Gianandrea de Antonellis
Il seminarista rosso
L’infiltrazione marxista nella Chiesa
Una volta c’erano
i preti operai: oggi quegli
stessi preti
sono diventati vescovi.
Paolo Ferrante, 1990.
Secondo
Stalin, la forza politica più pericolosa
per i comunisti è la Chiesa cattolica,
e per colpire
questo temibile «avversario»
suggerisce di «non attaccare»
direttamente
la religione, ma le sue organizzazioni.[1]
La deriva modernista della Chiesa è sotto gli occhi di
tutti. Ma, nonostante la distruzione dei dogmi, dei princìpi, dei simboli sia
costante, nessuno interviene. E nessuno, soprattutto, la denuncia per quello
che è: l’imporsi di una dottrina già ufficialmente condannata da San Pio X nell’enciclica
Pascendi (1907). Dal Vaticano II in
poi il modernismo, sotto diverso nome, senza mai usare questo termine, perché
avrebbe esplicitato l’eresia sottintesa allo strombazzato “spirito del Concilio”,
ha imperato nella vita ecclesiastica: introduzione del Novus Ordo, abolizione dei paramenti, introduzione della tavola
eucaristica di fronte (ma più spesso al posto) dell’altare principale ed
eliminazione (cioè, distruzione) di quelli laterali, eliminazione della
balaustra e conseguente banalizzazione dell’eucarestia (comunione nella mano o
sotto le due specie), sostituzione dei canti gregoriani con canzonette pop,
chitarre al posto dell’organo, etc.
Come tutto questo sia stato possibile in pochi decenni
sembra incredibile, ma diventa perfettamente comprensibile se lo si considera
non un frutto del caso (o meglio del caos) introdotto dalla voluta ambiguità[2]
dei documenti conciliari, bensì come un progetto che parte da lontano (dagli
anni Trenta) e che nel Concilio ha visto un fondamentale punto di svolta.
Ogni effetto ha una propria causa: del resto la punta
dirompente della lancia rivoluzionaria non avrebbe la sua forza se non fosse
innestata su un’asta composta dalle varie stratificazioni del pensiero
pre-rivoluzionario.
Nel caso della “rivoluzione nella Chiesa”[3] – cioè il Concilio Vaticano II – non è scaturita dal nulla, ma è stata attentamente preparata nei decenni che lo precedevano. I fautori ne sono stati da un lato i modernisti, sconfitti nel 1907 ma non debellati; dall’altro le nuove leve anticristiane di matrice marxista: ambedue accumunati dal progetto di distruggere la Chiesa tradizionale[4] dall’interno e non dall’esterno, come avevano tentato in precedenza (solo per citare i principali casi dell’ultimo millennio) albigesi, protestanti, fautori delle Chiese nazionaliste (gallicani, giuseppini, etc.), giacobini e, nell’ultimo secolo, nazionalsocialisti.
Un precedente di “lotta dall’interno” si può ritrovare nel movimento
“sotterraneo” del giansenismo (sec. XVII), che in Italia ebbe la sua massima
espressione nel Sinodo di Pistoia[5]
(1786). Il movimento, che prende il nome dal vescovo di Ypres, Cornelius Otto
Jansen (latinizzato in Giansenio, 1585-1638), ha cercato di attuare una riforma
semi-calvinista senza però mai uscire dall’alveo della Chiesa e tentando di
infettarla dall’interno. A causa del suo elitarismo, però, è sempre rimasto abbastanza
isolato: la sua “venuta alla luce”, con il Sinodo di Pistoia, suscitò
addirittura una rivolta di popolo, perché cercava di abolire alcuni culti molto
seguiti dai fedeli[6].
L’iconoclastia e l’abolizione degli altari laterali, l’uso
della lingua volgare nella liturgia e l’episcopalismo o conciliarismo (cioè il
ritenere la conferenza dei vescovi a capo della Chiesa nazionale, lasciando al
papa il semplice ruolo di unus inter
pares), proposti dal Sinodo di Pistoia ed immediatamente condannati, sono
stati trionfalmente accettati con il Concilio ed il suo “spirito”.
La forze dirompente della mentalità neo-modernista[7]
proviene comunque da elementi di formazione extra-ecclesiale: appunto gli
infiltrati marxisti che, all’indomani del consolidamento di Stalin nell’Urss e della
sottomissione della Chiesa ortodossa, furono incaricati di indebolire la Chiesa
cattolica, affrontando un lavoro di lungo periodo ma di buone prospettive e – a
ottant’anni di distanza – di successo quasi insperato.
Negli anni Trenta i servizi segreti dell’Unione Sovietica si
servivano di qualunque stratagemma, anche il più machiavellico, pur di «portare
il seme della controffensiva ideologica fin nel cuore delle democrazie
occidentale e degli stessi stati fascisti, a cominciare dall’Italia di
Mussolini, dove potevano servire nella duplice veste di quinte colonne dentro
la Chiesa cattolica, e di agenti dello spionaggio politico in senso
anticapitalista e antiborghese»[8].
Tale penetrazione continuò, ovviamente, dopo la seconda
guerra mondiale: durante gli anni della Guerra fredda, un alto numero di membri
dei servizi segreti sovietici – italiani, francesi, tedeschi, eccetera, tutti giovani
dalla provata fede marxista-leninista – si è abilmente infiltrato, oltre che
nei gangli vitali della società civile dei Paesi occidentali (giornali, case
editrici, tribunali, sindacato), anche nelle file della Chiesa cattolica, a
partire dal livello della formazione sacerdotale, ossia dai seminari e dai
noviziati, con il preciso mandato di
insinuare accortamente le idee del comunismo nella mentalità e nella pratica
del clero.
Così, quando sconsideratamente[9]
Giovanni XXIII indisse il Concilio, le idee rivoluzionarie erano già penetrate
nella mentalità ecclesiastica: magari non venivano accettate a braccia aperte,
ma se non altro non erano immediatamente rigettate e bollate come eretiche. Del
resto, è noto che esiste un passaggio quasi obbligato dalla tolleranza verso un’idea
ereticale alla persecuzione in senso inverso. I gradini del “trasbordo
ideologico” sono costituiti da: 1) tolleranza (in nome della lotta alla
discriminazione); 2) accettazione (anche se non sullo stesso piano); 3)
equiparazione (identità di piani); 4) subordinazione (privilegio); 5)
persecuzione (di coloro che si oppongono).
Prendiamo, ad esempio, la presenza degli invertiti (o, per
usare un termine politicamente corretto, omosessuali), fino a pochi decenni fa
dileggiati e per i quali sarebbe stato impensabile la semplice idea di proporre
una forma di matrimonio. Ebbene, attraverso il passaggio dei succitati cinque
gradi siamo passati dalla tolleranza (cioè la derubricazione dell’omosessualità
dal novero dei reati); alla accettazione della loro presenza in pubblico (che,
tranne che per i femminielli dei bassi napoletani ed i travestiti dei cabaret
della Repubblica di Weimar era improponibile in una società normale: pensiamo invece
alla presenza nel mondo dello spettacolo dei vari Pier Paolo Pasolini e Luchino
Visconti e a tutta la pletora degli outing
degli anni ‘80 e ‘90); quindi alla equiparazione, con il divieto di
discriminazione per le assunzioni e la richiesta di inserimento nella
legislazione dei matrimoni contro natura; alla subordinazione (l’omosessuale
visto non come un pervertito degenerato o tutt’al più uno scherzo di natura, ma
al contrario come un potenziale artista: “tutti
i più grandi artisti erano omosessuali!”[10])
ed infine alla persecuzione (guai a chi discrimina per questioni di gender – o
di razza, bisogna aggiungere – pensiamo che in Scandinavia si è giunti all’arresto
di un predicatore che sosteneva l’omosessualità essere un peccato).
«Mater et magistra, andate pure a sinistra»
«Mater et magistra,
andate pure a sinistra» sintetizzava umoristicamente Giovanni Mosca[11].
Con il comunismo anche all’interno della Chiesa si è avuto un processo simile:
la condanna esplicita di Pio XI (Divini
Redemptoris, 19 marzo 1937) si è stemperata – se non dottrinalmente,
pastoralmente – nel corso degli anni con l’accettazione dei presupposti del
socialismo, con la tolleranza nei confronti dei “preti operai”[12],
con la leggenda del “Cristo, primo socialista della storia”[13],
con l’imporsi della teologia della liberazione[14],
cioè l’identificazione tra marxismo e cristianesimo, nata con il Patto delle catacombe (16 novembre 1965)
e quindi uscita allo scoperto con la riunione del Consiglio episcopale
latinoamericano (CELAM) di Medellín (Colombia) del 1968.
Ma come è possibile che in pochi anni (Pio XII era scomparso
solo dieci anni prima, nel 1958) si sia arrivati a rivoluzionare in tal modo la
Chiesa? Evidentemente il Concilio non ha fatto altro che portare allo scoperto
un malessere che covava da tempo, un tumore che si annidava da anni: una
enciclica come la Pacem in terris[15] o teologi del calibro di Karl Rahner, Edward
Schillebeeckx, Yves Congar, Hans Küng e Walter Kasper non spuntano dal nulla…
Il lavoro di infiltrazione era iniziato almeno tre decenni prima, come
confermano i “Millenari”, un anonimo gruppo di prelati del Vaticano autore di
un pamphlet dal titolo Via col vento in Vaticano, da cui riportiamo
un lungo, ma molto interessante estratto:
Lenin era della convinzione che un segretario del
partito comunista dentro uno Stato cattolico, per essere all’altezza del suo
compito avrebbe dovuto vestirsi all’occorrenza anche del saio francescano.
Nel 1935 i servizi segreti segnalarono che all’epoca
all’incirca mille studenti comunisti risultavano infiltrati nei seminari e nei
noviziati dell’Europa occidentale, dove in perfetta finzione di vita religiosa
s’apprestavano a diventare sacerdoti; il partito poi avrebbe pensato a
sguinzagliarli nei gangli e nei posti più vitali della Chiesa. Il fenomeno andò
man mano allargandosi fino alle gravi contestazioni nei seminali e nei
noviziati e di tantissimi preti operai e no, durante gli anni Sessanta-Settanta.
Sotto lo pseudonimo di Caesar, Antonio Gramsci
negli anni Venti scrisse su «L’Ordine Nuovo» tale profetica affermazione: «La
rossa tunica del Cristo fiammeggia oggi più smagliante, più rossa, più
bolscevica. Vi è un lembo di tunica di Cristo nelle innumerevoli bandiere rosse
dei comunisti che in tutto il mondo marciano all’assalto della fortezza
borghese, per restaurare il regno dello spirito sulla materia, per assicurare
la pace in terra a tutti gli uomini di buona volontà».
Henry de Lubac diceva: «Quando il sacro è
dappertutto, non è più sacro in nessun luogo». Sembra un paradosso, ma risponde
spesso a verità. Succede che il vivere di un’anima consacrata, disseminata di
sacro, nella dissipazione della vita finisce col non trovare spazio per il
sacro, né dentro di sé, né nel suo divenire, ma soltanto nella carriera.
