Vaccinarsi, ma contro il virus dell’autodistruzione
È superfluo ricordare come nel dopoguerra, nella Penisola, i partiti si siano di fatto divisi gli ambiti di influenza in maniera netta: la cultura divenne appannaggio delle forze di sinistra (che così prepararono la loro ascesa), mentre la destra scelse la politica, come attraversata da una tendenza autolesionista. In un dibattito del 1981, Enrico Opocher (1914-2004) ha dichiarato che il paese non ha mai avuto «una destra decente»: segnalando che quella “presentabile” era al massimo una destra «puramente economica», orientata alla difesa di determinati interessi (Culture di destra, in «Schema», n. 7, settembre 1981). Già in quel confronto, però, è emerso come i linguaggi della destra e della sinistra talvolta si confondessero, e da almeno un decennio a questa parte c’è chi sostiene che le due categorie sono crollate e oramai superate (nel 1981 Carl Schmitt era letto da sinistra e ora Pasolini è reinterpretato da destra). Altresì, parlare di “sinistra” nei confronti dei movimenti politico-ideologici egemoni nell’odierna Europa e negli Stati Uniti non ha ormai senso, mentre va adottata la categoria del nuovo progressismo. È sopravvissuta però l’idea settaria di partito nella sua accezione moderna, quella che ha acquistato a partire dalla rivoluzione francese, con le società di pensiero: i “piccoli popoli politici” che identificò Elías de Tejada (cfr. Gianni Turco, Partito e Comunità, in «L’Alfiere», Dicembre 2019).
Gli esponenti del progressismo, coerentemente con il loro settarismo, hanno risolto in maniera semplice e rigida le contrapposizioni: chi “si comporta male” è un «fascista», termine svuotato a questo punto del suo originale significato e che attualmente designa tutti “i cattivi”. Non vi è quindi da stupirsi se in questi giorni, davanti alle proteste di piazza c’è chi accusa di fascismo tutti i manifestanti, nonostante tra essi vi sia potenzialmente chiunque (militanti di destra e di sinistra, lavoratori nazionali e stranieri), ripetendo ancora una volta che i movimenti di destra non hanno prodotto quasi mai una loro cultura originale, limitandosi a raccogliere impressioni esterne… in questo caso, ad esempio, quelle del filosofo Cacciari e di altri opinionisti. I progressisti non possono tacciare indistintamente una folla eterogenea di fascismo, né gli intellettuali a cui questa massa variegata (ipoteticamente) si rifà, ma possono dire che tutti coloro che protestano (intellettualmente o materialmente) sono, anche a loro insaputa, manovrati dalla destra. Di fatto è un atteggiamento complottista, ma da due anni la confusione regna sovrana...
Dopo questa lunga premessa,
chi scrive vorrebbe però esporre un’altra osservazione.
Sulla rete ci sono diverse fonti di “informazione alternativa al progressismo”,
alcune sono rodate e fino a qualche tempo fa offrivano dei discreti servizi con
cui valeva la pena confrontarsi: i temi trattati spaziavano dall’economia,
alle critiche al consumismo e al liberalismo, dai tentativi di analisi delle
nuove problematiche sociali alle condizioni dei lavoratori, fino alla storia,
tuttavia da quando è apparso il covid questi argomenti sono rapidamente passati
in secondo piano. Consigli bibliografici, rubriche di letteratura e notizie di
geopolitica sono state soppiantate.
Il Carlismo, che il presente sito cerca di divulgare, non si riconosce nella dialettica destra (conservatrice) - sinistra (innovatrice) nata con la rivoluzione dell’89, né nella logica partitica esposta poche righe fa e figlia del medesimo mutamento, ma i tradizionalisti non possono rinunciare a tentare di disingannare i conservatori, impegnandosi in un’azione di risveglio politico. L’epidemia ci ha gettati tutti nello sconforto e ci ha isolati, ciononostante non può essere l’unico argomento di ogni discussione.
È importante non abbassare la guardia, non distrarsi e non trascurare le altre (infinite) questioni del nostro presente: non si può essere monomaniaci, poiché ciò significa fare il gioco dell’avversario. Soprattutto, anche nel mezzo di una tempesta, non riflettere abbastanza e lasciarsi prendere dall’impulsività significa non conoscere i propri limiti, ed è un difetto grave, da cui la tradizione classico-cristiana ci ammonisce. Se nulla è certo, è più responsabile attendere e osservare, come impone il buonsenso.
Questo articoletto non pretende di spiegare nulla a nessuno, è solo un semplice consiglio affinché le voci fuori dal coro che ancora restano dignitosamente sul terreno non sprechino le loro poche forze digitali, editoriali e in generale comunicative per autodistruggersi, allontanando i lettori. Se il momento è grave, è ancora più importante mantenere l’autocontrollo e la lucidità, ponderando ogni affermazione.
Riccardo Pasqualin
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