano molto appetibile. Una volta conquistato il vertice, la Rivoluzione avrebbe avuto al proprio servizio il migliore degli eserciti per scardinare la Chiesa dall’interno.
È uno dei motivi che possono spiegare la simpatia neo-marxista della teologia della liberazione (in cui i gesuiti furono magna pars) e l’appoggio gesuita a certi esperimenti catto-comunisti nell’Italia degli “anni di fango”[50]: gli epigoni di Sant’Ignazio, dopo aver fatto nei secoli passati così tanta politica, nel corso del Novecento hanno finito per pensare che solo un diretto coinvolgimento a livello politico-sociale potesse consentire l’instaurazione del regno di Dio in terra, individuando gli alleati nei più acerrimi nemici. Un paradosso, un impenetrabile disegno machiavellico di infiltrazione attiva o, piuttosto, il risultato di un’infiltrazione passiva, aiutata dal partito di “ispirazione cristiana” – senza mai dimenticare il motto di Gramsci: «I popolari stanno ai socialisti come Kerensky a Lenin»[51]?

Il fiume carsico


Il Modernismo è stato definito un «fiume carsico»[52] che attraversa la storia della Chiesa: in effetti alcuni elementi ereticali (che potremmo definire cripto-protestanti) sono presenti prima del diffondersi della eresia modernista (in senso stretto) a cavallo dei secoli XIX e XX e dopo la sua formale condanna del 1907 ed il suo apparente dissolversi: gallicanesimo, conciliarismo, modernismo, episcopalismo, nouvelle théologie, teologia della liberazione…
Tra di essi ritroviamo il conciliarismo – considerare il Pontefice non come il capo supremo, ma come un unus inter pares – che pone l’assemblea dei vescovi al di sopra della Santa Sede (il gallicanesimo francese – e l’accettazione del giuseppinismo austriaco –, l’episcopalismo tedesco, il conciliarismo del Sinodo di Pistoia e dello stesso Vaticano II); la modificabilità dei dogmi, l’adattamento ai tempi, la subordinazione della Verità rivelata alla ricerca scientifica, l’accettazione della mentalità marxista sono tutti aspetti di una deviazione dalla dottrina tradizionale della Chiesa. Ad essi va aggiunto l’archeologismo, soprattutto nella liturgia: pretendere di ricostruire il modo di pregare (e, non dimentichiamolo, lex orandi, lex credendi) dei primi secoli, in aperto rifiuto della Tradizione; il Sinodo di Pistoia ne è un palese esempio[53].
L’errore di base sta nel ritenere la propria filosofia capace di assorbire quelle avversarie, senza rendersi conto dell’incompatibilità: di volta in volta, dopo il successo della cristianizzazione di Aristotele grazie a San Tommaso d’Aquino (che però era San Tommaso, non Teilhard de Chardin!), si è cercato di cristianizzare Kant, Hegel, Darwin, il liberalismo e infine Marx, con ben altri risultati…
Scrive Del Noce a proposito della “teologia della morte di Dio” – nient’altro che un ulteriore tentativo di creare una sintesi tra marxismo e cristianesimo:
si discorre molto oggi di “teologia della secolarizzazione”; ora, questa teologia altro non è, nella sua radice prima, che il risultato di una commistione di temi cristiani e di temi marxisti. Sorta nell’intenzione di cristianizzare il marxismo, conclude piuttosto, di fatto, in una ricerca di adeguamento del cristianesimo alla nuova religione marxista; e non è certo casuale che parecchi tra i suoi teorizzatori concludano apertamente nella tesi della “morte di Dio”.[54]
Fondamentale è stato, in questa prospettiva, il ruolo svolto dai Gesuiti, da secoli centro culturale della Chiesa assieme, naturalmente, ai Domenicani ma, rispetto a questi, più vicini alla realtà quotidiana. Alla svolta a sinistra della rivista «La Civiltà cattolica»[55], che sostenne apertamente la via del “compromesso storico” si affiancò la nascita della rivista «Aggiornamenti sociali», scaturita dal “Centro studi sociali” di Milano e ulteriore strumento di “apertura a sinistra”.
Palesemente indicativo del progetto di «colpire o almeno gettare ombra sulla dottrina del Magistero tradizionale della Chiesa in materia sociale attraverso le eventuali imprecisioni o limitazioni del fedele più o meno qualificato che se ne fa veicolo»[56] può essere un articolo di padre Sorge, scritto assieme a padre De Rosa[57] apparentemente per correggere l’uso scorretto, nel linguaggio corrente, dei termini integrismo e integrista, ed in particolare in risposta ad alcuni scritti di occasione di Franco Rodano, comparsi su Paese Sera a commento delle elezioni per i distretti scolastici[58]. Il voler rispondere al quotidiano Paese Sera – diffusissimo giornale popolare e voce “non ufficiale” del pci – indica più l’obiettivo di colpire il Magistero tradizionale della Chiesa, che la volontà di far chiarezza ai lettori di Paese Sera.