Effetti devastanti.
Il vescovo slovacco[16] monsignor
Pavol Hnilica [1921-2006] negli anni Settanta fu espulso dall’Urss, dove era
detenuto, con la promessa della controparte vaticana che s’impegnava a
persuaderlo di trasferirsi in Usa. Ma il prelato, una volta liberato, preferì
impostare il suo ministero pastorale a favore dei fedeli di oltrecortina, prendendo
residenza in Roma. Di tanto in tanto veniva chiamato da qualcuno della
segreteria di Stato e invitato a trasferirsi negli Stati Uniti per svolgere
meglio il suo intrapreso apostolato. Il prelato prometteva, ma sempre in
differita.
Trovandosi sull’aereo di ritorno da quei Paesi d’oltrecortina,
monsignor Hnilica approfitta di chiedere alla hostess la Pravda del giorno, per informarsi sugli avvenimenti nei Paesi
comunisti.
Con sorpresa, legge in un trafiletto ben in vista
la notizia che lui, monsignor Hnilica, aveva chiesto e ottenuto di essere
trasferito negli Usa per svolgere al meglio il suo ministero pastorale. Il
prelato, non ignaro dei metodi colà in uso, piega il giornale e a ogni buon
conto se lo conserva in borsa.
Tre giorni dopo viene chiamato in segreteria di
Stato, questa volta ricevuto da uno di quelli a più alto livello, il quale con
stile perentorio gli riferiva senza mezzi termini che era stato deciso il suo
trasferimento definitivo negli Stati Uniti; gli davano solo pochi giorni di
tempo per i necessari preparativi.
Monsignor Hnilica si era portato con sé la Pravda che lo chiamava in causa; con
calma trovò la pagina dov’era scritto il trafiletto, la mise sotto gli occhi
dell’importante prelato traducendogliela e poi, sincero e leale in modo
impressionante, chiese: «Monsignore, a che gioco giochiamo?».
La conclusione fu che non se ne fece niente e
monsignor Hnilica è potuto restare a Roma fino ai nostri giorni. Di certo non
la spuntarono, ma lui non se ne uscì indenne. Poco tempo dopo, restò coinvolto
in un’accusa di traffico monetario. Ripicca? Chissà! E vento di libeccio anche
quello.
Nel 1956 don Pasquale Uva, fondatore a Bisceglie
della Casa della Divina Provvidenza, presentò con qualche ritardo alla direzione
del seminario regionale pugliese un giovane della Basilicata, aspirante
religioso presso la sua incipiente Fraternità, e del quale si rendeva garante. Sanomonte,
il suo nome, era un seminarista intelligente ed esemplare in tutto: alquanto
chiuso, statura media e robusta, d’aspetto simpatico. Nella nota caratteristica
del prefetto di camerata si leggeva: alquanto circospetto e poco loquace, ma
gentile con tutti.
Frattanto, l’anno scolastico volgeva al termine. Pomeriggio
di una giornata afosa, i componenti la sua camerata, una trentina, si
dirigevano in fila a passeggio verso il porto. Sanomonte, in genere, preferiva
rimanere ultimo della fila: così quella volta.
A un tratto si china a tirar su le calze, tenendo d’occhio
il gruppo che voltava l’angolo. Guarda con certa stizza la saracinesca chiusa
della sezione del partito comunista. Un uomo obeso con le mani dietro la
schiena s’appoggiava all’anta laterale, come se ne aspettasse l’apertura. Un
attimo d’insicurezza e, pensando alla camerata che si allontanava, si fece
coraggio e abbordò lo sconosciuto, dicendogli: «Compagno, dia questa busta
chiusa al compagno segretario… Mi raccomando: chiusa!».
Ma aveva scambiato cavallo; manco a dirlo, il
panciuto era noto a tutta la città come il più sfegatato democristiano; si
chiamava Peruzzi. Da sornione qual era, Peruzzi aveva seguito l’imbarazzo e le
mosse del seminarista in ogni suo particolare.
Ora, con la busta chiusa in suo possesso, egli si
domandava: che fare? Stette tre giorni a chiederselo: darla o non darla al
segretario comunista? È un suo parente, o no? E se no, strapparla? Lasciarla
chiusa, o leggerne il contenuto? Recarsi dal rettore del seminario? E che
dirgli? Un bel rebus, che si risolse alla fine con la punta di un tagliacarte
infilato all’angolo della busta che s’apriva. Era scritto: «Caro compagno
segretario, mi trovo distaccato dal mio paese a studiare in questo seminario
regionale. Ho urgente bisogno di vederti per definire con te il piano da
seguire nel prossimo futuro. Mi raccomando di qualificarti come mio zio. Le
visite dei parenti sono consentite ogni giovedì dalle 16 in poi nell’attiguo
parlatorio a pianoterra. Saluti Andrea Sanomonte».
Non sembrava vero a Peruzzi, che nei pettegolezzi
ci guazzava, d’esser ricevuto in tutta segretezza dal rettore. Gesticolò tutto
l’accaduto con le mani e col faccione esilarante e alla fine consegnò la
lettera in busta aperta. La sera, d’intesa col vicerettore e il prefetto di
camerata, furono perquisiti accuratamente la scrivania e gli effetti personali
di Sanomonte.
Ai tre parve di non aver trovato materiale di
rilievo: qualche appunto sospetto, qualche scritto d’orientamento comunista, l’agendina
tascabile, con certi ghirigori indecifrabili di vago interesse, tuttavia
prelevata e acquisita.
Era la prima volta che succedeva un caso del genere
e c’era divergenza di pareri in direzione. Si chiese consiglio alla Polizia, la
quale per ispezionare con calma il plico lo portò in questura. D’accordo col
venerando don Uva, si invitò il Sanomonte a tornare a casa fino a nuovi ordini.
Quando tutto sembrava finito, dal dicastero addetto ai seminari in curia romana
arriva un severo cicchetto al rettore per non aver informato subito dell’accaduto
l’organo vaticano.
Ecco cos’era successo: alcune di quelle cifre trascritte
nell’agendina di Sanomonte contenevano codici segreti sul carico e la
destinazione di una nave bellica italiana in aperto oceano pacifico, noti
soltanto agli addetti al controllo di tutte le navi italiane, in navigazione
per i mari del globo. Detto ufficio militare si trovava nella galleria sottostante
la caserma Santa Rosa nei pressi della Storta, frazione di Roma, importantissimo
sito secreto che si ramificava a raggiera lungo 18 chilometri sotterranei. Sull’accaduto
si fece scendere la coltre del più rigoroso silenzio. Nessun altro ne fece più
cenno.
Ma quanti di
quei finti seminaristi, segnalati fin dalla metà degli anni Trenta, riuscirono
a farla franca e ad arrivare al sacerdozio? E quanti di essi furono vescovi e
cardinali? Tutti ricordavano all’epoca l’uscita del cardinale Alfredo
Ottaviani, legato al mondo dell’intransigenza dentro e fuori della Chiesa, che
in un suo articolo postconciliare apostrofava certi ecclesiastici col nomignolo
di “comunistelli di sagrestia”.
Invece, la corrente comunistoide della curia romana
adottò l’ostpolitik verso il blocco comunista e i suoi governanti. Sotto
codesto vento di bufera, fra tanti martiri della fede cadde abbattuta due volte
la quercia, il testimone, il primate d’Ungheria, il cardinale Josiph Mindszenty
[1892-1975], condannato prima dai comunisti alla pena di morte tramutata in
ergastolo per alto tradimento all’ideologia ateistica, e poi dagli
ostpolitikanti vaticani, che lo estromisero da primate d’Ungheria in virtù dei
compromessi storici coi magiari atei. A tutt’oggi per lui nessun processo di
beatificazione è in corso.
A tal riguardo il segretario di Stato, Agostino
Casaroli [1914-1998], deceduto appena il 9 giugno 1998, fattosi intervistare in
Tv, si vantava d’aver portato avanti i contatti coi governi comunisti tramite l’ostpolitik, con cui avrebbe ottenuto
smaglianti risultati sul disgelo politico. Ma la stampa all’indomani commentava
interrogandosi: se gli uomini di Chiesa, come lui e Montini, non avessero
blandito a lungo l’amoroso intrallazzo con quei governi d’oltrecortina, il
crollo del Muro di Berlino di quanti anni prima si sarebbe anticipato? Un
futuribile del passato, a cui non ci sarà mai una risposta in avvenire.
Mentre colà Cristo agonizzava con la sua Chiesa nei
manicomi politici e nelle carceri a vita dei credenti condannati ai lavori
forzati, l’ateismo entrava trionfante in Vaticano a proclamare che Dio era
finalmente morto o quantomeno reso inoffensivo. A quei vescovi e sacerdoti dei
manicomi-lager e dei lavori forzati si mostravano apposta foto e cortometraggi
sugli incontri tra alti prelati e governanti comunisti, perché loro
constatassero de visu d’esser rimasti
soli a intestardirsi e a non firmare quell’insignificante foglio di carta d’abiura
alla Chiesa cattolica, per allinearsi così a quella di regime al fine di uscire
in libertà.
Stalin, che degli eserciti più armati del mondo
temeva principalmente quello dei fedeli al comando del Papa, accortosi che la
persecuzione bolscevica contro la Chiesa aveva dato risultati fin allora scarsi,
decise di cambiare tattica: bisognava corromperla e lacerarla dal di dentro, per
ottenere effetti ben più devastanti.
I frutti furono talmente abbondanti che le altre
organizzazioni, le quali tuttora propugnano e diffondono l’ateismo sociale in
tutto il mondo, hanno fatto propria la strategia stalinista.[17]
È realistico pensare che un uomo sacrifichi tutta la propria
esistenza per recitare una parte che, presumibilmente, odia profondamente? È
possibile che un giovane rivoluzionario accetti di infiltrarsi non per qualche
mese, ma per decenni, se non per la vita intera, in una struttura in cui sarà
costretto a rigidi orari, onerose privazioni, rinunciando non solo – ovviamente
– al sesso (e in un’epoca in cui la Legione di Cristo non era stata ancora
costituita!), ma anche a svaghi più comuni, come una partita di rugby e una birra
con gli amici o una serata al cinematografo, una gita in comitiva o seguire la
propria squadra del cuore allo stadio? Allora – prima del Vaticano II – non c’era
la “libertà” di cui gode adesso un giovane sacerdote e tali svaghi non erano
minimamente concepiti. Le suore da discoteca ed i preti da stadio (o i preti da
discoteca e le suore da stadio) non erano prevedibili. Ad un giovane che
sognava la rivoluzione, le barricate, le retate di nemici, la fucilazione dei
preti, l’impiccagione «dell’ultimo papa con le budella dell’ultimo re»[18]
l’ordine di andarsi a chiudere in un seminario per minare la Chiesa dall’interno
anziché, più semplicemente, dare fuoco a una chiesa dall’esterno, di dover consumare
i migliori anni della propria vita a studiare teologia anziché i testi di Marx,
di dover servire messa anziché distribuire volantini poteva pesare come una condanna
alla “morte civile”; per accettare l’idea di un simile passo, fondamentale nell’esistenza
di un uomo, ci si deve calare nella mentalità del fanatico bolscevico, dell’apostolo
della rivoluzione, che è disposto a qualsiasi sacrificio per il trionfo dell’idea
(anzi, dell’Idea) o per il bene del partito (pardon, del Partito).
