venerdì 20 novembre 2020

Chi era Monaldo Leopardi?

Chi era Monaldo Leopardi?


Monaldo Leopardi, Catechismo sulle rivoluzioni e Otto giorni dedicati ai liberali illusi, Solfanelli, Chieti 2020, p. 168, € 14


Recensione di Giovanni D’Alessandro



Chi era Monaldo Leopardi? Era il padre del poeta Giacomo e c’è da giurare che moltissimi lo sappiano, magari sulla base di memorie scolastiche, insediatesi nei verdi anni grazie anche a un nome così inusuale e a un cognome così conosciuto. Il “signor padre” (1776-1847) – come lo chiamava con riverenza Giacomo nella corrispondenza intercorsa tra loro, dopo che il poeta aveva finalmente lasciato, a 27 anni, Recanati – era figlio del conte Giacomo (del quale darà al proprio primogenito il nome) e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, primo anch’egli dei discendenti d’una delle famiglie più illustri della Marca Pontificia. Orfano dai 4 anni, affidato a una tutela familiare, istruito da un precettore gesuita, Monaldo fu costretto a cimentarsi con l’amministrazione dei beni ereditari già prima dei vent’anni, con risultati disastrosi; che costrinsero, dopo il suo matrimonio nel 1797 con la marchesa Adelaide Antici – madre del poeta –, tanto la moglie quanto i parenti di lei a ritenere opportuno occuparsi loro dal patrimonio. sollevandone lo sposo e lasciandolo così libero di dedicarsi agli amati studi di filosofia, religione e politica; nonché di attendere alla costituzione della famosa biblioteca di ventimila volumi immortalata dal primogenito come alveo di “studi matti e disperatissimi”.

C’è una premessa da fare, doverosa soprattutto quando si parla di un poeta d’immensa fama e grandezza, quale Giacomo: come cioè sia destinato a risultare controverso ogni riferimento sulla incidenza, nella sua opera, del contesto di provenienza e formazione; ma con una distinzione rispetto ad altri grandi, che vi sono casi in cui la famiglia appare meno condizionante e casi in cui si verifica l’ipotesi opposta.

sabato 19 settembre 2020

Gli Zuavi Pontifici e i loro nemici


Recensione al saggio

Francesco Maurizio Di GiovineGli Zuavi Pontifici e i loro nemici, Solfanelli, Chieti 2020, p. 364, € 24   

Molte strade della Penisola italica sono intitolate al 20 (o XX) Settembre, data che segna l’entrata delle truppe italiane a Roma nel 1870 dalla celebre “breccia” di Porta Pia. Esiste anche una nutrita serie di opere pittoriche e scultoree che ricorda questa “impresa” dei bersaglieri (per inciso: quelli che Carlo Alianello avrebbe definito «le SS dell’Ottocento» nel suo La conquista del Sud a causa del loro comportamento nei confronti della popolazione civile meridionale durante la repressione del cosiddetto “brigantaggio” antiunitario). Ma affinché la conquista di Roma possa essere considerata una vera “impresa” e non una semplice esercitazione o, come si dice in casi simili, una “passeggiata militare”, sono necessari ameno due elementi: a) che i bersaglieri abbiano trovato una resistenza e b) che questa abbia avuto un certo peso.

Eppure, il 20 Settembre e la breccia di Porta Pia, sono sempre intesi, nell’immaginario collettivo prevalente, come un colpo di mano di Lamarmora, che si decise a penetrare nella Città Santa quasi nonostante gli ordini pacifici contrari del suo comando, conducendo una brillante e coraggiosa Operazione Militare che avrebbe cambiato la Storia della Patria (il tutto rigidamente scritto con le maiuscole).

Insomma, sembra che i soldati italiani si siano limitati a far brillare la carica che aprì il varco nelle mura romane e a mettere il governo piemontese, timoroso della Francia, di fronte al fatto compiuto.

Però, se fin dal primo momento tale impresa da artificieri è stata esaltata, evidentemente essa doveva aver trovato una notevole resistenza da parte dell’esercito pontificio. E così fu, infatti: le cronache riportano 32 morti e 143 feriti da parte italiana e circa la metà (15 morti e 68 feriti) da parte pontificia, nonostante l’esercito papalino contasse meno di un quarto di uomini di quello invasore (15.000 contro 65.000) . Eppure, chi compì tale eroica resistenza è stato (volutamente) dimenticato, almeno dalla storiografia dei vincitori.

lunedì 31 agosto 2020

L’attività editoriale del gruppo tradizionalista napolitano

Intervento di Gianandrea de Antonellis 

al 50° Convegno di Civitella del Tronto (27 giugno 2020)




Gli Incontri Tradizionalisti di Civitella del Tronto sono nati, per iniziativa di Paolo Caucci von Saucken, cinquant’anni fa nel nome di Francisco Elías de Tejada (1917-1978). 
I campi di studio del pensatore ispanico si dipanarono in particolar modo in tre direzioni: filosofia del diritto, storia del pensiero politico, filosofia politica.

