Nel cortile da comari della moderna Torre di Babele che gli
ingegneri sociali del globalismo intendono costruire, veniamo accusati di
allarmismo quando segnaliamo un fatto di evidenza palpabile: la Spagna, e con
essa tutta l’Europa, si sta suicidando.
Non stiamo attraversando una crisi economica o politica, bensì religiosa, un’apostasia con conseguenze sulla civiltà. La cosiddetta “immigrazione di massa” non è la causa della nostra malattia, ma un sintomo letale di una malattia spirituale molto più profonda.
La sostituzione della popolazione che sta avanzando a un
ritmo forzato non si comprende dai parametri razziali, ma da quelli
religiosi e culturali. È un errore, e una concessione al nemico,
inquadrare la battaglia in termini
etnici o razziali.
Il problema di fondo è che l’Europa ha rinnegato la sua
anima, che è Cristo Re.
Lo diceva Leone XIII: escludendo Dio dalla vita pubblica «ne
consegue un tale diluvio di mali che l’umanità non ne ha mai sperimentati tanti
e così gravi» (Sapientiae christianae, 1890). Oggi vediamo quel diluvio
nelle strade delle nostre città: sradicamento, nichilismo, immigrazione di
massa…
Come ha avvertito lo scrittore Juan Manuel de Prada già nel
2018: «L’immigrazione di massa è usata come ariete per dissolvere le identità
nazionali e promuovere l’avvento di un uomo-massa sradicato, facilmente
manipolabile dai poteri oligarchici» («XL Semanal»). Questo “uomo-massa” è il
prodotto finale di una società che ha escluso Dio dalle sue piazze, dalle sue
leggi e dai suoi cuori.
La natura aborre il vuoto. Un continente che ha gettato a
mare l’eredità di Roma e Atene; che ha trasformato le sue chiese in musei e le
sue tradizioni in folklore per turisti; Quel continente sarà inevitabilmente
occupato da popoli con una (falsa) fede, con (errate) convinzioni e una natalità
vigorosa (nonché aiutati dagli europei bianchi).
I musulmani che vengono sulle nostre coste non sono il
problema, ma la conseguenza. Il problema è l’apostasia degli europei che
hanno preferito il vitello d’oro del consumismo e dell’edonismo alla Croce che
ha forgiato la nostra civiltà.
L’arcivescovo Marcel Lefebvre aveva già sottolineato questa
dinamica: «La riforma conciliare fa parte di un desiderio di adattamento al
mondo moderno che porta alla distruzione del Regno di Nostro Signore». Questa
distruzione, quest’apostasia, apre la porta ad altri “regni”.
Di fronte a questo panorama, alcuni reagiscono inquadrando
la battaglia in termini etnici o razziali (per non dire razzisti o xenofobi),
come nazionalisti, identitari o fascisti. Una tale reazione non solo è
fuorviante, ma alimenta il mostro globalista, dandogli più
carburante per continuare con la Grande Sostituzione che intendono combattere. Coloro
che promuovono questa reazione controproducente vedono nell’Ispanità un
problema o le vestigia di un passato di cui vergognarsi. Ma niente è di più
lontano dalla verità.
L’Ispanità è parte della soluzione. Non l’Ispanità
come idea folcloristica o club di nazioni liberali, ma l’Ispanità come Christianitas
minor (Elías de Tejada): ciò che rimane dell’antica Cristianità, cioè il
mondo cattolico, universale e missionario.
L’Ispanità sarebbe l’antidoto perfetto contro il
globalismo senz’anima promosso dalla Grande Sostituzione e anche contro il
razzismo di coloro che fingono di combattere il globalismo ma che, come utili
idioti, fanno il suo gioco. Mentre l’attuale progetto europeo si basa su
una burocrazia vorace e su mercati globalisti, il progetto di Ispanità si
basava, con le sue luci e le sue ombre, sull’evangelizzazione e
sulla creazione di uno spazio politico unito dall’Altare e dal Trono.
Alcuni nazionalisti o identitari sostengono che l’Ispanità
non esiste più, essendo stato inghiottito dalle sette protestanti, dalla
mentalità liberale e dalla moderna anticultura (come il reggaeton). Ma
queste sono piuttosto le conseguenze di una gerarchia modernista che ha rifiutato
la predicazione di Cristo per gettarsi nelle braccia della teologia della falsa
liberazione o per ridurre la fede nei canoni ristretti del mondo moderno. Queste
sono le conseguenze del modernismo conciliare che essi stessi difendono, «incoronando
le cause e impiccando le conseguenze», secondo l’acutissima frase di Vázquez de
Mella. Un modernismo che comunque, nonostante quello che oggi ci può sembrare,
non prevarrà.
L’unità religiosa è il fondamento più solido dell’unità
politica. L’Ispanità è quello spazio in cui l’integrazione non significa
diluizione in un multiculturalismo senza principi, ma adesione a una comunità
superiore di popoli uniti dalla stessa Fede e dallo stesso scopo trascendente.
Dobbiamo riaprire le porte alla Grazia per far rivivere la
nostra civiltà. Dobbiamo tornare alle essenze che ci hanno definito: la
Tradizione, l’Altare e il Trono. L’Ispanità, la Christianitas minor, non
costituisce un problema, ma è un faro che può riportarci verso un porto sicuro
in mezzo a questa tempesta che minaccia di affondare la nave dell’Occidente.
Pertanto, la risposta carlista alla Grande Sostituzione non
è né un ripiegamento xenofobo (come sostengono i nazionalisti) né un
multiculturalismo relativista (come sostengono i globalisti), bensì una
riconquista spirituale. Riconquista sotto la bandiera dell’Ispanità,
cioè sotto la Croce.
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