È presumibile che un tale idealista avrebbe preferito una
morte eroica affrontando impavido la mitraglia nemica, attraversare le linee avversarie
per portare ordini o per far brillare cariche di dinamite, anziché consumare i
propri giorni tra tomi di Scolastica e facendo oscillare turiboli, respirando
il profumo dell’incenso e non l’odore della polvere da sparo; ma come il
sacrificio della vita è richiesto all’eroico portaordini in tempo di guerra,
così un altro tipo di sacrificio è richiesto a che deve non attraversare momentaneamente
le linee nemiche, bensì infiltrarsi per un’intera vita, divenire il cancro che
corrode dall’interno, non la ferita che colpisce dall’esterno.
È chiaro che un simile lavoro d’infiltrazione è meno
esaltante della lotta aperta e può non portare ad alcun riconoscimento; ma tale
distacco dalla gloria è appunto ciò che si richiede a un fanatico, disposto a
tutto per un ideale, anche al proprio completo annichilimento. Del resto, sono
interessanti alcuni studi psicologici che si ricavano da due romanzi: Buio a mezzogiorno (Darkness at Noon, 1941) di Arthur Koestler (1905-1983) e Il montaggio (Le retournement, 1979) di Vladimir Volkoff (1932-2005). In essi
troviamo la storia di due agenti che sono disposti ad annullarsi per un bene superiore:
la credibilità del Partito, nel primo caso; la promessa di ritornare in patria
fatta al figlio di un ufficiale “bianco” emigrato a Parigi, nel secondo.
Ambedue gli agenti, sia pure per motivi diversi, accettano di vivere un’intera
esistenza (e, nel caso del romanzo di Koestler, anche di affrontare una morte
ignominiosa) nel segno delle direttive di Mosca.
Particolarmente interessante uno dei passaggi finali di Buio a mezzogiorno (titolo che indica l’imposizione
di una verità assurda, come pure la cappa di tenebre materiali e morali che
gravava su tutto il mondo comunista), in cui al funzionario Rubasciov viene
spiegato il perché della sua condanna, nonostante egli sia palesemente
innocente. Per di più, gli viene chiesto di confessare la propria inesistente
colpa, perché è più semplice spiegare al popolo gli errori del Partito con un
preteso boicottaggio che far perdere ad esso la fiducia nel Capo (che non viene
mai chiamato Stalin, ma definito sempre «il N. 1»).
«La linea del Partito è stata nettamente stabilita,
la sua tattica determinata dal principio che il fine giustifica i mezzi, tutti
i mezzi, senza eccezione. Nello spirito di questo principio, il Pubblico
Ministero chiederà la vostra vita, cittadino Rubasciov. […] Sapete dello
scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso
dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare di qui a qualche
mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D’onde la necessità imperiosa
per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto
cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov,
avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero,
dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l’ultimo servizio
che il Partito vi chiede. Il vostro compito è semplice. Lo avete formulato voi
stesso: indorare ciò che è giusto, annerire ciò che è errore. La politica dell’opposizione
è l’errore. È vostro compito, quindi, rendere l’opposizione spregevole; far
capire alle masse che l’opposizione è un delitto e che i capi dell’opposizione
sono dei criminali! Questo è il semplice linguaggio che le masse comprendono.
Se cominciate a parlare dei vostri complicati motivi, creerete solo confusione
tra di esse. Il vostro compito, cittadino Rubasciov, è di evitar di ridestare
la simpatia e la pietà. La simpatia e la pietà per l’opposizione sono un
pericolo per il Paese. […]
«Notate bene», riprese Gletkin, «che il Partito non
vi offre alcuna prospettiva di compenso. Alcuni accusati sono stati resi
ragionevoli da pressioni fisiche; altri dalla promessa d’avere salva la vita, o
la vita dei loro parenti che erano caduti come ostaggi nelle nostre mani. A
voi, compagno Rubasciov, non facciamo alcuna proposta e non promettiamo nulla.»
[…] «C’è un brano nel vostro giornale che mi ha colpito. Avete scritto: “Ho
pensato e agito come dovevo. Se ho avuto ragione, non ho nulla di cui pentirmi;
se ho sbagliato, pagherò”».
Alzò gli occhi dall’incartamento e li fissò su
Rubasciov. […] Parlando, aveva spinto la deposizione già bell’e preparata verso
Rubasciov, con la stilografica accanto. […] Rubasciov firmò la dichiarazione,
in cui confessava d’avere commesso i suoi delitti per motivi
controrivoluzionari e al servizio di una potenza straniera.
Del resto lo stesso protagonista, Rubasciov, aveva scritto
sul proprio diario: «La storia ci ha insegnato che spesso la menzogna la serve
meglio della verità»[19].
Parimenti votata a una vita di inganni è l’esistenza di
Psar, protagonista de Il montaggio,
che – nonostante sia presumibilmente antibolscevico, essendo figlio di un
ufficiale bianco emigrato – pur di tornare nell’amata Russia accetta di entrare
nel kgb e di rimanere in Francia
come “agente d’influenza”: diventerà un grande agente letterario e metterà sul
mercato libri utili. Non apologie del marxismo-leninismo, ma opere che possano
incentivare il declino della società, disgregarla dall’interno per renderla una
facile preda dell’Urss e del comunismo. Dunque, dagli anni Cinquanta Psar
riesce a mandare in libreria autori d’avanguardia che demoliscono la sintassi e
l’ortografia: a Mosca sono convinti che la lingua forgi il popolo e di
conseguenza votarla al caos sarà fruttuoso.
Ma il vero successo di vendite saranno i “libri bianchi”,
snelli pamphlet incisivi sui settori
strategici: quello sulla donna ha contribuito ad aumentare gli aborti,
denatalizzando la nazione; quello sull’istruzione ha ispirato il ‘68; quello
sulla Chiesa ha fatto pressione per l’appiattimento del cattolicesimo sul piano
sociale; quello sulle dittature – che prevede lo stesso numero di pagine per descrivere
l’arcipelago Gulag sovietico con i suoi settant’anni di crimini e la risibile
esperienza dei colonnelli greci – tiene desta l’attenzione sull’inesistente (ma
fondamentale per la propaganda) “pericolo fascista”. Opere che sembrano scritte
da un anticomunista e che vengono presentate come tali al fine di trarre in
inganno i lettori.
Se ci può essere – e c’è ben stata… – un’infiltrazione nel
mondo della cultura; se ci può parimenti essere – e si è anch’essa verificata,
eccome! – un’infiltrazione nel mondo della giustizia; e come i giornali, le case
editrici e i tribunali (nonché le forze armate e di polizia) sono state infiltrate
da elementi comunisti, prima agenti nascosti, poi sempre più sicuri di sé; parimenti
elementi marxisti sono penetrati nella Chiesa: dapprima nei seminari, quindi
nelle Conferenze Episcopali, infine nel Vaticano.
All’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II fu infatti
diffuso tra i padri conciliari un lungo documento che voleva mettere in guardia
dalle aperture al comunismo e da chi vi era alle spalle. In un passaggio
leggiamo:
Un ecclesiastico che stia facilitando il trionfo del
comunismo nel suo Paese, con pericolo mortale per gli altri ecclesiastici, e di
grave danno per la Santa Chiesa, dev’essere immediatamente accusato presso la
Santa Sede, non da uno, ma da più parti, attraverso diversi canali, in quanto
qualcuno di questi potrebbe rivelarsi insufficiente, onde egli sia privato dei
mezzi atti a continuare ad infliggere danni e causare mali. […] Se tutto questo
fosse stato fatto in tempo la catastrofe di Cuba sarebbe stata impedita, per
esempio. E la Chiesa, il clero e tutto il popolo cubano non sarebbero
sprofondati in quel baratro in cui gemono attualmente. È triste e doloroso
ammetterlo ma è così : l’attività perniciosa e traditrice di molti
ecclesiastici in favore di Fidel Castro ha costituito uno dei fattori decisivi
del suo trionfo, quello che ha consentito al dittatore marxista di trascinare
dietro di sé la maggioranza del clero cubano, il quale a sua volta, in assoluta
buona fede, senza rendersi conto dell’inganno, ha spinto un popolo intero al
suicidio. Un popolo che aveva riposto tutta intera la sua Fede nei suoi Pastori
d’Anime!
Segnaliamo questo recentissimo episodio con assoluta
franchezza, soprattutto perché tutti si rendono conto della gravità del
pericolo, visto che gli ecclesiastici della «quinta colonna» cercano anche di
gettare in braccio al comunismo Stati di antica tradizione cattolica come la
Spagna, il Portogallo, il Paraguay, il Guatemala e altri. E ciò fanno col
tradizionale metodo, esperimentato e collaudato, che consiste nell’usare l’arte
dell’inganno più sottile e nel nascondere la loro tremenda attività sotto le
ipocrite apparenze di quel falso zelo, che, se anche appare ottimo alla Santa
Chiesa, è invece diretto a tentare di abbatterla.[20]
L’ammirazione – o almeno la mancata immediata (e naturale)
repulsione – per il marxismo ha portato, nel 1959, alla presa del potere da
parte di Fidel Castro, anche grazie all’appoggio indiretto della Chiesa locale.
Il Concilio, con la sua smania di aperture, evitò la condanna esplicita del comunismo,
anche grazie all’accordo di Metz[21].
Evitata la condanna esplicita, il Cremlino cantò vittoria: i
giornali comunisti accennarono all’accordo, considerandolo un palese
riconoscimento della evidente superiorità del sistema socialista mondiale. Le
successive ambigue prese di posizione della Chiesa (in particolare durante il
pontificato di Paolo VI, definito da Jean Madiran «il Papa dell’accordo di
Metz»[22])
nei confronti dei regimi socialisti, i cavillosi distinguo tra filosofia
marxista e prassi sovietica permetteranno la confusione e, di conseguenza, la
nascita della teologia della liberazione, che cercherà addirittura di coniugare
il Vangelo con il Capitale.
Che Gesù fosse inconciliabile con Marx era evidente a chi
viveva nel “paradiso” sovietico, ma la mancata nuova condanna dell’ideologia (la
prima, del 1846, precedette addirittura il Sillabo)
mandò in confusione i credenti del mondo occidentale. Eppure lo stesso Lenin
aveva dichiarato che educare le masse cristiane alla lotta di classe le avrebbe
portate al socialismo ed all’ateismo «cento volte meglio di un sermone ateo tout-court»[23].