Dopo aver attaccato il Sodalitium Pianum (p. 315), a maggior riprova che l’obiettivo dell’articolo è tutt’altro che una chiarificazione terminologica rivolta all’esterno, bensì uno scontro dottrinario interno alla Chiesa, si ricorda che
Attualmente, la manifestazione più chiara dell’integrismo è il movimento di mons. Lefebvre, col suo rifiuto di accettare le «novità» del Concilio Vaticano II ed il suo attaccamento alla «messa di S. Pio V».[59]
Prese le distanze dai tradizionalisti, i due gesuiti proseguono – documenti conciliari alla mano – con l’elogio del relativismo: non esiste una “politica cristiana” né un “modello di società cristiana” se non per gli integristi, pronti a dedurla erroneamente ovvero «direttamente ed immediatamente – cioè, senza le necessarie mediazioni culturali tra la fede, che è il campo dell’assoluto e del trascendente, e la storia, che è il campo del relativo, del contingente e dell’immanente – dalla rivelazione cristiana»[60]
In conclusione, l’integrismo, sia confessionale sia ideologico, si oppone al pluralismo, alla tolleranza, al dialogo ed alla collaborazione con orientamenti teorici e pratici diversi. In sostanza, esso si traduce in una forma di totalitarismo ideologico e pratico.[61]
A questo punto è ovvia la distanza incolmabile tra gli integristi e i “veri cristiani” (cioè tra i gesuiti e i tradizionalisti, lefebvriani o meno):
Bisogna, infatti, attentamente distinguere tra l’«ispirarsi» alla fede nell’attività sociale e politica e il «dedurre» immediatamente e rigorosamente un modello di società e di azione socio-politica dalla fede. La deduzione immediata e rigorosa d’un modello di società dalla fede comporterebbe la delineazione d’una «società cristiana» come unico modello valido di convivenza, oggettivamente ritenuto obbligatorio non solo per i cristiani, ma per tutti. Invece, «ispirare» la vita sociale e politica alla fede significa che nella costruzione di un modello di società «umana» – cioè non dedotta dalla rivelazione, ma fondata sulla ragione e sul vero e sul bene che la ragione mostra essere tali, (quindi fondata su valori umani «comuni» a tutti e da tutti accettabili) – il cristiano chiede alla fede solo la luce che essa proietta sull’uomo, sulla sua origine, sulla sua dignità e sul suo destino, e la forza che i valori cristiani mettono a servizio dell’uomo, in primo luogo la forza della carità.[62]
A conferma di ciò, l’articolo liquida l’Inquisizione – massimo esempio ovvero «caso più abusato di integrismo cristiano» – come «una distorsione che, se è storicamente spiegabile, non è però evangelicamente giustificabile e deve, quindi, essere considerata un errore»[63]. Infine (anticipando il respingimento della di per sé poco credibile ermeneutica della continuità) l’articolo sostiene coerentemente che
il Concilio Vaticano II, con l’affermazione della libertà religiosa, ha tolto ogni giustificazione all’integrismo confessionale, che in altre epoche si fondava sul principio che l’errore, essendo un male individuale e sociale, era da combattere e da estirpare anche con la forza.[64]
Quindi il male non è da combattere né da estirpare, bensì – evidentemente – da accettare (se non coltivare) con amore. A meno che il male non sia rappresentato, anziché da deicidi, scismatici, atei, marxisti ed eretici, dai cattolici tradizionalisti o integristi.
Un altro importante campione del doppio peso (massima apertura all’esterno, dall’acattolico all’anticristiano, ma contemporaneamente massima durezza all’interno, nei confronti dei cattolici tradizionalisti), ed anch’egli gesuita, fu il potente e temuto (assai più che amato) Carlo Maria Martini (1927-2012)[65], cha da presule di Milano si fece promotore di una relativista “Cattedra dei non credenti” (1987-2002)[66]; Martini fu infatti apertamente estimatore del protestantesimo[67], dell’islamismo[68] e dell’ebraismo. Per contro, fu – naturalmente – tra i critici del motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum, che autorizzava il ripristino, entro certi limiti, della S. Messa tradizionale (e lo fece, da par suo, dalle colonne de Il Sole 24 ore), dopo aver boicottato nella sua diocesi l’indulto concesso da Giovanni Paolo II alla celebrazione dello stesso rito tridentino.
