martedì 30 luglio 2024

Alle origini della mentalità rivoluzionaria


Joseph de Maistre contro Lutero e Rousseau


Le cause prossime della rivoluzione francese furono sociali e politiche, ma le cause remote furono essenzialmente religiose. Questo assunto, sostenuto nella prima metà dell’800 dal Principe di Canosa e ribadito nel ’900 dallo studioso e filosofo tradizionalista Francisco Elías de Tejada e dall’intellettuale conservatore Plinio Corrêa de Oliveira, ha un antecedente in un breve saggio del 1798 di Joseph de Maistre, rimasto inedito durante la vota del suo autore: Sur le Protestantisme. Lo scrittore sabaudo coglie l’incompatibilità delle eresie luterana e calvinista con l’ordine tradizionale e definisce il protestantesimo come «l’ulcera funesta che colpisce tutte le sovranità e le erode inesorabilmente, il figlio dell’orgoglio, il padre dell’anarchia, il solvente universale» (p. 30). L’autore delle Serate di San Pietroburgo ripercorre il ruolo operato nella civiltà europea (o, meglio, cristiana) dal Cristianesimo, che si  sostituì all’impero romano senza però mai intenderne scalzare la sovranità; la vera Religione si è diffusa anche in Asia, pure qui senza stimolare alcuna ribellione (i martiri sono resistenti, non ribelli). Al contrario, il protestantesimo, fin dal nome, «è un misfatto, perché “protesta” contro tutto, non si sottomette a nulla, non crede a nulla e, se fa finta di credere a un libro, è perché un libro non dà fastidio a nessuno» (p. 33). Eresia civile, quindi, nonché religiosa, che combatte apertamente gli Stati cattolici, ma danneggia anche gli stessi Stati che la hanno adottata, come dimostrano le lotte intestine in Germania, Francia, Inghilterra… Il Conte sabaudo addirittura sembra accettare il concetto di legittimità di esercizio proprio del tradizionalismo ispanico (ed ignoto a quello europeo di matrice francese): «un Principe che si distacchi dalla fede, soprattutto in un momento di eccitazione e di fanatismo e soprattutto per abbracciare una religione incendiaria e anarchica che sta coprendo in quello stesso momento il Regno di cenere e di sangue, non dovrebbe rinunciare alla corona? E i suoi sudditi, senza fare una vera e propria rivoluzione, senza intaccare la sovranità e limitandosi a resistere al sovrano, non avrebbero il diritto di considerare l’atto del Re come un’abdicazione volontaria […]?» (p. 37).

Dopo le considerazioni teorico-generali, l’autore passa ad una analisi degli eventi contemporanei, imputando a Luigi XVI la colpa di aver conferito ai protestanti «tutti i diritti di cittadinanza» (p. 47). Mentre il suo avo Luigi XIV aveva combattuto gli ugonotti, revocando l’editto di Nantes, le concessioni del giovane sovrano avrebbero portato alla fine della monarchia ed alla morte sulla ghigliottina dello stesso Re e della Regina, essendo i rivoluzionari in gran parte esuli protestanti graziati dall’editto di Versailles (1788) emesso in deroga a quello di Fontainebleau (1685), che aveva invece revocato il permissivo editto di Nantes (1598). Il libero esame in ambito religioso ha portato al “diritto” di mettere in dubbio qualsiasi autorità: de Maistre non solo fa notare che, nella pratica, i rivoluzionari politici del XVII secolo hanno sempre elogiato quelli religiosi del XVI; ma addirittura afferma che «il protestantesimo è, in ultima analisi, nella realtà e alla lettera, il “sanculottismo” della religione. Il primo invoca la “parola” di Dio, l’altro i “diritti dell’uomo”, ma in realtà è la medesima teoria, lo stesso modo di agire e lo stesso risultato. Entrambi questi fratelli hanno frantumato la sovranità per distribuirla alla moltitudine» (p. 66).

