Il calzolaio di Finisterre
Un (bel) romanzo per comprendere la storia della guerra civile spagnola (e non solo)
Nella Penisola italica molti conoscono (di solito assai
male) la storia della guerra civile spagnola. A quasi nessuno invece è nota la
cosiddetta “Rivoluzione delle Asturie”, che nel 1934 vide unite le forze della
sinistra anarchica, comunista, socialista asturiana con l’obiettivo di abolire
la Costituzione Repubblicana del 1931 ed instaurare un regime bolscevico.
Risultato: 1.400 morti e 1.000 edifici distrutti.
Quanto alla guerra civile, di solito la si crede una conseguenza di un colpo di Stato di tipo fascista, ordito per rovesciare il legittimo e pacifico governo democratico, golpe fallito e quindi trascinatosi in tre lunghi anni di guerra, vinta grazie all’aiuto della Germania nazista e dell’Italia fascista. Quello che viene taciuto è che il “legittimo e pacifico governo democratico” assisteva complice al tentativo di sovietizzare la Spagna, attraverso l’eliminazione fisica degli avversari e soprattutto il tentativo di cancellare del tutto la religione cattolica e la cultura tradizionale (attuando la distruzione di chiese, di conventi, di biblioteche, il martirio di migliaia di sacerdoti, suore e laici credenti). «Tutti i conventi di Madrid non valgono la vita di un repubblicano», affermò il presidente della Repubblica Manuel Azaña, quando gli chiesero di mandare la forza pubblica ad impedire i roghi delle chiese ed egli impartì l’ordine che essa si limitasse a difendere dalle ritorsioni i criminali che avevano appiccato gli incendi: ogni edificio religioso, ogni scuola cattolica era vista come un centro di potenziale diffusione di idee contrarie alla rivoluzione proletaria e come tale dovevano essere distrutti. All’attacco alla Chiesa si affiancava quello alla proprietà privata, con occupazione di terre, il saccheggio di palazzi, il rapimento a scopo di estorsione di capi di famiglia benestanti, la costante violenta intimidazione degli avversari. Questa la “vita quotidiana ai tempi della seconda repubblica”, contro la quale insorse non un colpo di Stato fascista (la Falange Española di José Primo de Rivera, unico movimento di ispirazione fascista, peraltro molto temperato dal cattolicesimo, era assolutamente minoritario), bensì una vera controrivoluzione, alla cui radice si trovavano i Carlisti (le milizie volontarie paramilitari dei Requetés e il generale in esilio José Sanjurjo) e alla quale Francisco Franco aderì solo all’ultimo momento.
Esistono romanzi storici, saggi storici romanzati (come
il bellissimo La conquista del Sud di Carlo Alianello) e saggi storici
“travestiti” da romanzo (l’interessante studio dedicato alla controrivoluzione
di Lugo di Romagna, Gli Insorgenti di Francesco Mario Agnoli, ad
esempio). Il calzolaio di Finisterre, pur partendo dichiaratamente da un
intento educativo, conscio come è l’autore delle colpevoli manchevolezze
(ovvero: falsificazioni) nella descrizione della guerra civile spagnola nella
scuola degli Italiani, riesce ad essere non un saggio romanzato, bensì un
romanzo vero e proprio, dotato di una trama autonoma (in cui un posto
importante occupa il complesso rapporto tra il protagonista eponimo e suo
padre), che però si lega strettamente alle vicende storiche spagnole.
L’autore, che si è approfonditamente documentato
(notevole la bibliografia finale sull’argomento politico), coglie la reale
essenza dello scontro bellico (non una contrapposizione politica
destra/sinistra o fascismi/comunismo, bensì quella ben più elevata e generale
ordine/rivoluzione: la Spagna tradizionale che si ribella agli abusi e alle
ingiuste pretese della Spagna progressista. Si legga, ad esempio, il seguente
passaggio: «Più vado avanti e più capisco che non c’è molta differenza tra voi [liberali
anglosassoni] e i socialisti europei, quelli che vogliono impiantare il
comunismo anche in Spagna. Voi minacciate la tradizione, la famiglia, la
proprietà come loro. La tradizione perché tendete a cancellare l’identità dei
popoli, la famiglia perché per voi è solo un contratto, la proprietà perché
volete un brutale statalismo dove tutto si centralizza, si pianifica, si
artificializza, si tirannizza!» (cap. 154).
