domenica 1 maggio 2022

Veneto 2022: un 25 aprile diverso

Riccardo Pasqualin

 

Che quello del 2022 potesse essere un 25 aprile differente dai precedenti lo avevano già previsto in molti, diverse notizie apparse sui giornali potevano farlo supporre. Partiamo da questa: Ucraina Russia, bandiera neonazista alla manifestazione per la pace a Reggio Emilia («Il Resto del Carlino», 25 febbraio 2022), il titolo allude alla comparsa del vessillo banderista rosso-nero (oggi stemma del partito neonazista Pravj Sektor) a una marcia per la pace.

Che il governo ucraino avesse elevato ad eroi della patria dei criminali nazisti lo aveva già tristemente costatato l’ambasciatore israeliano a Kiev Joel Lion, il quale, nel dicembre del 2018, aveva definito il pantheon dei “padri dell’Ucraina” «un orrore». Ciò in riferimento a collaborazionisti come il citato Stepan Bandera (1909-1959) e Roman Shukhevych (1907-1950), complici del genocidio ebraico.


Ciononostante, con l’inizio delle operazioni speciali russe, i progressisti italiani si sono schierati apertamente a sostegno del governo di Kiev, arrivando ad accusare di putinismo l’ANPI, con toni che rasentano livelli da prima elementare (vedi Luciano Capone, Se starnazza come un putiniano, è un putiniano. Il caso Pagliarulo, «Il Foglio», 19 aprile 2022).

Sembrerebbe che una storia italiana come quella di Michael “Mischa” Seifert (1924-2010), «il Boia di Bolzano», criminale ucraino arruolato nelle SS, sia stata completamente rimossa da certi “perbenisti”; anche il grande Mike Bongiorno è stato testimone oculare delle atrocità di cui quell’assassino si macchiò, ma il progressismo non ha passato, è l’antitradizione del qui e ora.

In questi giorni, di bandiere e simboli nazisti tra gli ucraini se ne sono visti parecchi e non solo a Reggio Emilia, ma per i sepolcri imbiancati d’Italia le svastiche non sarebbero altro che un “pacifico” «simbolo slavo».

Il 25 aprile, festa di San Marco, è un giorno importante per i cattolici veneti, egli è l’evangelizzatore della Venezia. Tuttavia, non c’è stata unità, ovunque si sono svolte una serie di manifestazioni rigidamente separate.

A Padova, ad esempio, si è registrata infatti una scollatura tra i progressisti filo-ucraini e gli esponenti della “vera sinistra” (socialisti e comunisti), che si sono posti «Al fianco del Donbass che resiste». In tutta la regione è circolato lo slogan «Depidifichiamo il 25 aprile», in risposta agli «spiriti bellicisti» del «neoliberismo progressista» (così recita un manifesto stampato a Roma e diffuso in tutta la Penisola). Secondo le sinistre “ortodosse”, quella in corso è una «guerra per procura della Nato». Da più parti è stato anche commemorato Edy Ongaro, discusso combattente estremista marxista, morto al fronte all’età di 46 anni lottando tra le file degli internazionalisti vicini alla Russia, ma originario di Portogruaro.

A Verona, però, a difendere le bandiere di Doneck con l’angelo armato di spada c’erano anche le destre, incredibilmente unite (forse per la prima volta nella cronaca scaligera degli ultimi vent’anni) a frange dei centri sociali, in un incontro tutt’altro che nuovo di colori zaristi e aquile delle repubbliche popolari. In effetti, pare che la seconda avanzata russa ricalchi i confini della Repubblica Sovietica del Donec-Krivoj Rog nel 1918. D’altra parte, nell’ultimo ventennio, in Russia il sentimento monarchico è cresciuto, ma di sicuro i tempi non sono maturi perché un pretendente torni sul trono degli Zar.

A Venezia è accorsa, come sempre, una massa di sostenitori delle varie forze indipendentiste venete provenienti perlopiù dalla Terraferma, già divisi per collocazione ideologica e ora ripartiti anche tra filo-russi e filo-ucraini, ma uniti nella maggior parte dei casi nell’assenza di una vera consapevolezza politica.

Tra i difensori del Donbass non c’è stata alcuna frattura e complessivamente nelle varie città gli scontri, anche verbali, sono stati pressoché assenti.

L’evoluzione inedita del dì di festa ha mostrato nuovi frazionamenti, frutto di contraddizioni forse non più sopportabili, ma anche nuove sovrapposizioni di significati e di militanze partitiche. Questi fenomeni dipendono dalla ricerca di una “purezza ideale” perduta nel mondo post-ideologico o sono una delle ennesime manifestazioni di quest’ultimo?

«questo incontro tra due garibaldini in arcivescovado, con nove preti intorno, dentro un complotto per la restaurazione borbonica, sarebbe da far celebrare a Mino Maccari» scrisse Sciascia ne I pugnalatori (1976), «in un quadro: da appendere al palermitano Museo del Risorgimento». In mezzo a questa confusione è il caso di osservare tutto con attenzione e distacco.

Comunque sia, per i cattolici senza etichette l’atmosfera resta quella di sempre, pesante e apparentemente priva di raggi di luce. Come si può stare al cospetto dell’Evangelista con sulle spalle il fardello della propria impotenza? La sensazione che potrebbe prevalere nell’animo dei fedeli è quella di non essere in grado di cambiare un presente soffocato da tante brutture: una società spiritualmente cieca, corrotta, bestializzata. Ma gli uomini onesti non devono avere vergogna davanti al Santo e davanti a Dio.

Al principio del Vangelo di Marco, il Signore pare chiamare tutti uno ad uno per nome: tu Giovanni, tu Simone, tu Andrea, tu Giacomo... Non c’è dissolvimento dell’identità individuale, nemmeno in una colpa che potrebbe sembrare per forza collettiva. Ricordo sempre con affetto la predica pronunciata da un amico sacerdote il 21 gennaio del 2018: «Il Vangelo di Marco inizia con un elenco di nomi: tu, tu, tu...il Cristianesimo è questo, non è intruppamento, è Dio che ti guarda negli occhi».

Per i cattolici non è cambiato nulla nemmeno quest’anno, nel mistero del presente devono continuare ad avere fede e speranza e ad affidarsi al Padre, che è l’unico a conoscere davvero il mondo e i suoi rivolgimenti.

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