Ecco perché il sistema comunista ha sempre cercato di infiltrare i seminari (la
stessa carriera ecclesiastica di monsignor Nicodemo – decano prima di terminare
gli studi e vescovo a soli trentun anni – risulta fin troppo celere per non far
pensare ad una compiacenza da parte delle autorità sovietiche), al fine,
ripetiamo, di indebolire dall’interno il suo nemico principale. L’accordo di
Metz trasformò quindi il Concilio Vaticano II in un’occasione mancata per essere
vicino a chi soffriva nel blocco comunista. Anzi, a leggere le dichiarazioni
conciliari e post-conciliari, sembrava che l’unico difetto del marxismo fosse
l’ateismo e per il resto ci fosse piena conciliabilità, se non comunanza di
intenti; per anni si criticò il sistema sovietico utilizzando il termine
astratto “marxismo”, ma non quello relativo alla sua applicazione concreta,
“comunismo”. Si giunse perfino ad inserire la data della morte di Marx (14
marzo 1883) nel Messale redatto dalla
Conferenza episcopale francese (lo si trova a p. 139 dell’edizione del 1983),
ricordando l’evento con termini super
partes degni di un qualunque distaccato dizionario scientifico.
La famiglia, peso o baluardo?
Perché l’infiltrazione dei seminari è avvenuta da parte di
membri o simpatizzanti del partito comunista e non da elementi di Destra? Perché
è mancata una risposta di Destra alla politica egemonica marxista? Perché –
allargando il discorso – alle case editrici di Sinistra non si sono contrapposti
editori, saggisti, narratori, giornalisti di Destra? In realtà il tentativo c’è
stato, ma è mancato – prima ancora che un corposo finanziamento come quello
proveniente dal cosiddetto “oro di Mosca” – un coordinamento delle varie forze
in campo.
In una sola frase, si può sintetizzare il motivo della
schiacciante vittoria della Sinistra nel campo culturale affermando che ciò che
è mancato alla Destra è una figura come Gramsci, un pensatore che comprendesse
il fondamentale ruolo della cultura e che questo ruolo venisse riconosciuto
come primario dal Partito (a prescindere dalla vicenda umana e dal rapporto
personale di Gramsci con il capo di quest’ultimo, Togliatti[24]).
Attenzione: ciò non significa che la Destra non abbia avuto
pensatori di rilievo. Tutt’altro: non ne trascrivo l’elenco – che sarebbe
lunghissimo[25] –
perché in fondo, da Omero fino alla metà del Novecento, i più grandi scrittori,
filosofi e poeti sono stati, sostanzialmente, di Destra, cioè religiosi, monarchici,
meritocratici, aristocratici e antidemocratici (basti pensare a come Omero,
nell’Iliade, sintetizzi lo spirito
democratico in Tersite…). Ciò che è assolutamente mancato è un grande uomo di
cultura che sia stato considerato e valorizzato come tale: «Quando sento
parlare di cultura la mano corre alla fondina»[26]
dice più o meno una celebre frase di un pressoché sconosciuto autore, attribuita
con molta leggerezza a vari uomini politici di Destra, da Göring a Goebbels, da
Codreanu a Primo de Rivera.
La cultura è stata sempre considerata come lo svago dell’ozioso
(nel senso etimologico, da otium): solo
chi ha una posizione economica stabile se la può permettere. Impensabile,
dunque, fare del giornalismo politico o della letteratura una professione. La
conseguenza è che – con qualche eccezione numericamente di scarsa rilevanza –
per affiancare vocazione alla cultura e necessità di mantenimento è sempre
stato necessario o approdare a un giornale, una rivista, una casa editrice di Sinistra
o trovarsi un lavoro e quindi, nel tempo libero, dedicarsi alla scrittura in
maniera non professionistica, ma da semplice amatore. Lo sbocco è quindi la
dispersione del fiume della cultura di Destra in mille rivoli insignificanti.
Come manca una capacità di incanalare le potenzialità culturali della Destra, così manca la capacità
di indirizzare le sue potenzialità politiche.
Sarebbe impensabile, quindi, imporre ad una schiera di ragazzi di scegliere la
«via del chiostro» per un progetto a lunga scadenza, per fermare la rivoluzione
nella Chiesa dall’interno della Chiesa. Ci saranno, sicuramente, giovani con la
vocazione (i quali, negli ultimi tempi, troveranno seminari modernisti con
insegnanti modernisti e, una volta presi i voti, officeranno riti modernisti
sotto lo sguardo vigile e severo di vescovi modernisti), ma saranno un’esigua
minoranza. Perché non pensare, allora, ad un ingresso[27]
di tradizionalisti nei seminari per contrastare la rivoluzione nella Chiesa?
Oltra alla mancanza di una organizzazione che spinga al
seminario i giovani militanti, cozza con l’idea di un sacrificio (che tale però
non dovrebbe essere) il profondo legame dell’Uomo di Destra nei confronti del valore
della famiglia, nucleo fondamentale della società: in generale è difficile che l’Uomo
di Destra vi rinunzi, anche per una carriera prestigiosa; cercherà piuttosto di
far convivere vita pubblica e vita privata, lavoro e famiglia, magari
sacrificando questa a quella, ma non abbandonandola del tutto, tranne che in
casi numericamente limitati.
Lo stesso Evola, il pensatore che più di tutti si può
avvicinare a Gramsci nel mondo della Destra[28]
si rendeva conto di ciò e perciò indicava una via fatta di «largo margine di
libertà sessuale» pur di evitare da parte dell’«uomo libero» il tradimento del “metter su famiglia”:
Per ciò che in vista di un movimento rivoluzionario-conservatore
e di resistenza può importare, vi è bisogno anzitutto di uomini pei quali l’essere
liberi da quei complessi sentimentali borghesi dovrebbe essere cosa ovvia e che
avendo da seguire una linea di impegno militante assoluto ed essere pronti a
tutto, dovrebbero sentire quasi come un tradimento il “mettere su famiglia”:
costoro è bene che siano sine impedimenta, che nulla li vincoli, che
nulla limiti la loro possibilità di disporre assolutamente di sé. Peraltro, vi
furono antichi Ordini nei quali il celibato era la regola. Pel resto, va
riconosciuto quel che di giusto è contenuto nella nota massima nietzschiana: «L’uomo
deve essere educato per la guerra, la donna pel riposo (o ristoro = Erholung)
del guerriero; il resto è sciocchezza». In ogni caso, l’ideale della “società
di uomini” non può essere evidentemente quello parrocchiano e piccolo-borghese
di “casa e bambini”, anzi riteniamo che nella sfera personale il diritto ad un
largo margine di libertà sessuale, per gli uomini in discorso, può venire senz’altro
riconosciuto, di contro a moralismo, conformismo sociale e eroismo in
pantofole.[29]
La rivoluzione auspicata da Evola è fallita anche per
mancanza di un “esercito” di uomini liberi da legami familiari (sarebbero
dovuto esserlo anche da legami lavorativi[30],
ma forse il barone riteneva aristocraticamente che tali vincoli non fossero
sufficientemente forti da impedire di scegliere “la via del bosco”, laddove
necessario): la “sirena” dell’amore e della famiglia ha quasi sempre sopraffatto
la “chimera” della lotta politica e della gloria (il riferimento a tale
dualismo viene da un tuttora validissimo romanzo politico di fine Ottocento[31]).
In ogni caso, all’attacco marxista ai seminari, all’infiltrazione
degli agenti comunisti nell’interno della Chiesa non è corrisposta una “resistenza”
o una “controrivoluzione” ecclesiastica, sia per mancanza di elementi
sufficienti, sia per aver sottovalutato il pericolo (è difficile pensare che lo
abbiano ignorato), probabilmente perché ritenevano impossibile che qualcuno
potesse condurre una finzione per decenni senza tradirsi. La crisi vocazionale
post-conciliare, poi, ha acuito il problema: con i seminari sempre più vuoti,
ogni vocazione (o supposta tale) è stata incoraggiata. Il problema più palese è
stata la legione di preti omosessuali e pedofili che sono stati sfornati;
quello più nascosto – ma non per questo assente – è stata l’infiltrazione della
mentalità marxista nella Chiesa.
Il ruolo dei Gesuiti
Strumento privilegiato per questo progetto di infiltrazione
è stato svolto dalla Compagnia di Gesù: se in passato i Gesuiti sono stati i
nemici per eccellenza della massoneria (che ne ottenne addirittura lo
scioglimento dalla Santa Sede[32])
adesso sono diventati il suo strumento elettivo «al preciso scopo di giungere a
una “normalizzazione” dei rapporti con la massoneria»[33].
Con l’arrivo di un gesuita al soglio pontificale, è lecito chiedersi: «che uso
farà, del suo immenso potere, l’ordine religioso di gran lunga più potente, più
ricco, più colto, più duttile, più avventuroso, più scaltro in fatto di
esperienza politica e diplomatica, più fornito di entrature e collegamenti con
il mondo profano, con le altre religioni e con la stessa massoneria, oltre che
con la grande finanza internazionale?»[34].
In realtà, da tempo l’ordine gesuita è solo esteriormente la
stessa cosa di quello dei secoli passati[35]:
già verso la metà del XX secolo alcuni membri dell’ordine, come Teilhard de
Chardin[36],
hanno suscitato polemiche e controversie con le loro audaci prese di posizione
teologiche; altri, come Karl Rahner[37],
hanno sostenuto apertamente la necessità di una radicale riforma della Chiesa e
hanno spinto energicamente in tale direzione, fin dentro le aule del Concilio
Vaticano II.
Lo stesso Concilio è stato giudicato, da più di un
osservatore, come il tentativo di attuazione della riforma globale auspicata da
Rahner e da altri[38];
tendenza poi sviluppata e ulteriormente approfondita sotto lo stimolo della
teologia della liberazione, anch’essa nata – guarda caso – nell’ambiente dei
gesuiti latino-americani[39].
Al Concilio ha fatto seguito lo “spirito del Concilio”, cioè
l’interpretazione in senso esteso dei – volutamente – ambigui documenti
conciliari. Ecco perché da un Novus ordo
(la messa moderna) che doveva affiancarsi alla liturgia tradizionale si è avuto
un sostanziale divieto di quest’ultima[40].