E Cattaneo coglie un altro elemento cardine: l’enorme
capacità di gestire la propaganda, che ha portato i progressisti, sconfitti in
guerra, a vincere il dopoguerra (si pensi alla situazione attuale, frutto delle
sue decisioni di apertura al liberalismo). Questo fin dalla sconfitta militare
della Rivoluzione delle Asturie nel 1834, prova generale locale della rivoluzione
bolscevica nazionale del 1936 stroncata dall’Alzamiento. Si legga ad
esempio questo passaggio: «Le sinistre erano riuscite a trasformare il loro
attentato contro la legalità, contro la Repubblica e contro la Costituzione che
loro stessi avevano redatto, come un punto di forza. Avevano appreso bene dai
bolscevichi l’arte della propaganda! Gli stessi che avevano voluto la
Repubblica avevano scatenato una drammatica rivoluzione costata quasi 1400
morti e la distruzione di mille edifici! Eppure, in poco tempo, erano riusciti
a fare di questa sconfitta il loro cavallo di battaglia. Loro che volevano una
rivoluzione per instaurare il comunismo, si erano trasformati nei difensori
della Spagna contro il fascismo. Un fascismo che in Spagna non esisteva o se
esisteva era sostenuto da gruppuscoli della Falange, numericamente
insignificanti» (cap. 149).
Eppure le distruzioni rivoluzionarie, finalizzate a
rendere la Spagna una tabula rasa sulla quale creare la repubblica dei
soviet, erano sotto gli occhi di tutti: «Quanti retabli antichi […], quante
statue anonime medioevali senza prezzo, quanti El Greco, Velazquez, Raffaello,
quanti Tiziano dovevano essere distrutti, quante chiese, alcune dichiarate
monumenti nazionali come Santa Maria de Elche, e libri centenari dovevano
ardere in mezzo all’indifferenza delle autorità? Quanti sacerdoti e religiosi
dovevano ancora morire? Quanti amici…? Il patrimonio storico e culturale del
paese rischiava di scomparire del tutto, il patrimonio di vite offerte per l’educazione
e il bene delle anime era minacciato… e i politici repubblicani e socialisti
erano uniti nel ritenere questi attacchi come atti di giustizia del popolo!» (cap.
150)
Del resto, il sistema democratico-liberale e quello
liberal-repubblicano (di cui il governo social-comunista fronte-populista fu la
naturale conseguenza) non ha mai funzionato: «Dalla morte di Ferdinando VII
alla detronizzazione di Isabella II, nel 1868, abbiamo avuto, in trentacinque
anni, 41 governi, due guerre civili, due Reggenze e una regina detronizzata,
tre nuove costituzioni, quindici sollevazioni militari, ripetute mattanze di
frati, saccheggi, rappresaglie e persecuzioni contro la Chiesa, un attentato
contro la Regina, due sollevamenti a Cuba… un vero paradiso!
Dalla detronizzazione di Isabella II a don Alfonso XII,
in trentaquattro anni, 27 governi, un Re straniero che durò due anni, una
Repubblica che durò undici mesi in cui si sono succeduti quattro Presidenti,
una guerra civile, l’ultima guerra carlista, varie rivoluzioni di carattere
repubblicano, una guerra con gli Stati Uniti, la perdita delle ultime due
colonie, due presidenti del governo assassinati e due nuove Costituzioni.
Dall’incoronazione di Alfonso XIII al 14 aprile 1931,
periodo in cui la Spagna, rovinata e disarmata, ha condotto una vita un po’ più
tranquilla, ci sono stati in ventotto anni, 29 Governi, due presidenti
assassinati, tre attentati contro il re, vari movimenti rivoluzionari e la
proclamazione della dittatura. I sette anni di dittatura di Primo de Rivera
sono stati l’unica vera parentesi di pace, ordine e progresso. Subito dopo di
essa è avvenuta la detronizzazione del re e l’affossamento della nostra
monarchia secolare. E gli ultimi tre anni di Repubblica non hanno bisogno di
molti altri commenti. C’è poca stabilità» (cap. 109).