Non a caso Martini è stato più volte indicato come un maestro di vita da Bergoglio e recentemente è stato rivelato che l’elezione di Bergoglio è stato il frutto delle riunioni segrete di un gruppo cardinali e vescovi, organizzati appunto da Carlo Maria Martini, hanno tenuto per anni a San Gallo, in Svizzera. Lo sostiene nella propria biografia[69] uno dei cardinali più progressisti, il belga Godfried Danneels (1933) che definisce tale gruppo di cardinali e vescovi un “Mafiaclub”.
E il cerchio si chiude, rendendo anche comprensibile perché ciò che era considerato eretico dalla bolla papale Auctorem fidei del 28 agosto 1794 sia stato accettato dopo il (e grazie al) Concilio Ecumenico Vaticano II.




[1] Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Stalin a Togliatti: colpire i cattolici, in Avvenire, 31 ottobre 2007. Cfr. anche Iidem, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 2007.
[2] Plinio Corrêa de Oliveira parlò di «una certa ambiguità sistematica, incompatibile con la piena ortodossia». Cfr. Archivio dell’Istituto Plinio Corrêa de Oliveira (San Paolo, Brasile), riunione del 20 agosto 1980, cit. in Roberto de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, p. 587, che a pagina 14 sostiene: «L’esistenza di una pluralità di ermeneutiche attesta peraltro una certa ambiguità o ambivalenza dei documenti». Per una critica serrata dell’ambiguità dei testi conciliari, si veda Atila Sinke Guimarães, In the murky waters of Vatican II, Tan Books, Rockford (Illinois) 1999, pp. 1-296; Id., Animus Delendi (The Desire to Destroy), Tradiction in Action, Los Angeles, vol. I (2001) e II (2002). Il carattere eterogeneo e a volte contraddittorio dei testi conciliari è ammesso anche da Antonio Acerbi in Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen Gentium”, EDB, Bologna 1975.
[3] La definizione è di Plinio Corrêa de Oliveira (Archivio dell’Istituto Plinio Corrêa de Oliveira, riunione del 9 settembre 1989; cit. in Roberto de Mattei, op. cit., p. 125).
[4] I modernisti hanno come obiettivo la Chiesa tradizionale, i marxisti la Chiesa tout court. I primi vogliono trasformarla da portatrice della Verità ad associazione di beneficienza; i secondi preferirebbero distruggerla: in subordine, accettano di vederla passare da annunciatrice del Vangelo ad associazione umanitaria, al pari di qualsiasi altra banale “onlus”.
[5] Il Sinodo di Pistoia, svoltosi in sette sessioni dal 19 al 28 settembre 1786, fu un sinodo diocesano che cercò di riformare la Chiesa locale in senso giansenista. Esso fu convocato dal Vescovo di Pistoia e Prato, Scipione de’ Ricci (1740-1810) ed animato dal teologo Pietro Tamburini (1737-1827), professore all’università di Pavia. Per il de’ Ricci, questo sinodo doveva rappresentare il primo passo per la nascita di una chiesa nazionale, indipendente da Roma. Il sinodo durò dieci giorni e il lavoro consistette praticamente nell’approvazione di decreti già preparati in precedenza. Lo spirito generale del sinodo, antiromano e anticuriale, è palese in alcuni articoli: conferma degli articoli gallicani del 1682, approvazione di tesi care ai giansenisti (condanna del Sacro Cuore, degli esercizi spirituali, delle missioni popolari), fusione di tutti i religiosi in un solo ordine, soppressione dei voti di povertà ed obbedienza.
[6] In particolare, Scipione de’ Ricci voleva vietare, assieme alla venerazione del Sacro Cuore e della Via Crucis, quella della Sacra Cintola, la reliquia più preziosa di Prato: una cintura che la tradizione si considera essere appartenuta alla Madonna.
[7] Definiamo così quella corrente che ha operato successivamente alla condanna comminata da San Pio X.
[8] Francesco Lamendola, Quanti preti di sinistra sono massoni ed ex agenti sovietici infiltrati nei seminari?, il Corriere delle Regioni, Quaderni culturali: Giornale Web e www.ariannaeditrice.it [31.1.2017]
[9] Quando Giovanni XXIII palesò la decisione di indire un concilio di fronte a un gruppo di cardinali, «il Papa rimase sconcertato dall’“impressionante, devoto silenzio” dei presenti, che manifestava interrogativi e perplessità». Roberto de Mattei, op. cit., p. 116-117. Del resto, poiché il Vaticano I non era stato mai chiuso, ma solo sospeso per la guerra franco-prussiana e la presa di Roma, nel 1923, alla domanda di Pio XI se fosse il caso di riaprirlo e terminarlo, il Cardinal Louis Billot (1846-1931), aveva risposto di ritenere pericoloso convocarlo, dal momento che: «La ripresa del Concilio è desiderata dai peggiori nemici della Chiesa, cioè dai modernisti, che già s’apprestano – come ne fanno fede gli indizi più certi – a profittare degli stati generali della Chiesa per fare la rivoluzione, il nuovo ’89, oggetto dei loro sogni e delle loro speranze». Ivi, p. 121. Valutazioni fortemente contrarie furono esposte anche dai cardinali Andreas Frühwirth (1845-1933) e Tommaso Pio Boggiani (1863-1942).
