Joseph de Maistre contro Lutero e Rousseau
Le cause prossime
della rivoluzione francese furono sociali e politiche, ma le cause remote
furono essenzialmente religiose. Questo assunto, sostenuto nella prima metà
dell’800 dal Principe di Canosa e ribadito nel ’900 dallo studioso e filosofo tradizionalista
Francisco Elías de Tejada e dall’intellettuale conservatore Plinio Corrêa de
Oliveira, ha un antecedente in un breve saggio del 1798 di Joseph de Maistre,
rimasto inedito durante la vota del suo autore:
Sur le Protestantisme. Lo scrittore sabaudo coglie l’incompatibilità
delle eresie luterana e calvinista con l’ordine tradizionale e definisce il
protestantesimo come «l’ulcera funesta che colpisce tutte le sovranità e le
erode inesorabilmente, il figlio dell’orgoglio, il padre dell’anarchia, il
solvente universale» (p. 30). L’autore delle
Serate di San Pietroburgo ripercorre
il ruolo operato nella civiltà europea (o, meglio, cristiana) dal Cristianesimo,
che si sostituì all’impero romano senza
però mai intenderne scalzare la sovranità; la vera Religione si è diffusa anche
in Asia, pure qui senza stimolare alcuna ribellione (i martiri sono
resistenti,
non
ribelli). Al contrario, il protestantesimo, fin dal nome, «è un
misfatto, perché “protesta” contro tutto, non si sottomette a nulla, non crede
a nulla e, se fa finta di credere a un libro, è perché un libro non dà fastidio
a nessuno» (p. 33). Eresia civile, quindi, nonché religiosa, che combatte
apertamente gli Stati cattolici, ma danneggia anche gli stessi Stati che la
hanno adottata, come dimostrano le lotte intestine in Germania, Francia,
Inghilterra… Il Conte sabaudo addirittura sembra accettare il concetto di
legittimità
di esercizio proprio del tradizionalismo ispanico (ed ignoto a quello
europeo di matrice francese): «un Principe che si distacchi dalla fede,
soprattutto in un momento di eccitazione e di fanatismo e soprattutto per
abbracciare una religione incendiaria e anarchica che sta coprendo in quello
stesso momento il Regno di cenere e di sangue, non dovrebbe rinunciare alla
corona? E i suoi sudditi, senza fare una vera e propria rivoluzione, senza
intaccare la
sovranità e limitandosi a resistere al
sovrano, non
avrebbero il diritto di considerare l’atto del Re come un’abdicazione
volontaria […]?» (p. 37).