In quanto storico delle dottrine politiche, Francisco Elías de Tejada è legato al Regno di Napoli per la monumentale opera Nápoles hispánico: con questo lavoro, Francisco Elías de Tejada svolse una rilettura critica del pensiero politico cinque-seicentesco napolitano, dimostrando testi alla mano la straordinaria ricchezza della Napoli ispanica, non solo artistica ed architettonica, ma anche intellettuale, e smentendo la leggenda nera che avrebbe voluto i secoli XVI e XVII un periodo di oppressione e sudditanza culturale.

Alla traduzione integrale dei cinque volumi, promossa da Silvio Vitale e pubblicata con il titolo Napoli spagnola dall’editore Controcorrente [Napoli, 1999-2017], il gruppo tradizionalista napolitano, composto da ammiratori e seguaci del pensatore ispanico, ha voluto affiancare un sesto volume di indici [2019], arricchito da saggi di Miguel Ayuso, Maurizio Di Giovine, Giovanni Turco e Gianandrea de Antonellis, pubblicato nello stesso formato del resto dell’opera.

giovedì 11 giugno 2020

La formación del pensamiento político del Carlismo (1810-1875)

Alexandra Wilhelmsen, La formación del pensamiento político del Carlismo (1810-1875), Actas Historia, Madrid 19982, p. 616, s.i.p.


Il saggio di Alexandra Wilhelmsen, frutto di approfondite ricerche durate un ventennio, è un tentativo riuscito e brillante di sistematizzare l’ideologia della controrivoluzione spagnola nel lungo arco di tempo che intercorre tra le cortes di Cadice, da cui sfociò la Costituzione del 1812 e la fine della terza guerra carlista. Impostato cronologicamente, il saggio segue lo sviluppo del pensiero carlista: fin dall’occupa­zio­ne francese, ma soprattutto a partire dalla prima guerra carlista, i legittimisti spagnoli svilupparono il nucleo dottrinale elaborato dai monarchici tradizionalisti durante il regno di Ferdinando VII. Di fatto, non ne rifiutarono alcun punto di partenza, né aggiunsero alcun ulteriore concetto essenziale. Ciononostante, la sua ideologia non era predeterminata alla morte del monarca, poteva evolversi in direzioni diverse, e il passare del tempo ha solo accentuato alcuni passaggi, mentre altri venivano gradualmente dimenticati. Vale a dire che il nucleo dottrinario carlista fu ereditato dal realismo politico del tempo di Ferdinando VII e la questione successoria trovò in Don Carlos un difensore di quel pensiero tradizionale, molto diffuso in tutto il Paese, che, al tempo di Carlo VII, si era perfettamente sviluppato e dottrinalmente delineato lungo quasi mezzo secolo da generazioni di pensatori che individuarono quali elementi considerare fondamentali e quali accessori, nonché come adattare i postulati più importanti alle diverse situazioni politiche e sociali che si andavano a mano a mano delineando, traducendo in termini più concreti alcune idee eccessivamente astratte e mettendo in secondo piano elementi minori. Ciò avvenne in particolar modi quando, durante la terza guerra carlista, governò direttamente i territori della Spagna settentrionale.

venerdì 24 gennaio 2020

Intorno a Napoletanità di Gigi Di Fiore


Intorno a Napoletanità di Gigi Di Fiore


Gigi Di Fiore, Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele viaggio nell’anima di un popolo, UTET, Milano 2019, p. 382, € 18

Si inizia dalla constatazione di un paradosso: quanti scrittori ed artisti napoletani, magari passati alla storia come cantori della napoletanità, hanno preferito vivere lontano dalla propria città? «Si può essere napoletani, orgogliosi di esserlo, innamorati della città, ma trovare insopportabile viverci» (p. 12). È stato il caso – a cui Di Fiore dedica molto spazio – di Pino Daniele, che ha preferito trasferirsi prima a Formia e poi in un paese della Maremma, dove addirittura ha chiesto di essere sepolto; ma nei decenni è stato il caso di Totò, dei fratelli De Filippo, di Raffaele La Capria, di Riccardo Pazzaglia…
A quattro anni da La Nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista (Utet, Torino 2015), Gigi Di Fiore torna sul concetto di appartenenza al territorio e alla cultura napoletani e lo fa sottolineando la profonda differenza tra napoletanismo e napoletanità (o napoletaneria): il primo stereotipo deteriore, cui tanti si adeguano «per pigrizia e a volte per interesse» (p. 12); la seconda «l’orgoglio delle proprie radici e la coscienza di avere alle spalle una storia antica» (ibidem).
Per approfondire questa dicotomia, l’Autore ripercorre tre secoli di storia napoletana, partendo dall’arrivo di Carlo di Borbone (che sarebbe il caso di iniziare a chiamare direttamente Carlo VII di Napoli e V di Sicilia), ma non manca di accennare la fondamentale importanza dei due secoli precedenti, quelli passati in unione con la Spagna: un’unione tanto stretta «che le differenze tra i due centri [Napoli e Madrid] quasi non si distinguevano più» (p. 21).