Notevole il riferimento
iniziale alla morte di Ferdinando VII, che violò la legge fondamentale del
Regno per imporre sua figlia Isabella (II) al posto del legittimo fratello
Carlo V, dando così origine alla prima guerra carlista: ed il Carlismo, che
nasce per difendere la Tradizione contro gli assalti del liberalismo (che
sosteneva la debole Isabella – o almeno la avrebbe sostenuta fino a quando gli
fosse convenuto) e non solo per una – secondaria – questione dinastica, è il
grande assente dal romanzo di Maximiliano Cattaneo. Eppure i suoi principi non sono ignoti all’autore, che riporta con precisione – pur senza citare la fonte – l’insegnamento di uno dei massimi pensatori carlisti del Novecento, Francisco Elías de Tejada (1917-1978). Si tratta del concetto delle cinque successive rotture che hanno portato dalla Cristianità medioevale all’Europa moderna: la rottura religiosa dovuta a Lutero, quella etica a Machiavelli, quella politica a Bodin, quella filosofica a Grozio ed Hobbes, quella sociologica ai trattati di Westfalia; tale concetto è messo in bocca ad un massone che tiene un discorso in una loggia (cfr. cap. 73), ma di esso non viene rivelata la fonte nemmeno nel capitolo bibliografico finale Verità o finzione.
Alla difficilmente comprensibile assenza del Carlismo si
contrappone la quasi-agiografia di Francisco Franco, dovuta certo alla lettura
del saggio di padre Manuel Garrido Bonaño, Francisco Franco. Cristiano
esemplare (Effedieffe, 2014), che dà del generale spagnolo un ritratto che
cozza con altri racconti e con l’accusa di scarsa lungimiranza politica,
evidenziata dallo stesso Cattaneo nella scena in cui, ai militari che gli
chiedono di unirsi ad un pronunciamiento nell’ottobre del 1934, il futuro Caudillo risponde:
«Signori, ora il Paese è fuori pericolo, le Istituzioni sono ancora al loro
posto, non esiste quindi una giusta causa o una durevole minaccia. Infine,
tenete bene a mente che molti generali sono fedeli alla Repubblica, pensateci
bene prima di provocare una guerra civile e una nuova carneficina. Non sarebbe
affatto scontata la vittoria. In un modo o nell’altro si è imposta la
Repubblica e non la si può cambiare per capriccio o nostalgia. Anche a me non
piace, ma ormai c’è e il mio compito, come militare, […] è di mantenere l’ordine
e la sicurezza nel paese, non stravolgere le istituzioni. Signori, io non
faccio politica, non l’ho mai fatta. Farò finta che questa conversazione non
sia mai avvenuta. Sappiate solo che se doveste fare qualche mossa azzardata, mi
trovereste come nemico, non come alleato […]» (cap. 138). Basterebbe questa
presa di posizione per far comprendere quale fosse la sua miopia politica, tale
da impedirgli di comprendere che un pronunciamento militare nel 1934 – con il
parlamento a maggioranza conservatrice – avrebbe forse evitato una disastrosa
guerra civile. Una miopia politica che lo avrebbe portato, una volta vinta la
guerra civile, a perdere il dopoguerra, allontanando i Carlisti che lo avevano
aiutato in maniera sostanziale; scegliendo per motivi di opportunità Juan Carlos,
anziché il legittimo Saverio I; e infine affidando il potere ai liberali
democristiani, ponendo le basi della degenerazione che, in pochi decenni, ha
portato all’attuale sfacelo, con un governo (nuovamente) social-comunista che è
la diretta conseguenza delle scellerate scelte politiche del Caudillo.
In conclusione: un romanzo che, nonostante la lunghezza,
si legge con piacere, che risulta avvincente ed educativo, ma che purtroppo,
pur volendo difendere la Tradizione, omette di parlare dei principali suoi sostenitori:
i Carlisti.
Gianandrea de Antonellis
Maximiliano Cattaneo, Il calzolaio di Finisterre, Fede&Cultura, Verona 2020, p. 688, € 25
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