Francesco Lamendola, nello studio citato, enumera i
principali punti del “nuovo corso” dei moderni gesuiti, sottolineando come esso
non sia mai stato apertamente presentato come una rottura con la tradizione, pur
essendolo di fatto:
1.
la “svolta antropologica” di Karl Rahner, che
pone l’Uomo, e non più Dio, al centro dell’orizzonte spirituale;
2.
la priorità alla “dignità dell’uomo” rispetto
alla Verità;
3.
relativizzazione del concetto di verità (si
ricordi ciò che disse in proposito Bergoglio a Eugenio Scalfari nella ben nota
intervista rilasciata a La Repubblica,
poco dopo la sua elezione);
4.
l’obbedienza al papa non è più assoluta e
incondizionata, ma dipende dal fatto che il papa sostenga, oppure no, tale
processo di riforma;
5.
il papa non deve essere più considerato come il
capo della Chiesa, ma come il vescovo di Roma e, al massimo, come un primus inter pares fra i vescovi di
tutto il mondo, perché la Chiesa si deve trasformare in una specie di grande
assemblea democratica permanente, sul modello “conciliarista” del Vaticano II;
6.
la Chiesa deve lasciar cadere anche le ultime
riserve nei confronti delle altre “verità”, comprese quelle irreligiose, e
deporre ogni pretesa di superiorità derivante dal possesso di una verità
oggettiva: «si ricordi quel “buonasera” pronunciato da Bergoglio, al popolo dei
fedeli di Roma, la sera della sua proclamazione, dal balcone del Palazzo
vaticano, quasi che non volesse offendere gli atei con un bel: Sia lodato Gesù Cristo»[41];
7.
la Chiesa si deve schierare politicamente al
fianco dei “poveri”, quindi anche dei “migranti”, apertamente e
incessantemente, persuadendo tutti al “dovere” della solidarietà e dell’accoglienza:
«quest’ultimo elemento proviene dalla teologia della liberazione e, dunque, è
un regalino che il cattolicesimo sudamericano fa alla vecchia e stanca Europa,
in apparenza per rinvigorirla, aprendola alle “delizie” del multiculturalismo,
in realtà sposando la causa delle lobby
finanziarie che perseguono la distruzione della identità europea per spianare
la strada alla globalizzazione dei mercati e, quindi, delle culture e dei localismi.
Ed ecco saldato il cerchio, e spiegata l’apparente incongruenza, fra un ordine
gesuita vicino alla massoneria e, mediante lo ior,
alle centrali finanziarie mondiali, e l’opzione preferenziale per i poveri, per
gli ultimi, per i diseredati; le due cose non configgono affatto, anzi, si
completano e si integrano a meraviglia: l’una è la faccia nascosta (e inconfessabile),
ma necessaria, dell’altra»[42].
Un momento di svolta nella storia dell’ordine di Sant’Ignazio
avviene con l’elezione di padre Pedro Arrupe a “papa nero”:
[nel 1965] Pedro de Arrupe y Gondra fu eletto
ventisettesimo padre generale dei gesuiti. Sotto la guida di Arrupe e nelle
aspettative di un cambiamento autorizzato dal Concilio, la visione di natura
antipapale e socio-politica che era maturata di nascosto per più di un secolo
fu accolta dalla Compagnia in quanto organizzazione. Il repentino cambiamento non fu casuale, ma un atto deliberato, al
quale Arrupe, come padre generale, fornì una guida ispirata ed entusiasta.
Ma ci vuole
del tempo prima che il modo di considerare una grande istituzione religiosa
cambi. La reputazione che la Compagnia si era guadagnata nei secoli era il
migliore paravento dietro il quale costruire una Compagnia molto diversa, come
quella che si è venuta a creare negli ultimi vent’anni. In effetti la storia,
la storia gloriosa della Compagnia fece sì che i fatti attuali risultassero
invisibili e che i nuovi capi potessero presentare il nuovo atteggiamento verso
il mondo come l’estrema e migliore espressione della spiritualità e della lealtà
ignaziane.
Per la grande
massa dei cattolici, sia laici che ecclesiastici, era impensabile che proprio i
gesuiti potessero diffondere una nuova idea della Chiesa; o che muovessero
guerra non a un solo Papa, ma addirittura a tre, denigrandoli, ingannandoli,
disubbidendo loro, aspettando la morte di ciascuno con la speranza che il
prossimo avrebbe lasciato loro mano libera.
Inevitabilmente, la guerra dei gesuiti contro il
papato è venuta alla luce durante il pontificato di Karol Wojtyla. Quest’uomo
carismatico e ostinato giunse al soglio pontificio con l’esperienza diretta del marxismo in Polonia. […] Dal momento dell’elezione, fu chiaro che
Giovanni Paolo II avrebbe incontrato l’opposizione di molti membri della
burocrazia vaticana che aveva ereditato. Ciò che fu meno chiaro, anche per
i consumati osservatori vaticani, era che anche i gesuiti avrebbero sfidato la
sua autorità in materia politica.
Niente di ciò che Giovanni Paolo II ha tentato dal
momento in cui è arrivato alla cattedra di S. Pietro nel 1978 è servito a
dissipare o almeno ad attenuare l’opposizione gesuita.[43]
La teologia della liberazione è stata formalmente condannata
sotto Giovanni Paolo II[44]
e sotto Benedetto XVI[45],
ma sembra che con e grazie a Bergoglio, torni in auge, assieme ai fautori del modernismo,
della Chiesa che si adatta ai tempi e degli ammiratori del protestantesimo: si
pensi all’elogio di Lutero fatto dal cardinale Carlo Maria Martini, punto di
riferimento ideologico di Bergoglio, e dalla incombente “beatificazione” dell’agostiniano
spretato che si profila per l’ottobre 2017.
Dopo la condanna ricevuta dalla Santa Sede e la smentita
ricevuta dalla storia, questo movimento perse prestigio e influenza. Ma la fine
dell’anticomunismo e la crisi economica mondiale gli hanno offerto una
occasione di riproporsi come alternativa globale. Oggi la teologia della
liberazione, senza rinnegare le idee originarie, fa una parziale autocritica e
si ripropone all’opinione pubblica cambiando paradigma, metodo e linguaggio,
ossia riciclandosi in chiave ambientalista, psicoanalitica e tribale. Dopo aver
tentato invano di suscitare una rivoluzione economico-politica suscitata dai
movimenti di massa delle classi proletarie, oggi la teologia della liberazione
tenta di animare una rivoluzione psicologico-culturale basata sull’azione di
gruppi emarginati o discriminati. In tal modo, essa s’inserisce nell’attuale
passaggio storico dalla “terza Rivoluzione” (quella social-comunista) alla “quarta
Rivoluzione” (quella ecologista e anarchica), come temeva 30 anni fa un suo
grande oppositore: il prof. Plinio Corrêa de Oliveira.[46]
È ipotizzabile che alla base della sovversione interna alla
Chiesa ci sia stata una infiltrazione dei Gesuiti? Rispetto ad altri Ordini,
infatti, la Compagnia di Gesù presentava molte importanti attrattive che la
rendevano una preda ambita: la natura colta (i Gesuiti hanno creato e diffuso
il modello educativo che è alla base della scuola moderna[47]
e soprattutto fornito alla scienza e alla cultura un numero enorme non solo di
teologi, ma anche di astronomi, matematici, filologi, glottologi, architetti,
storici, geologi, letterati…[48];
dunque una indubbia capacità di formare le menti e presenza nell’apparato
educativo: fattori che, assieme all’obbedienza cieca, caratteristica della
Compagnia[49], la
rendevano molto appetibile. Una volta conquistato il vertice, la Rivoluzione
avrebbe avuto al proprio servizio il migliore degli eserciti per scardinare la
Chiesa dall’interno.
È uno dei motivi che possono spiegare la simpatia
neo-marxista della teologia della liberazione (in cui i gesuiti furono magna pars) e l’appoggio gesuita a certi
esperimenti catto-comunisti nell’Italia degli “anni di fango”[50]:
gli epigoni di Sant’Ignazio, dopo aver fatto nei secoli passati così tanta
politica, nel corso del Novecento hanno finito per pensare che solo un diretto
coinvolgimento a livello politico-sociale potesse consentire l’instaurazione
del regno di Dio in terra, individuando gli alleati nei più acerrimi nemici. Un
paradosso, un impenetrabile disegno machiavellico di infiltrazione attiva o,
piuttosto, il risultato di un’infiltrazione passiva, aiutata dal partito di “ispirazione
cristiana” – senza mai dimenticare il motto di Gramsci: «I popolari stanno ai
socialisti come Kerensky a Lenin»[51]?
Il fiume carsico
Il Modernismo è stato definito un «fiume carsico»[52]
che attraversa la storia della Chiesa: in effetti alcuni elementi ereticali
(che potremmo definire cripto-protestanti) sono presenti prima del diffondersi
della eresia modernista (in senso stretto) a cavallo dei secoli XIX e XX e dopo
la sua formale condanna del 1907 ed il suo apparente dissolversi: gallicanesimo,
conciliarismo, modernismo, episcopalismo, nouvelle théologie, teologia della liberazione…
Tra di essi ritroviamo il conciliarismo – considerare il Pontefice
non come il capo supremo, ma come un unus
inter pares – che pone l’assemblea dei vescovi al di sopra della Santa Sede
(il gallicanesimo francese – e l’accettazione del giuseppinismo austriaco –, l’episcopalismo
tedesco, il conciliarismo del Sinodo di Pistoia e dello stesso Vaticano II); la
modificabilità dei dogmi, l’adattamento ai tempi, la subordinazione della
Verità rivelata alla ricerca scientifica, l’accettazione della mentalità
marxista sono tutti aspetti di una deviazione dalla dottrina tradizionale della
Chiesa. Ad essi va aggiunto l’archeologismo, soprattutto nella liturgia:
pretendere di ricostruire il modo di pregare (e, non dimentichiamolo, lex orandi, lex credendi) dei primi
secoli, in aperto rifiuto della Tradizione; il Sinodo di Pistoia ne è un palese
esempio[53].
L’errore di base sta nel ritenere la propria filosofia
capace di assorbire quelle avversarie, senza rendersi conto dell’incompatibilità:
di volta in volta, dopo il successo della cristianizzazione di Aristotele
grazie a San Tommaso d’Aquino (che però era San Tommaso, non Teilhard de
Chardin!), si è cercato di cristianizzare Kant, Hegel, Darwin, il liberalismo e
infine Marx, con ben altri risultati…
Scrive Del Noce a proposito della “teologia della morte di
Dio” – nient’altro che un ulteriore tentativo di creare una sintesi tra
marxismo e cristianesimo:
si discorre molto oggi di “teologia della secolarizzazione”;
ora, questa teologia altro non è, nella sua radice prima, che il risultato di
una commistione di temi cristiani e di temi marxisti. Sorta nell’intenzione di cristianizzare il marxismo, conclude
piuttosto, di fatto, in una ricerca di adeguamento del cristianesimo alla nuova
religione marxista; e non è certo casuale che parecchi tra i suoi
teorizzatori concludano apertamente nella tesi della “morte di Dio”.[54]
Fondamentale è stato, in questa prospettiva, il ruolo svolto
dai Gesuiti, da secoli centro culturale della Chiesa assieme, naturalmente, ai
Domenicani ma, rispetto a questi, più vicini alla realtà quotidiana. Alla svolta
a sinistra della rivista «La Civiltà cattolica»[55],
che sostenne apertamente la via del “compromesso storico” si affiancò la
nascita della rivista «Aggiornamenti sociali», scaturita dal “Centro studi
sociali” di Milano e ulteriore strumento di “apertura a sinistra”.
