Intorno a Napoletanità di Gigi Di Fiore
Gigi Di Fiore, Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele viaggio nell’anima di un popolo, UTET, Milano 2019, p. 382, € 18
Si
inizia dalla constatazione di un paradosso: quanti scrittori ed artisti
napoletani, magari passati alla storia come cantori della napoletanità, hanno
preferito vivere lontano dalla propria città? «Si può essere napoletani, orgogliosi
di esserlo, innamorati della città, ma trovare insopportabile viverci» (p. 12).
È stato il caso – a cui Di Fiore dedica molto spazio – di Pino Daniele, che ha
preferito trasferirsi prima a Formia e poi in un paese della Maremma, dove
addirittura ha chiesto di essere sepolto; ma nei decenni è stato il caso di
Totò, dei fratelli De Filippo, di Raffaele La Capria, di Riccardo Pazzaglia…
A
quattro anni da La Nazione napoletana. Controstorie
borboniche e identità suddista (Utet, Torino 2015), Gigi Di Fiore torna sul
concetto di appartenenza al territorio e alla cultura napoletani e lo fa
sottolineando la profonda differenza tra napoletanismo
e napoletanità (o napoletaneria): il primo stereotipo
deteriore, cui tanti si adeguano «per pigrizia e a volte per interesse» (p. 12);
la seconda «l’orgoglio delle proprie radici e la coscienza di avere alle spalle
una storia antica» (ibidem).
Per
approfondire questa dicotomia, l’Autore ripercorre tre secoli di storia
napoletana, partendo dall’arrivo di Carlo di Borbone (che sarebbe il caso di
iniziare a chiamare direttamente Carlo VII di Napoli e V di Sicilia), ma non manca
di accennare la fondamentale importanza dei due secoli precedenti, quelli
passati in unione con la Spagna: un’unione tanto stretta «che le differenze tra
i due centri [Napoli e Madrid] quasi non si distinguevano più» (p. 21).