[10] Cfr. in questo senso, la “apertura” di Antonio Spadaro, La religiosità dell’attesa nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, in «La Civiltà Cattolica», cxlvi, 1995 IV, n. 3487, p. 30-43.
[11] Giovanni Mosca, La storia d’Italia in 200 vignette. Rizzoli, Milano 1976, p. 188.
[12] I “preti operai” (PO), che si contavano su una mano prima del Concilio, divennero quasi trecento dopo il 1964 (l’ultimo “censimento”, risalente al 1995, ne contava 110, di cui 10 in pensione, quasi tutti concentrati in nord Italia). La loro rivista, nell’editoriale del primo numero, afferma: «Per la quasi totalità dei PO italiani il Concilio Vaticano II è stato il punto di partenza nel cammino che ci ha condotto a condividere la condizione operaia. […] Il Vaticano II rappresenta un momento di rottura dal quale si dipartono alcune transizioni o spostamenti epocali di importanza decisiva: — dalla chiesa cattolica quale società perfetta i cui confini circoscrivevano la salvezza di Dio, al riconoscimento delle altre chiese e comunità cristiane quali espressioni dell’unica chiesa di Cristo; — dalla chiesa centralizzata all’emergere delle chiese locali; — dalla chiesa semplicemente identificata come società gerarchica, al recupero della figura biblica e storica di popolo di Dio; — dal monolitismo teologico alla ricchezza pluralistica delle riflessioni critiche sul cristianesimo; — dalla semplice dipendenza dei laici nei confronti del clero, ad una loro presa di coscienza e responsabilità con processi di autonomia sul piano culturale, politico, teologico, etico… — da una chiesa di fronte al mondo ad una chiesa nel mondo, che deve stare con gli ultimi del mondo». Roberto Fiorini, I preti operai italiani, in «Pretioperai», n. 0, 1987. Notare come il Vaticano II sia considerato un “punto di partenza”, un “momento di rottura” e alla Chiesa cattolica venga contrapposta (e ovviamente preferita) un’altra “unica chiesa di Cristo” da cercare attraverso una non meglio precisata “ricchezza pluralistica delle riflessioni critiche”: il caos contrapposto all’ordine, negativamente connotato, del “monolitismo teologico”.
[13] Fu Bettino Craxi negli anni ‘80 del ‘900 ad usare questa espressione, ma la riprese da un articolo di un secolo prima: «Sì, Gesù fu socialista […]. Egli proclamò che gli uomini sono tutti uguali; non ammetteva la proprietà privata né la conseguente divisione dei cittadini in padroni e servi, ricchi e poveri, gaudenti e affamati, e predicava invece la comunione dei beni». Camillo Prampolini (1859-1930), Gesù Cristo rivoluzionario e socialista, in La Giustizia, 5 febbraio 1888.
[14] Cfr. l’ottimo saggio di Julio Loredo, Teologia della liberazione. Un salvagente di piombo per i poveri, Cantagalli, Siena 2015. Si vedano anche le opere di Miguel Poradowski, La escalonada marxistización de la teología (1974); Sobre la teología de la liberación (1974); El marxismo en la teología (1976), tutti editi dalla Fondazione Speiro di Madrid.
[15] Sulla portata “rivoluzionaria” dell’enciclica del 1963, cfr. Beniamino Di Martino, A cinquant’anni dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, in «Quaerere Deum. Rivista semestrale di scienze religiose e umanistiche», V (2013), n. 8, p. 21-45.
[16] Nel testo: sloveno.
[17] I Millenari, Via col vento in Vaticano, Milano, Kaos Edizioni, 1999, p. 215 ss. Corsivo mio.