Palesemente indicativo del progetto di «colpire o almeno
gettare ombra sulla dottrina del Magistero tradizionale della Chiesa in materia
sociale attraverso le eventuali imprecisioni o limitazioni del fedele più o
meno qualificato che se ne fa veicolo»[56]
può essere un articolo di padre Sorge, scritto assieme a padre De Rosa[57]
apparentemente per correggere l’uso scorretto, nel linguaggio corrente, dei
termini integrismo e integrista, ed in particolare in
risposta ad alcuni scritti di occasione di Franco Rodano, comparsi su Paese Sera a commento delle elezioni per
i distretti scolastici[58].
Il voler rispondere al quotidiano Paese
Sera – diffusissimo giornale popolare e voce “non ufficiale” del pci – indica più l’obiettivo di colpire
il Magistero tradizionale della Chiesa, che la volontà di far chiarezza ai
lettori di Paese Sera.
Dopo aver attaccato il Sodalitium
Pianum (p. 315), a maggior riprova che l’obiettivo dell’articolo è tutt’altro
che una chiarificazione terminologica rivolta all’esterno, bensì uno scontro
dottrinario interno alla Chiesa, si ricorda che
Attualmente, la manifestazione più chiara dell’integrismo è
il movimento di mons. Lefebvre, col suo rifiuto di accettare le «novità» del
Concilio Vaticano II ed il suo attaccamento alla «messa di S. Pio V».[59]
Prese le distanze dai tradizionalisti, i due gesuiti
proseguono – documenti conciliari alla mano – con l’elogio del relativismo: non
esiste una “politica cristiana” né un “modello di società cristiana” se non per
gli integristi, pronti a dedurla erroneamente ovvero «direttamente ed
immediatamente – cioè, senza le necessarie mediazioni culturali tra la fede,
che è il campo dell’assoluto e del trascendente, e la storia, che è il campo
del relativo, del contingente e dell’immanente – dalla rivelazione cristiana»[60]
In conclusione, l’integrismo, sia confessionale sia
ideologico, si oppone al pluralismo, alla tolleranza, al dialogo ed alla
collaborazione con orientamenti teorici e pratici diversi. In sostanza, esso si
traduce in una forma di totalitarismo ideologico e pratico.[61]
A questo punto è ovvia la distanza incolmabile tra gli
integristi e i “veri cristiani” (cioè tra i gesuiti e i tradizionalisti,
lefebvriani o meno):
Bisogna, infatti, attentamente distinguere tra l’«ispirarsi»
alla fede nell’attività sociale e politica e il «dedurre» immediatamente e
rigorosamente un modello di società e di azione socio-politica dalla fede. La
deduzione immediata e rigorosa d’un modello di società dalla fede comporterebbe
la delineazione d’una «società cristiana» come unico modello valido di
convivenza, oggettivamente ritenuto obbligatorio non solo per i cristiani, ma
per tutti. Invece, «ispirare» la vita sociale e politica alla fede significa
che nella costruzione di un modello di società «umana» – cioè non dedotta dalla
rivelazione, ma fondata sulla ragione e sul vero e sul bene che la ragione
mostra essere tali, (quindi fondata su valori umani «comuni» a tutti e da tutti
accettabili) – il cristiano chiede alla fede solo la luce che essa proietta
sull’uomo, sulla sua origine, sulla sua dignità e sul suo destino, e la forza
che i valori cristiani mettono a servizio dell’uomo, in primo luogo la forza
della carità.[62]
A conferma di ciò, l’articolo liquida l’Inquisizione –
massimo esempio ovvero «caso più abusato di integrismo cristiano» – come «una
distorsione che, se è storicamente spiegabile, non è però evangelicamente
giustificabile e deve, quindi, essere considerata un errore»[63].
Infine (anticipando il respingimento della di per sé poco credibile ermeneutica
della continuità) l’articolo sostiene coerentemente che
il Concilio Vaticano II, con l’affermazione della libertà
religiosa, ha tolto ogni giustificazione all’integrismo confessionale, che in
altre epoche si fondava sul principio che l’errore, essendo un male individuale
e sociale, era da combattere e da estirpare anche con la forza.[64]
Quindi il male non è da combattere né da estirpare, bensì –
evidentemente – da accettare (se non coltivare) con amore. A meno che il male
non sia rappresentato, anziché da deicidi, scismatici, atei, marxisti ed
eretici, dai cattolici tradizionalisti o integristi.
Un altro importante campione del doppio peso (massima
apertura all’esterno, dall’acattolico all’anticristiano, ma contemporaneamente massima
durezza all’interno, nei confronti dei cattolici tradizionalisti), ed anch’egli
gesuita, fu il potente e temuto (assai più che amato) Carlo Maria Martini
(1927-2012)[65], cha
da presule di Milano si fece promotore di una relativista “Cattedra dei non
credenti” (1987-2002)[66];
Martini fu infatti apertamente estimatore del protestantesimo[67],
dell’islamismo[68] e
dell’ebraismo. Per contro, fu – naturalmente – tra i critici del motu
proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum, che autorizzava il ripristino,
entro certi limiti, della S. Messa tradizionale (e lo fece, da par suo, dalle
colonne de Il Sole 24 ore),
dopo aver boicottato nella sua diocesi l’indulto concesso da Giovanni Paolo II
alla celebrazione dello stesso rito tridentino.
Non a caso Martini è
stato più volte indicato come un maestro di vita da Bergoglio e recentemente
è stato rivelato che l’elezione di Bergoglio è stato il frutto delle riunioni
segrete di un gruppo cardinali e vescovi, organizzati appunto da Carlo Maria
Martini, hanno tenuto per anni a San Gallo, in Svizzera. Lo sostiene nella
propria biografia[69]
uno dei cardinali più progressisti, il belga Godfried Danneels (1933) che definisce
tale gruppo di cardinali e vescovi un “Mafiaclub”.
E il cerchio si chiude, rendendo anche comprensibile perché
ciò che era considerato eretico dalla bolla papale Auctorem fidei del 28 agosto 1794 sia stato accettato dopo il (e
grazie al) Concilio Ecumenico Vaticano II.
[1] Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Stalin a Togliatti: colpire i cattolici,
in Avvenire, 31 ottobre 2007. Cfr.
anche Iidem, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli
archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 2007.
[2]
Plinio Corrêa de Oliveira parlò di «una certa ambiguità sistematica,
incompatibile con la piena ortodossia». Cfr. Archivio dell’Istituto Plinio
Corrêa de Oliveira (San Paolo, Brasile), riunione del 20 agosto 1980, cit. in Roberto de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino
2010, p. 587, che a pagina 14 sostiene: «L’esistenza di una pluralità di
ermeneutiche attesta peraltro una certa ambiguità o ambivalenza dei documenti».
Per una critica serrata dell’ambiguità dei testi conciliari, si veda Atila Sinke Guimarães, In the murky
waters of Vatican II, Tan Books, Rockford (Illinois) 1999, pp. 1-296; Id., Animus Delendi (The Desire to
Destroy), Tradiction in Action, Los Angeles, vol. I (2001) e II (2002). Il
carattere eterogeneo e a volte contraddittorio dei testi conciliari è ammesso
anche da Antonio Acerbi in Due
ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen
Gentium”, EDB, Bologna 1975.
[3] La
definizione è di Plinio Corrêa de Oliveira (Archivio dell’Istituto Plinio
Corrêa de Oliveira, riunione del 9 settembre 1989; cit. in Roberto de Mattei, op. cit., p. 125).
[4] I
modernisti hanno come obiettivo la Chiesa tradizionale, i marxisti la Chiesa tout court. I primi vogliono
trasformarla da portatrice della Verità ad associazione di beneficienza; i
secondi preferirebbero distruggerla: in subordine, accettano di vederla passare
da annunciatrice del Vangelo ad associazione umanitaria, al pari di qualsiasi
altra banale “onlus”.
[5] Il
Sinodo di Pistoia, svoltosi in sette sessioni dal 19 al 28 settembre 1786, fu
un sinodo diocesano che cercò di riformare la Chiesa locale in senso
giansenista. Esso fu convocato dal Vescovo di Pistoia e Prato, Scipione de’
Ricci (1740-1810) ed animato dal teologo Pietro Tamburini (1737-1827),
professore all’università di Pavia. Per il de’ Ricci, questo sinodo doveva
rappresentare il primo passo per la nascita di una chiesa nazionale,
indipendente da Roma. Il sinodo durò dieci giorni e il lavoro consistette
praticamente nell’approvazione di decreti già preparati in precedenza. Lo
spirito generale del sinodo, antiromano e anticuriale, è palese in alcuni
articoli: conferma degli articoli gallicani del 1682, approvazione di tesi care
ai giansenisti (condanna del Sacro Cuore, degli esercizi spirituali, delle
missioni popolari), fusione di tutti i religiosi in un solo ordine,
soppressione dei voti di povertà ed obbedienza.
[6] In
particolare, Scipione de’ Ricci voleva vietare, assieme alla venerazione del
Sacro Cuore e della Via Crucis, quella della Sacra Cintola, la reliquia più
preziosa di Prato: una cintura che la tradizione si considera essere
appartenuta alla Madonna.
[7]
Definiamo così quella corrente che ha operato successivamente alla condanna comminata da San Pio X.
[8] Francesco Lamendola, Quanti preti di sinistra sono massoni ed ex
agenti sovietici infiltrati nei seminari?, il Corriere delle Regioni, Quaderni
culturali: Giornale Web e www.ariannaeditrice.it [31.1.2017]
[9]
Quando Giovanni XXIII palesò la decisione di indire un concilio di fronte a un
gruppo di cardinali, «il Papa rimase sconcertato dall’“impressionante, devoto
silenzio” dei presenti, che manifestava interrogativi e perplessità». Roberto de Mattei, op. cit., p. 116-117. Del resto, poiché il Vaticano I non era stato
mai chiuso, ma solo sospeso per la guerra franco-prussiana e la presa di Roma,
nel 1923, alla domanda di Pio XI se fosse il caso di riaprirlo e terminarlo, il
Cardinal Louis Billot (1846-1931), aveva risposto di ritenere pericoloso
convocarlo, dal momento che: «La ripresa del Concilio è desiderata dai peggiori
nemici della Chiesa, cioè dai modernisti, che già s’apprestano – come ne fanno
fede gli indizi più certi – a profittare degli stati generali della Chiesa per
fare la rivoluzione, il nuovo ’89, oggetto dei loro sogni e delle loro
speranze». Ivi, p. 121. Valutazioni fortemente contrarie furono esposte anche
dai cardinali Andreas Frühwirth (1845-1933) e Tommaso Pio Boggiani (1863-1942).
[10] Cfr.
in questo senso, la “apertura” di Antonio
Spadaro, La religiosità
dell’attesa nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, in «La Civiltà Cattolica»,
cxlvi, 1995 IV, n. 3487, p. 30-43.