L’altro testo, De l’état de Nature (1795 ca.), affronta il mito rousseauiano del “buon selvaggio” (purtroppo tornato recentemente di moda, grazie al fanatismo woke). L’autore estende il proprio scritto come critica al lavoro di Rousseau Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini (1755), al tempo molto diffuso nei circoli alla moda. In realtà tale opera non è altro, a parere del Savoiardo, che una serie di banalità e di luoghi comuni: l’intero scritto appare come «una risposta data nel delirio a una domanda posta nel sonno» (p. 76). A partire dal celebre passaggio secondo cui «il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: Questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici da crederlo, fu il vero fondatore della società civile», Joseph de Maistre passa in rassegna i punti salienti dello scrittore ginevrino, smontandoli uno per uno. Egli parte dal classico concetto aristotelico secondo il quale l’uomo è un “animale sociale” per natura, per cui non può darsi assenza di società; le critiche a quest’ultima in quanto causa di disuguaglianza sono pretestuose, perché essa provoca naturalmente disuguaglianza; inoltre la società e la proprietà sono nate ben prima che qualcuno recintasse un campo, perché sono sorte già prima dell’agricoltura, quando l’uomo era ancora nomade e cacciatore (e – sottolinea – sono ben presenti nelle società nomadi contemporanee, come quelle dei beduini del deserto, che non conoscono o comunque non praticano l’agricoltura). Vengono quindi sottolineate le contraddizioni in cui il pensatore svizzero incorre nel momento di enumerare le fasi di sviluppo della società; ma al di là di porre la scoperta della metallurgia e dell’agricoltura (quindi della tecnica) prima o dopo la creazione della magistratura – secondo Rousseau ci sarebbe stato un tempo in cui gli uomini vivevano «liberi, buoni, sani e felici» (p. 79) con leggi, ma senza magistrati – e comunque dopo la creazione della famiglia (che Jean-Jacques definisce addirittura «primo giogo e la prima fonte dei mali», ibid.), tutto il pensiero rousseauiano appare privo di consistenza: quando afferma che la terza epoca è quella in cui il potere legittimo si trasforma in potere arbitrario, de Maistre ribatte che «qui la distrazione di Rousseau aumenta al punto di confondere il progresso del genere umano nel suo complesso con il progresso delle singole nazioni. Egli considera l’intero genere umano come una sola nazione e lo descrive in un processo di elevazione dalla “animalità” alla capanna, dalla capanna alle leggi e alla proprietà, dalle leggi alla metallurgia o alla magistratura e dal governo legittimo al dispotismo. […] Quando ci si propone di confutare Rousseau è meno facile provare che ha torto che non piuttosto che non sa che cosa vuole provare […]. In sostanza, egli sostiene che la società è cattiva e che l’uomo non è fatto per vivere in questa condizione. Ma se gli si domanda qual è la condizione per cui è fatto, allora non sa che cosa rispondere oppure risponde senza capirsi» (p. 81). 

Concretamente, la migliore soluzione secondo Rousseau sarebbe lo stato dei selvaggi, con il terrore della vendetta a tener luogo delle leggi.

E così de Maistre procede, confutando punto per punto le sviolinate sul “buon selvaggio”. La stroncatura, insomma, è completa (e godibile). Rimane il dubbio di come tante persone (sedicenti) di cultura abbiano potuto rimanere abbindolate dalle banalità (o assurdità) del Ginevrino, fautore in buona sostanza di un regresso dell’uomo allo stadio dell’animalità. Un risultato che ai nostri tempi purtroppo si sta raggiungendo sempre più, con l’esaltazione e l’imitazione delle culture tribali o derivate, come testimoniano le dilaganti mode, dai piercing ai tatuaggi, dalle treccine “afro” al rap, dai murales alla Pachamama (che fa pendant con l’esaltazione di Lutero, e il cerchio si chiude…).

Il doppio saggio di Joseph de Maistre risulta quindi di estremo interesse e vale la pena metterlo a fianco delle sue opere più conosciute. Il prezioso volume è curato da Oscar Sanguinetti (che firma anche la Premessa) e da Ignazio Cantoni, a cui si devono le introduzioni ai testi e il profilo biografico dell’Autore (p. 131-153) che chiude il libro.

Luigi Vinciguerra


Joseph de MaistreAlle origini della mentalità rivoluzionaria. Scritti sul protestantesimo e sullo “stato di natura”, D’Ettoris, Crotone 2024, p. 160, € 17,90

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