[18] « Je voudrais, et ce sera le dernier et le plus ardent de mes souhaits, je voudrais que le dernier des rois fût étranglé avec les boyaux du dernier prêtre. » («Io vorrei, e questo sia l’ultimo ed il più ardente dei miei desideri, io vorrei che l’ultimo dei re fosse strangolato con le budella dell’ultimo dei preti»). Jean Meslier (1664-1729), Il testamento (cit. in Jacques Andre Naigeon, Encyclopédie méthodique ou par ordre de matières: philosophie ancienne & moderne, H. Agasse, Parigi [anno XI della Rivoluzione]1802 volume III, p. 329).
[19] Ivi, p. 113.
[20] Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, Linotypia-Tipografia Dario Detti, Roma 1962, p. 284-284.
[21] L’accordo di Metz è stato un accordo di principio tra la Santa Sede e la Chiesa ortodossa russa a Metz, in Francia, il 13 agosto 1962, in cui la Chiesa ortodossa russa ha accettato di inviare osservatori al Concilio Vaticano II e in cambio, il Vaticano avrebbe espressamente astenersi dal condannare il comunismo. Le trattative si svolsero tra il cardinale Eugène Tisserant e il metropolita Nicodemo, futuro Esarca dell’Europa Occidentale e probabilmente – nomen omen – agente del Kgb. Sull’argomento, cfr. Jean Madiran, «L’accordo di Metz». Tra Cremlino e Vaticano, Pagine, Roma 2011.
[22] J. Madiran, op. cit., passim.
[23] Ivi, p. 33.
[24] Cfr. Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Einaudi, Torino 1999.
[25] Tra i testi di riferimento vorrei ricordare almeno Alain de Benoist, Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli 1981 e il massiccio (ma anch’esso incompleto, nonostante le oltre 600 pagine) Ideario italiano, Il pensiero del Novecento visto da Destra, a cura di Gennaro Malgieri, Il Minotauro, Roma 2001.
[26] La battuta «Quando sento la parola cultura, tolgo la sicura alla mia Browning!» (in originale: «Wenn ich Kultur höre… entsichere ich meinen Browning!») ricorre nella prima scena del primo atto del dramma Schlageter (1933) di Hanns Johst (1890-1978). È stata attribuita a vari gerarchi nazisti, tra cui Baldur von Schirach (1907-1974), capo delle Hitlerjugend e Gauleiter di Vienna (così secondo Wikipedia) o più spesso ad Hermann Göring (ed anche, assai meno comprensibilmente, al Ministro della Propaganda Joseph Göbbels). Il dramma Schlageter, dedicato alla figura di “protomartire” del nazismo Albert Leo Schlageter (1894-1923), membro dei Freikorps, venne rappresentata per la prima volta nell’aprile 1933, in onore del compleanno di Adolf Hitler. Per la precisione, la battuta viene pronunciata non da Schlagater, bensì dal suo commilitone Friedrich Thiemann, che ritiene superfluo studiare per gli esami in una situazione in cui la patria si trova in pericolo.
[27] In questo caso non si potrebbe parlare di infiltrazione, perché non si tratterebbe di far penetrare idee sovversive, bensì di rafforzare i principî della Tradizione. L’unico caso noto, quello di creare una congregazione formata da sacerdoti di simpatie dichiaratamente di destra, quella dei Serafici dello Spirito Santo, ebbe breve vita nel 1963, all’inizio del Concilio (cfr. Umberto Berlenghini, Massimiliano Griner, Stefano Delle Chiaie, L’aquila e il condor. Memorie di un rivoluzionario politico, Sperling&Kupfer, Milano 2012, p. 26-29.
[28] Per quanto riguarda un tentativo organizzatore – si pensi al libello Orientamenti (1950), poi ampliato nel saggio Gli uomini e le rovine (1953). Ma quel che mancò ad Evola – e per cui non può essere considerato il Gramsci di Destra – fu l’appoggio del partito: sia il pnf che il msi lo tennero ai margini della vita culturale all’interno del partito. E non si può certo definire “Gramsci di destra” il politicamente e sessualmente ondivago Armando Plebe (1927-), che pure ebbe da Giorgio Almirante (1914-1988) una sciagurata nomina a responsabile del settore cultura del msi-dn.
[29] Gli uomini e le rovine, cap. XV, Il problema delle nascite, p. 121.