[12] I
“preti operai” (PO), che si contavano su una mano prima del Concilio, divennero
quasi trecento dopo il 1964 (l’ultimo “censimento”, risalente al 1995, ne
contava 110, di cui 10 in pensione, quasi tutti concentrati in nord Italia). La
loro rivista, nell’editoriale del primo numero, afferma: «Per la quasi totalità
dei PO italiani il Concilio Vaticano II è stato il punto di partenza nel
cammino che ci ha condotto a condividere la condizione operaia. […] Il Vaticano
II rappresenta un momento di rottura dal quale si dipartono alcune transizioni
o spostamenti epocali di importanza decisiva: — dalla chiesa cattolica quale
società perfetta i cui confini circoscrivevano la salvezza di Dio, al
riconoscimento delle altre chiese e comunità cristiane quali espressioni
dell’unica chiesa di Cristo; — dalla chiesa centralizzata all’emergere delle
chiese locali; — dalla chiesa semplicemente identificata come società
gerarchica, al recupero della figura biblica e storica di popolo di Dio; — dal
monolitismo teologico alla ricchezza pluralistica delle riflessioni critiche
sul cristianesimo; — dalla semplice dipendenza dei laici nei confronti del
clero, ad una loro presa di coscienza e responsabilità con processi di
autonomia sul piano culturale, politico, teologico, etico… — da una chiesa di fronte al mondo ad una chiesa nel mondo, che deve stare con gli ultimi
del mondo». Roberto Fiorini, I preti operai italiani, in
«Pretioperai», n. 0, 1987. Notare come il Vaticano II sia considerato un “punto
di partenza”, un “momento di rottura” e alla Chiesa cattolica venga contrapposta
(e ovviamente preferita) un’altra “unica chiesa di Cristo” da cercare
attraverso una non meglio precisata “ricchezza pluralistica delle riflessioni
critiche”: il caos contrapposto all’ordine, negativamente connotato, del “monolitismo
teologico”.
[13] Fu
Bettino Craxi negli anni ‘80 del ‘900 ad usare questa espressione, ma la
riprese da un articolo di un secolo prima: «Sì, Gesù fu socialista […]. Egli
proclamò che gli uomini sono tutti uguali; non ammetteva la proprietà privata
né la conseguente divisione dei cittadini in padroni e servi, ricchi e poveri,
gaudenti e affamati, e predicava invece la comunione dei beni». Camillo
Prampolini (1859-1930), Gesù
Cristo rivoluzionario e socialista, in La
Giustizia, 5 febbraio 1888.
[14] Cfr.
l’ottimo saggio di Julio Loredo, Teologia della liberazione. Un salvagente di
piombo per i poveri, Cantagalli, Siena 2015. Si vedano anche le opere di Miguel Poradowski, La escalonada marxistización de la teología (1974); Sobre la teología de la liberación (1974);
El marxismo en la teología (1976),
tutti editi dalla Fondazione Speiro di Madrid.
[15]
Sulla portata “rivoluzionaria” dell’enciclica del 1963, cfr. Beniamino Di Martino, A cinquant’anni dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, in «Quaerere Deum.
Rivista semestrale di scienze religiose e umanistiche», V (2013), n. 8, p.
21-45.
[16] Nel
testo: sloveno.
[18] « Je
voudrais, et ce sera le dernier et le plus ardent de mes souhaits, je voudrais
que le dernier des rois fût étranglé avec les boyaux du dernier prêtre. » («Io
vorrei, e questo sia l’ultimo ed il più ardente dei miei desideri, io vorrei
che l’ultimo dei re fosse strangolato con le budella dell’ultimo dei preti»). Jean Meslier (1664-1729), Il testamento (cit. in Jacques Andre Naigeon, Encyclopédie méthodique ou par ordre de
matières: philosophie ancienne & moderne, H. Agasse, Parigi [anno XI
della Rivoluzione]1802 volume III, p. 329).
[19] Ivi,
p. 113.
[20] Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, Linotypia-Tipografia Dario Detti, Roma
1962, p. 284-284.
[21] L’accordo
di Metz è stato un accordo di principio tra la Santa Sede e la Chiesa ortodossa
russa a Metz, in Francia, il 13 agosto 1962, in cui la Chiesa ortodossa russa
ha accettato di inviare osservatori al Concilio Vaticano II e in cambio, il Vaticano
avrebbe espressamente astenersi dal condannare il comunismo. Le trattative si
svolsero tra il cardinale Eugène Tisserant e il metropolita Nicodemo, futuro
Esarca dell’Europa Occidentale e probabilmente – nomen omen – agente del Kgb. Sull’argomento, cfr. Jean Madiran, «L’accordo di Metz». Tra Cremlino e Vaticano, Pagine, Roma 2011.
[23] Ivi,
p. 33.
[24] Cfr.
Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il
carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Einaudi, Torino 1999.
[25] Tra
i testi di riferimento vorrei ricordare almeno Alain
de Benoist, Visto da destra.
Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli 1981 e il
massiccio (ma anch’esso incompleto, nonostante le oltre 600 pagine) Ideario italiano, Il pensiero del Novecento
visto da Destra, a cura di Gennaro Malgieri, Il Minotauro, Roma 2001.
[26] La
battuta «Quando sento la parola cultura, tolgo la sicura alla mia Browning!»
(in originale: «Wenn ich Kultur höre…
entsichere ich meinen Browning!») ricorre nella prima scena del primo atto
del dramma Schlageter (1933) di Hanns
Johst (1890-1978). È stata attribuita a vari gerarchi nazisti, tra cui Baldur
von Schirach (1907-1974), capo delle Hitlerjugend e Gauleiter di Vienna (così
secondo Wikipedia) o più spesso ad Hermann Göring (ed anche, assai meno
comprensibilmente, al Ministro della Propaganda Joseph Göbbels). Il dramma Schlageter, dedicato alla figura di “protomartire”
del nazismo Albert Leo Schlageter (1894-1923), membro dei Freikorps, venne rappresentata per la prima volta nell’aprile 1933,
in onore del compleanno di Adolf Hitler. Per la precisione, la battuta viene
pronunciata non da Schlagater, bensì dal suo commilitone Friedrich Thiemann,
che ritiene superfluo studiare per gli esami in una situazione in cui la patria
si trova in pericolo.
[27] In
questo caso non si potrebbe parlare di infiltrazione,
perché non si tratterebbe di far penetrare idee sovversive, bensì di rafforzare
i principî della Tradizione. L’unico caso noto, quello di creare una
congregazione formata da sacerdoti di simpatie dichiaratamente di destra,
quella dei Serafici dello Spirito Santo, ebbe breve vita nel 1963, all’inizio
del Concilio (cfr. Umberto Berlenghini,
Massimiliano Griner, Stefano Delle Chiaie, L’aquila e il condor. Memorie
di un rivoluzionario politico, Sperling&Kupfer, Milano 2012, p. 26-29.
[28] Per
quanto riguarda un tentativo organizzatore – si pensi al libello Orientamenti (1950), poi ampliato nel
saggio Gli uomini e le rovine (1953).
Ma quel che mancò ad Evola – e per cui non può essere considerato il Gramsci di
Destra – fu l’appoggio del partito: sia il pnf
che il msi lo tennero ai margini
della vita culturale all’interno del partito. E non si può certo definire
“Gramsci di destra” il politicamente e sessualmente ondivago Armando Plebe
(1927-), che pure ebbe da Giorgio Almirante (1914-1988) una sciagurata nomina a
responsabile del settore cultura del msi-dn.
[29] Gli uomini e le rovine, cap. XV, Il problema delle nascite, p. 121.
[30] Nei
primi anni Ottanta è nata comunque una generazione di “integrati a metà”:
perfetti impiegati durante il giorno che, a sera, rientravano a casa e si
immergevano in letture evoliane sognando prospettive di rivolta politica che
non si sarebbero mai realizzate. In particolare, a Milano, mercé un dirigente
giovanile del Msi, che era anche un influente funzionario del personale di una
nota banca, molti giovani del FdG (Fronte della Gioventù) e del Fuan (Fronte
universitario d’azione nazionale) furono spinti ad entrare in questo istituto
bancario. Naturalmente, ogni piano di supposta “conquista dall’interno” si
dissolse di fronte al desiderio carrieristico dei più, che dimostrarono un
attaccamento alle possibilità di carriere ben maggiore di qualsiasi tipo di
“cameratismo”. Salvo l’uso, una volta lasciato l’ufficio e tornati a casa, di
aprire un testo del Maestro e sognare lunghe cavalcate sulla tigre…
[31] Enrico Annibale Butti, L’incantesimo (parte I, La sirena, parte II, La chimera), Treves, Milano 1897 (ora:
Solfanelli, Chieti 2017). Il romanzo, uno sviluppo concreto del superoministico
– e forse troppo idealistico – Le vergini
delle rocce (1896) di Gabriele d’Annunzio, è uno dei più validi esempi di
letteratura politica di Destra del periodo postromantico.
[32] Fondato
nel 1540, l’Ordine fu soppresso e disciolto nel 1773 da Clemente XIV su
pressione dei principali sovrani d’Europa, ma risorse nel 1814 con Pio VII all’epoca
del Congresso di Vienna e della cosiddetta Restaurazione.
[33] Francesco Lamendola, I gesuiti hanno preso il timone della
Chiesa, ma per condurla dove?, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=53779
[7.02.2017].
[34] Ibid.
[35] Il
professor John Rao usava citare passi de «La Civiltà cattolica» dell’800
affermando: «Ecco cosa scrivevano i gesuiti quando erano cattolici». E Antonio
Socci scrive: «Dopo il Concilio la Compagnia di Gesù non è stata più la
soluzione, ma è diventata il problema. E se nella nostra generazione si vuol
trovare addirittura un cardinale che ha apertamente e pubblicamente dissentito
dal magistero dei Papi basta considerare il caso del gesuita Carlo Maria
Martini». Antonio Socci, Non è Francesco. La Chiesa nella grande
tempesta, Mondadori, Milano 2015, p. ???.
[36] Pierre
Teilhard de Chardin (1881-1955), paleontologo e filosofo francese. Per una
sintesi critica del suo pensiero, cfr. Pier
Carlo Landucci, Teilhard de
Chardin. Aberrazioni ideologiche e dottrinali, Effedieffe, Viterbo 2015.
[37] Karl
Rahner (1904-1984), tedesco, discepolo di Heidegger e preparatore del Vaticano
II con la sua alla «svolta antropologica» in teologia, cioè il passaggio al
soggettivismo dall’oggettivismo della teologia scolastica; la teoria del
«cristianesimo anonimo» contro la formula «nulla
salus extra Ecclesiam» e, naturalmente, il dialogo con il marxismo. Per
comprendere l’importanza del suo ruolo, è nota un’inchiesta svolta tra gli
studenti della Lateranense subito dopo il Concilio: alla domanda su chi fosse il
principale teologo cattolico di tutti i tempi, gli studenti non indicarono né
Sant’Agostino, né San Tommaso d’Aquino, bensì Karl Rahner.
