di Gianandrea de Antonellis
di Gianandrea de Antonellis
Una gente che libera
tutta
O fia serva tra l’Alpe
ed il mare;
Una d’arme, di
lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue
e di cor.
conte Alessandro
Manzoni, Marzo 1821
La parola Italia è una espressione
geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore
politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.
conte Klemens von Metternich (2 agosto 1847)
Un’Italia senza gli Italiani?
A proposito del rapporto tra
Italia ed Italiani, due frasi famose si contrappongono: una di Massimo d’Azeglio
(1798-1866) e una di Salvator Gotta (1887-1980).
La prima – forse apocrifa[1]
– recita: «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani», segno
che il Risorgimento aveva agito politicamente, ma non socialmente; l’altra afferma:
«Dell’Italia nei confini | son rifatti gl’Italiani | li ha rifatti Mussolini |
per la guerra di domani»[2]
e individua nel Ventennio fascista il momento in cui il desiderio
risorgimentale di unificazione territoriale si sposò con l’effettiva unità di
sentimento della popolazione. È noto che il culmine di tale sentimento fu provvisoriamente
raggiunto nel 1936 con la proclamazione dell’Impero[3],
ma è altrettanto noto che nemmeno dieci anni dopo tutto era crollato: il secolo
del Fascismo[4], durato
solo un quarto di secolo (peraltro ben più – sia nelle prospettive che nella
concreta realizzazione – dei dodici anni del Reich “millenario”), il sogno imperiale italiano, l’unità dei
popoli della penisola, usciti da una sanguinosa guerra civile e pronti a
perpetuare ferocemente la divisione, su basi politiche anziché territoriali[5],
grazie al regime democratico.
Morto (politicamente) Mussolini,
sono morti anche gli Italiani: non ce ne si è accorti subito, ma poco alla
volta il disgregamento è parso sempre più evidente[6].
Prima di giungere ai fenomeni leghista (maggioritario in alcune regioni del
Nord) e neoborbonico (quest’ultimo invece privo di qualsiasi riscontro
elettorale), già negli anni Settanta gli opposti estremismi si caratterizzavano
a Sinistra per l’internazionalismo sovietizzante, a Destra per un europeismo
che, senza celare una subordinazione culturale nei confronti del
nazionalsocialismo tedesco (in realtà del cesarismo hitleriano, preferito a
quello mussoliniano[7]),
considerava l’Italia una nazione tornata ad essere la semplice ed imbelle “Italietta”
di epoca liberale.
Il disprezzo per lo Stato
italiano, necessariamente identificato nei suoi traballanti governi[8]
asserviti a potenze straniere (ieri Israele e gli Usa, oggi l’Ue, Israele e gli
Usa), si riversa contro l’italianità in genere: contro la cultura, accusata di
essere provinciale; contro l’uomo medio, imputato di essere vigliacco ed
egocentrico (non a caso la macchietta
interpretata in vari film da Alberto Sordi era definita “l’Italiano medio”[9]);
contro la mentalità del “tengo famiglia” se non quella, criptomafiosa, del “fatti
i fatti tuoi”.
L’Italia di Lissa, di Adua, di
Caporetto e dell’8 Settembre, incapace – e soprattutto senza desiderio – di
combattere si rispecchia in questo stereotipo, esaltato dalla narrativa e dalla
cinematografia[10] quasi
per “purificarsi” dalla retorica eroico-militarista del Ventennio fascista[11].
Una contro-retorica (non una
anti-retorica, bensì una retorica al contrario) che nel corso degli anni è però
riuscita a plasmare le nuove generazioni, assolutamente pacifiste (anche se non
pacifiche) ed edoniste, che rifiutano “senza se e senza ma” la guerra, ma non
la droga; che amano il rischio della velocità e dello sballo post-discoteca; che
sono anche capaci – imbottiti di stupefacenti – di brandire un estintore e
tentare di rompere la testa ad un carabiniere, ma si stracciano le vesti se il
militare in questione osa difendersi[12].