[30] Nei primi anni Ottanta è nata comunque una generazione di “integrati a metà”: perfetti impiegati durante il giorno che, a sera, rientravano a casa e si immergevano in letture evoliane sognando prospettive di rivolta politica che non si sarebbero mai realizzate. In particolare, a Milano, mercé un dirigente giovanile del Msi, che era anche un influente funzionario del personale di una nota banca, molti giovani del FdG (Fronte della Gioventù) e del Fuan (Fronte universitario d’azione nazionale) furono spinti ad entrare in questo istituto bancario. Naturalmente, ogni piano di supposta “conquista dall’interno” si dissolse di fronte al desiderio carrieristico dei più, che dimostrarono un attaccamento alle possibilità di carriere ben maggiore di qualsiasi tipo di “cameratismo”. Salvo l’uso, una volta lasciato l’ufficio e tornati a casa, di aprire un testo del Maestro e sognare lunghe cavalcate sulla tigre…
[31] Enrico Annibale Butti, L’incantesimo (parte I, La sirena, parte II, La chimera), Treves, Milano 1897 (ora: Solfanelli, Chieti 2017). Il romanzo, uno sviluppo concreto del superoministico – e forse troppo idealistico – Le vergini delle rocce (1896) di Gabriele d’Annunzio, è uno dei più validi esempi di letteratura politica di Destra del periodo postromantico.
[32] Fondato nel 1540, l’Ordine fu soppresso e disciolto nel 1773 da Clemente XIV su pressione dei principali sovrani d’Europa, ma risorse nel 1814 con Pio VII all’epoca del Congresso di Vienna e della cosiddetta Restaurazione.
[33] Francesco Lamendola, I gesuiti hanno preso il timone della Chiesa, ma per condurla dove?, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=53779 [7.02.2017].
[34] Ibid.
[35] Il professor John Rao usava citare passi de «La Civiltà cattolica» dell’800 affermando: «Ecco cosa scrivevano i gesuiti quando erano cattolici». E Antonio Socci scrive: «Dopo il Concilio la Compagnia di Gesù non è stata più la soluzione, ma è diventata il problema. E se nella nostra generazione si vuol trovare addirittura un cardinale che ha apertamente e pubblicamente dissentito dal magistero dei Papi basta considerare il caso del gesuita Carlo Maria Martini». Antonio Socci, Non è Francesco. La Chiesa nella grande tempesta, Mondadori, Milano 2015, p. ???.
[36] Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), paleontologo e filosofo francese. Per una sintesi critica del suo pensiero, cfr. Pier Carlo Landucci, Teilhard de Chardin. Aberrazioni ideologiche e dottrinali, Effedieffe, Viterbo 2015.
[37] Karl Rahner (1904-1984), tedesco, discepolo di Heidegger e preparatore del Vaticano II con la sua alla «svolta antropologica» in teologia, cioè il passaggio al soggettivismo dall’oggettivismo della teologia scolastica; la teoria del «cristianesimo anonimo» contro la formula «nulla salus extra Ecclesiam» e, naturalmente, il dialogo con il marxismo. Per comprendere l’importanza del suo ruolo, è nota un’inchiesta svolta tra gli studenti della Lateranense subito dopo il Concilio: alla domanda su chi fosse il principale teologo cattolico di tutti i tempi, gli studenti non indicarono né Sant’Agostino, né San Tommaso d’Aquino, bensì Karl Rahner.
[38] Cfr. in particolare Roberto de Mattei, Il Concilio Vaticano II, cit.
[39] Gesuita, per fare un solo esempio, fu Luis Espinal Camps, noto come “Lucho Espinal” (1932-1980) ideatore dell’aberrante “crocifisso comunista” (un crocifisso montato su una falce e martello), apprezzato regalo del presidente boliviano, il sindacalista social-comunista Evo Morales, a Jorge Bergoglio. Lo stesso Bergoglio è ritenuto vicino alla teologia della liberazione: Rachel Donadiomay, Francis’ Humility and Emphasis on the Poor Strike a New Tone at the Vatican, in New York Times, 25.05.2013.
[40] Basti pensare alla delirante – nonché esemplificativa – dichiarazione rilasciata al quotidiano Repubblica di Luca Brandolini, vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo, nonché membro della commissione liturgica della conferenza episcopale italiana: «Non riesco a trattenere le lacrime – ha detto – sto vivendo il momento più triste della mia vita di vescovo e di uomo. È un giorno di lutto non solo per me, ma per i tanti che hanno vissuto e lavorato per il Concilio Vaticano II. È stata cancellata una riforma per la quale lavorarono in tanti, al prezzo di grandi sacrifici, animati solo dal desiderio di rinnovare la Chiesa» Orazio La Rocca, “Obbedirò al Pontefice ma è un giorno di lutto. Si cancella la riforma”, in La Repubblica, 8 settembre 2007.
[41] Francesco Lamendola, op. cit.
[42] Ibid.
[43] Malachi Martin, I Gesuiti, SugarCo, Milano 1987, p. 29-30. Corsivo mio.