[39]
Gesuita, per fare un solo esempio, fu Luis Espinal Camps, noto come “Lucho
Espinal” (1932-1980) ideatore dell’aberrante “crocifisso comunista” (un
crocifisso montato su una falce e martello), apprezzato regalo del presidente boliviano,
il sindacalista social-comunista Evo Morales, a Jorge Bergoglio. Lo stesso
Bergoglio è ritenuto vicino alla teologia della liberazione: Rachel Donadiomay, Francis’ Humility and Emphasis on the Poor Strike a New Tone at the
Vatican, in New York Times,
25.05.2013.
[40]
Basti pensare alla delirante – nonché esemplificativa – dichiarazione
rilasciata al quotidiano Repubblica
di Luca Brandolini, vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo, nonché membro della
commissione liturgica della conferenza episcopale italiana: «Non riesco a
trattenere le lacrime – ha detto – sto vivendo il momento più triste della mia
vita di vescovo e di uomo. È un giorno di lutto non solo per me, ma per i tanti
che hanno vissuto e lavorato per il Concilio Vaticano II. È stata cancellata
una riforma per la quale lavorarono in tanti, al prezzo di grandi sacrifici,
animati solo dal desiderio di rinnovare la Chiesa» Orazio La Rocca, “Obbedirò
al Pontefice ma è un giorno di lutto. Si cancella la riforma”, in La Repubblica, 8 settembre 2007.
[42] Ibid.
[44] Cfr.
i due studi Libertatis Nuntius (1984)
e Libertatis Conscientia (1986) della
Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dall’allora cardinale
Joseph Ratzinger.
[45] Cfr.
la Notificazione della Congregazione per
la Dottrina della Fede sulle opere del P. Jon Sobrino S.I. (2006). Lo
stesso Woytila, aprendo i lavori della III Conferenza Generale dell’Episcopato
latinoamericano (celam) a Puebla
(Messico), il 28 gennaio 1979 indicò i pericoli dell’abbandono della Fede per
cercare altre vie onde raggiungere la “libertà”: «In alcuni casi, o si tace la
divinità di Cristo, o si incorre di fatto
in forme di interpretazione contrarie alla fede della Chiesa. Cristo sarebbe
solamente un “profeta”, un annunciatore del Regno e dell’amore di Dio, ma non
il vero Figlio di Dio, e non sarebbe pertanto il centro e l’oggetto dello
stesso messaggio evangelico. In altri casi, si pretende di mostrare Gesù come impegnato politicamente, come uno che
combatte contro la dominazione romana e contro i potenti, anzi implicato in una lotta di classe. Questa concezione di Cristo
come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si compagina
con la catechesi della Chiesa». Corsivo mio. Nel discorso, la condanna della
teologia della liberazione, pur essendo implicita, non è mai esplicita: il termine
liberazione si ripete 20 volte,
mentre la locuzione teologia della
liberazione non ricorre mai.
[46] Guido Vignelli, La “teologia della liberazione”: un libro ne denuncia il pericoloso
rilancio, in «Riscossa Cristiana. Sito cattolico di attualità e cultura»,
11 marzo 2015 [8.02.2017].
[47] Cfr.
tra gli altri, Fabrizio Manuel Sirignano,
Gesuiti e Giansenisti. Modelli e
metodi educativi a confronto, Liguori, Napoli 2012. I giansenisti
propugnavano una scuola elitaria: classi di pochissime persone di varie età,
formate solitamente da familiari (fratelli e cugini), con lezioni che si
tenevano all’interno del palazzo di famiglia e curate in tutte le materie da un
unico aio, che viveva giorno e notte con i discepoli. I Gesuiti invece avevano
scuole con classi numerose, formate da alunni della stessa età, provenienti da
strati sociali diversi, che si riunivano in una scuola (ricavata in un palazzo
di proprietà dell’Ordine) e venivano seguiti da docenti specializzati per
ciascuna materia e sottoposti ad un rigido controllo di qualità.
[48] C’è
chi sottolinea il lato negativo della natura colta della Compagnia per spiegare
la silenziosa, ma radicale “mutazione antropologica” dei Gesuiti a partire
dalla metà del XX secolo: «dopo aver dato alla Chiesa e al mondo, oltre che
instancabili e intrepidi missionari, i gesuiti hanno finito per assimilare lo
spirito della cultura profana, per assorbire elementi di modernismo, laicismo,
razionalismo, meccanicismo, evoluzionismo: valga per tutti l’esempio di
Teilhard de Chardin, la cui filosofia è assai poco cristiana e molto, invece,
panteista. Nietzsche diceva che non si può guardare nell’abisso troppo a lungo,
senza che l’abisso guardi dentro di noi». Francesco
Lamendola, I gesuiti hanno preso il timone della
Chiesa, ma per condurla dove?, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=53779,
18/04/2016 [10.02.2017].
[49] «Oltre
ai voti di castità, povertà e obbedienza, i gesuiti ne fanno uno ulteriore.
Promettono infatti speciale obbedienza al Papa, rendendosi disponibili a essere
inviati ovunque o comunque a ricevere una qualsiasi missione che il Papa
ritenga utile al bene della Chiesa. La Compagnia di Gesù non è l’unico Ordine a
fare un quarto voto. I camilliani, ad esempio, fanno voto di assistenza ai
malati, mentre gli ordini monastici fanno un voto di stabilità. Questo voto “in
più” ha a che fare con il carisma dell’Ordine, cioè con la maniera specifica di
vivere la sequela del Signore. Per i gesuiti questo significa che l’obbedienza
speciale che vivono al Santo Padre è al cuore stesso della loro identità». http://gesuiti.it/in-che-cosa-consiste-il-quarto-voto/
[10.2.2017].
[50] Si
pensi all’esperienza della “primavera di Palermo” (1985-1990), quando i gesuiti
Bartolomeo Sorge e Ennio Pintacuda, entrambi provenienti dal Centro di
Formazione Politica “Pedro Arrupe” di Palermo, guardarono con simpatia al movimento
catto-comunista della “Rete” di Leoluca Orlando.
[51] Antonio Gramsci, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma
1971, p. 257.
[52] La
definizione è di Roberto de Mattei,
che la ha usata per la prima volta il 27 novembre 2007, in occasione di un convengo
sul centenario dell’enciclica Pascendi
Dominici Gregis, tenuto presso la Pontificia Università San Tommaso.
[53] Diversi
furono i decreti emanati dal Sinodo, che fortunatamente rimasero lettera morta,
prima di essere condannati ufficialmente da Pio VI (bolla papale Auctorem fidei del 28 agosto 1794):
·
la Chiesa ha il compito di preservare la purezza
originaria della fede trasmessa da Cristo ai Suoi apostoli e non aveva diritto
di introdurre nuovi dogmi, che sono perciò falsi;
·
la vera Chiesa, organismo spirituale senza
autorità secolare, è la comunità dei pastori di Cristo di cui il Papa è
soltanto il capo ministeriale;
·
si raccomanda di abolire tutti gli Ordini
monastici, eccetto quello dei Benedettini; alle suore viene proibito di
pronunciare i voti prima dei 40 anni;
·
liturgia: si
introduce la lingua volgare e la lettura ad alta voce delle preghiere della
Messa; si obbliga a togliere dalle chiese
ogni immagine o statua che non siano quelle che fanno riferimento ai
misteri di Cristo; sono soppressi gli altari laterali nelle chiese;
·
penitenza: dottrina molto rigida, favorevole ad
un’unica confessione nella vita, come nella chiesa antica;
·
il Sacro Cuore e la Via Crucis sono considerate
false devozioni;
·
per il culto pubblico si mantengono gli onori al
Sovrano (ovviamente!), ma si riducono le novene, le processioni, le feste
(trasferite alla domenica successiva o precedente).
[54] Augusto Del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo. Lezioni sul
marxismo, Giuffré, Milano 1972, p. 34. Corsivo mio.
[55] «Si
mettano a confronto, per averne la prova, le annate de «La Civiltà cattolica»
anteriori, e quelle posteriori, al Concilio Vaticano II. È sempre la stessa
rivista, sono sempre gli stessi gesuiti; eppure è cambiato tutto, le tesi sono
completamente diverse, e anche la linea pastorale è mutata da cima a fondo». Francesco Lamendola, I gesuiti hanno preso
il timone della Chiesa, cit.
[56] Giovanni Cantoni, L’anti-integrismo come “dis-integrazione” della Fede. Il contributo de “La
Civiltà Cattolica” al “compromesso culturale”, in «Cristianità», n. 37,
1978.
[57] Bartolomeo Sorge sj, Giuseppe De Rosa sj,
Fede cristiana ed integrismo, in «La
Civiltà Cattolica», anno 129 n. 3064, (18-2-1978), p. 316-324.
[58] Le
elezioni si erano tenute nel 1977 (11 e 12 dicembre); gli articoli di Paese sera erano apparsi nel 1978 (5 e 18
gennaio, 8 febbraio).
[59] Ivi,
p. 316.
[60] Ivi,
p. 318.
[61] Ivi,
p. 320.
[62] Ivi,
p. 321.
[63] Ivi,
p. 322.
[64] Ivi,
p. 323
[65] Arcivescovo
di Milano (1979-2002), Cardinale dal 1983, Presidente del Consiglio delle
Conferenze dei vescovi d’Europa (1986-1993).
[66]
Attenzione: non cattedra per i non
credenti (volta alla conversione di essi), ma dei non credenti, chiamati a pontificare, se non a convertire (o
pervertire) i cattolici. Le lezioni introduttive di Martini alla “Cattedra”
sono state pubblicate (Le cattedre dei
non credenti, Bompiani, Milano 2015) come primo volume della sua opera omnia e con una prefazione firmata
da Bergoglio, che non lesina elogi al suo mentore: «La sua vita, le sue opere e
le sue parole hanno infuso speranza e sostenuto molte persone nel loro cammino
di ricerca».
[67] In Colloqui notturni a Gerusalemme. Sul rischio
della fede (Mondadori, Milano 2008), «Martini definisce Lutero, che nella
storia della Chiesa è stato una delle più tragiche calamità, come “il più
grande riformatore”. Poi aggiunge che a Lutero “l’amore per le Sacre Scritture
ispirò buone idee” (testuale!) e pur ritenendo “problematico” il fatto che
Lutero abbia “tratto da riforme e ideali necessari un sistema proprio”,
tuttavia Martini afferma che la Chiesa contemporanea “se ne è lasciata ispirare
per dar corso al processo di rinnovamento del Concilio Vaticano II,
dischiudendo per la prima volta ai cattolici il tesoro della Bibbia su basi più
larghe”» Antonio Socci, Da Martin Lutero a “Martini Lutero”, in Libero, 21 maggio 2008. Notevole la
sottolineatura del rapporto tra Lutero e Vaticano II…
[68] Il 7
dicembre 1990, cioè nella ricorrenza di Sant’Ambrogio, protettore di Milano,
predicò la necessitò di dialogare con l’islam e di favorire l’integrazione con
gli immigrati di fede islamica,
[69] Jürgen Mettepenningen, Karim Schelkens, Godfried Danneels. Biografie, Uitgeverij
Polis, Antwerpen 2015
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