[44] Cfr. i due studi Libertatis Nuntius (1984) e Libertatis Conscientia (1986) della Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
[45] Cfr. la Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulle opere del P. Jon Sobrino S.I. (2006). Lo stesso Woytila, aprendo i lavori della III Conferenza Generale dell’Episcopato latinoamericano (celam) a Puebla (Messico), il 28 gennaio 1979 indicò i pericoli dell’abbandono della Fede per cercare altre vie onde raggiungere la “libertà”: «In alcuni casi, o si tace la divinità di Cristo, o si incorre di fatto in forme di interpretazione contrarie alla fede della Chiesa. Cristo sarebbe solamente un “profeta”, un annunciatore del Regno e dell’amore di Dio, ma non il vero Figlio di Dio, e non sarebbe pertanto il centro e l’oggetto dello stesso messaggio evangelico. In altri casi, si pretende di mostrare Gesù come impegnato politicamente, come uno che combatte contro la dominazione romana e contro i potenti, anzi implicato in una lotta di classe. Questa concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si compagina con la catechesi della Chiesa». Corsivo mio. Nel discorso, la condanna della teologia della liberazione, pur essendo implicita, non è mai esplicita: il termine liberazione si ripete 20 volte, mentre la locuzione teologia della liberazione non ricorre mai.
[46] Guido Vignelli, La “teologia della liberazione”: un libro ne denuncia il pericoloso rilancio, in «Riscossa Cristiana. Sito cattolico di attualità e cultura», 11 marzo 2015 [8.02.2017].
[47] Cfr. tra gli altri, Fabrizio Manuel Sirignano, Gesuiti e Giansenisti. Modelli e metodi educativi a confronto, Liguori, Napoli 2012. I giansenisti propugnavano una scuola elitaria: classi di pochissime persone di varie età, formate solitamente da familiari (fratelli e cugini), con lezioni che si tenevano all’interno del palazzo di famiglia e curate in tutte le materie da un unico aio, che viveva giorno e notte con i discepoli. I Gesuiti invece avevano scuole con classi numerose, formate da alunni della stessa età, provenienti da strati sociali diversi, che si riunivano in una scuola (ricavata in un palazzo di proprietà dell’Ordine) e venivano seguiti da docenti specializzati per ciascuna materia e sottoposti ad un rigido controllo di qualità.
[48] C’è chi sottolinea il lato negativo della natura colta della Compagnia per spiegare la silenziosa, ma radicale “mutazione antropologica” dei Gesuiti a partire dalla metà del XX secolo: «dopo aver dato alla Chiesa e al mondo, oltre che instancabili e intrepidi missionari, i gesuiti hanno finito per assimilare lo spirito della cultura profana, per assorbire elementi di modernismo, laicismo, razionalismo, meccanicismo, evoluzionismo: valga per tutti l’esempio di Teilhard de Chardin, la cui filosofia è assai poco cristiana e molto, invece, panteista. Nietzsche diceva che non si può guardare nell’abisso troppo a lungo, senza che l’abisso guardi dentro di noi». Francesco Lamendola, I gesuiti hanno preso il timone della Chiesa, ma per condurla dove?, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=53779, 18/04/2016 [10.02.2017].
[49] «Oltre ai voti di castità, povertà e obbedienza, i gesuiti ne fanno uno ulteriore. Promettono infatti speciale obbedienza al Papa, rendendosi disponibili a essere inviati ovunque o comunque a ricevere una qualsiasi missione che il Papa ritenga utile al bene della Chiesa. La Compagnia di Gesù non è l’unico Ordine a fare un quarto voto. I camilliani, ad esempio, fanno voto di assistenza ai malati, mentre gli ordini monastici fanno un voto di stabilità. Questo voto “in più” ha a che fare con il carisma dell’Ordine, cioè con la maniera specifica di vivere la sequela del Signore. Per i gesuiti questo significa che l’obbedienza speciale che vivono al Santo Padre è al cuore stesso della loro identità». http://gesuiti.it/in-che-cosa-consiste-il-quarto-voto/ [10.2.2017].
[50] Si pensi all’esperienza della “primavera di Palermo” (1985-1990), quando i gesuiti Bartolomeo Sorge e Ennio Pintacuda, entrambi provenienti dal Centro di Formazione Politica “Pedro Arrupe” di Palermo, guardarono con simpatia al movimento catto-comunista della “Rete” di Leoluca Orlando.
[51] Antonio Gramsci, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 257.
[52] La definizione è di Roberto de Mattei, che la ha usata per la prima volta il 27 novembre 2007, in occasione di un convengo sul centenario dell’enciclica Pascendi Dominici Gregis, tenuto presso la Pontificia Università San Tommaso.
[53] Diversi furono i decreti emanati dal Sinodo, che fortunatamente rimasero lettera morta, prima di essere condannati ufficialmente da Pio VI (bolla papale Auctorem fidei del 28 agosto 1794):
·          la Chiesa ha il compito di preservare la purezza originaria della fede trasmessa da Cristo ai Suoi apostoli e non aveva diritto di introdurre nuovi dogmi, che sono perciò falsi;
·          la vera Chiesa, organismo spirituale senza autorità secolare, è la comunità dei pastori di Cristo di cui il Papa è soltanto il capo ministeriale;
·          si raccomanda di abolire tutti gli Ordini monastici, eccetto quello dei Benedettini; alle suore viene proibito di pronunciare i voti prima dei 40 anni;
·          liturgia: si introduce la lingua volgare e la lettura ad alta voce delle preghiere della Messa; si obbliga a togliere dalle chiese ogni immagine o statua che non siano quelle che fanno riferimento ai misteri di Cristo; sono soppressi gli altari laterali nelle chiese;
·          penitenza: dottrina molto rigida, favorevole ad un’unica confessione nella vita, come nella chiesa antica;
·          il Sacro Cuore e la Via Crucis sono considerate false devozioni;
·          per il culto pubblico si mantengono gli onori al Sovrano (ovviamente!), ma si riducono le novene, le processioni, le feste (trasferite alla domenica successiva o precedente).
[54] Augusto Del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo. Lezioni sul marxismo, Giuffré, Milano 1972, p. 34. Corsivo mio.
[55] «Si mettano a confronto, per averne la prova, le annate de «La Civiltà cattolica» anteriori, e quelle posteriori, al Concilio Vaticano II. È sempre la stessa rivista, sono sempre gli stessi gesuiti; eppure è cambiato tutto, le tesi sono completamente diverse, e anche la linea pastorale è mutata da cima a fondo». Francesco Lamendola, I gesuiti hanno preso il timone della Chiesa, cit.
[56] Giovanni Cantoni, L’anti-integrismo come “dis-integrazione” della Fede. Il contributo de “La Civiltà Cattolica” al “compromesso culturale”, in «Cristianità», n. 37, 1978.
[57] Bartolomeo Sorge sj, Giuseppe De Rosa sj, Fede cristiana ed integrismo, in «La Civiltà Cattolica», anno 129 n. 3064, (18-2-1978), p. 316-324.
[58] Le elezioni si erano tenute nel 1977 (11 e 12 dicembre); gli articoli di Paese sera erano apparsi nel 1978 (5 e 18 gennaio, 8 febbraio).
[59] Ivi, p. 316.
[60] Ivi, p. 318.
[61] Ivi, p. 320.
[62] Ivi, p. 321.
[63] Ivi, p. 322.
[64] Ivi, p. 323
[65] Arcivescovo di Milano (1979-2002), Cardinale dal 1983, Presidente del Consiglio delle Conferenze dei vescovi d’Europa (1986-1993).
[66] Attenzione: non cattedra per i non credenti (volta alla conversione di essi), ma dei non credenti, chiamati a pontificare, se non a convertire (o pervertire) i cattolici. Le lezioni introduttive di Martini alla “Cattedra” sono state pubblicate (Le cattedre dei non credenti, Bompiani, Milano 2015) come primo volume della sua opera omnia e con una prefazione firmata da Bergoglio, che non lesina elogi al suo mentore: «La sua vita, le sue opere e le sue parole hanno infuso speranza e sostenuto molte persone nel loro cammino di ricerca».
[67] In Colloqui notturni a Gerusalemme. Sul rischio della fede (Mondadori, Milano 2008), «Martini definisce Lutero, che nella storia della Chiesa è stato una delle più tragiche calamità, come “il più grande riformatore”. Poi aggiunge che a Lutero “l’amore per le Sacre Scritture ispirò buone idee” (testuale!) e pur ritenendo “problematico” il fatto che Lutero abbia “tratto da riforme e ideali necessari un sistema proprio”, tuttavia Martini afferma che la Chiesa contemporanea “se ne è lasciata ispirare per dar corso al processo di rinnovamento del Concilio Vaticano II, dischiudendo per la prima volta ai cattolici il tesoro della Bibbia su basi più larghe”» Antonio Socci, Da Martin Lutero a “Martini Lutero”, in Libero, 21 maggio 2008. Notevole la sottolineatura del rapporto tra Lutero e Vaticano II…
[68] Il 7 dicembre 1990, cioè nella ricorrenza di Sant’Ambrogio, protettore di Milano, predicò la necessitò di dialogare con l’islam e di favorire l’integrazione con gli immigrati di fede islamica,
[69] Jürgen Mettepenningen, Karim Schelkens, Godfried Danneels. Biografie, Uitgeverij Polis, Antwerpen 2015

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