giovedì 30 ottobre 2025

“Mil ojos esconde la noche” di Juan Manuel de Prada

I. La ciudad sin luz 
II. Cárcel de tinieblas

Juan Manuel de Prada (Baracaldo, 1970), è senza dubbio uno dei massimi autori del nuovo secolo, da decenni riconosciuto come tale anche da scrittori come Arturo Pérez-Reverte, membro della Real Academia Española, che ha definito Las máscaras del héroe (1996) «il miglior romanzo spagnolo degli ultimi vent’anni» (Sobre Borges y sobre gilipollas, 31 gennaio 2000), dopo aver avuto parole di elogio per i sui esordi («romanziere di qualità superiore» (Un novelista de pata negra, in «El Semanal», 28 ottobre 1996) e come il regista Alex de la Iglesia, che proprio parlando di questo suo ultimo libro ha affermato che è «divertente e si legge in un niente, nonostante le sue 800 pagine, perché è scritto da quello che ritengo il miglior scrittore spagnolo attuale», paragonando Mil ojos esconde la noche ad alcuni film di Scorsese.

Nato in Biscaglia e cresciuto a Zamora, giornalista di spicco (collabora continuativamente con il quotidiano ABC ed il settimanale culturale «XL», Juan Manuel de Prada ha condotto per anni Lágrimas en la lluvia, forse la migliore trasmissione culturale dell’intera storia della televisione (non solo spagnola), caratterizzata da un palinsesto che prevedeva il dibattito su un tema predefinito da parte di quattro autorevoli studiosi, dopo la visione di un film in tema con l’argomento scelto. La trasmissione era in diretta differita, quantunque possa sembrare incredibile nel rivedere le registrazioni, perché – a differenza degli usuali dibattiti televisivi contrassegnati da una costante gazzarra – imperava un assoluto rispetto da parte di tutti i partecipanti, nonostante le posizioni avverse.

Scrittore raffinatissimo, caratterizzato da uno stile molto personale, definito “neobarocco” (in particolare utilizza un numero di vocaboli molto superiore a quello della media degli scrittori contemporanei), “esperpentico” (uno stile nato nella Spagna del Siglo de oro con Francisco de Quevedo e riproposto negli anni Venti dello scorso secolo da Ramón del Valle-Inclán, che si potrebbe tradurre alla lontana con “grottesco”) e “tremendista” (più o meno traducibile con “granghignolesco”), creatore di affascinanti neologismi, Manuel de Prada nei suoi interventi giornalistici ha difeso la filosofia perenne, avendo il coraggio di indicare – tra gli altri – Aristotele, la Bibbia e San Tommaso d’Aquino come fonti d’ispirazione. Non a caso, una sua recente raccolta di saggi, si intitola emblematicamente Critica alla totalità. Il pensiero tradizionale contro le ideologie moderne (Una enmienda a la totalidad. El pensamiento tradicional contra las ideologías modernas, 2021).

Tra le sue opere di narrativa (ma anche gli scritti saggistici e gli stessi articoli giornalistici sono sempre caratterizzati da un sapore letterario) vanno annoverati i romanzi La tempestad (1997), Las esquinas del aire: en busca de Ana María Martínez Sagi (2000), La vida invisible (2003), El séptimo velo (2007), Me hallará la muerte (2012), vincitori di premi letterari e spesso tradotti in italiano: Il silenzio del pattinatore (E/O, 2002), Le maschere dell’eroe (E/O, 2000), La tempesta (E/O, 1998 e 2001), Gli angoli dell’aria. Alla ricerca di Ana Maria Martinez Sagi (E/O, 2001), La vita invisibile (E/O, 2006), Il settimo velo (Longanesi, 2008; TEA, 2010).

Tra i suoi romanzi più recenti – che meriterebbero una traduzione – vanno menzionati El castillo de diamante (2015), sulla vita di Santa Teresa d’Ávila, e Morir bajo tu cielo (Morire sotto il tuo cielo, 2014), sugli “ultimi delle Filippine”, cioè i cinquantuno eroi del distaccamento asserragliato nella chiesa del villaggio di Baler, nell’isola di Luzón, che resistettero per 337 giorni (1° luglio 1898 – 2 giugno 1899) all’assedio della preponderante forza dei ribelli filippini (800 uomini). Come a Civitella del Tronto nel 1861, il comandante, privo di contatti con il mondo esterno, non volle credere alla notizia che la Spagna avesse capitolato e continuò a combattere, provocando circa 700 morti tra gli assedianti e limitando le proprie perdite a 17 uomini.

Venendo a Mil ojos esconde la noche, va detto che si legge con continuo godimento e trasporto, nonostante la lunghezza, che ha spinto l’editore a pubblicare il monumentale romanzo in due parti (La ciudad sin luz nel 2024 e Cárcel de tinieblas nel 2025); l’intero lavoro consta di 1.600 pagine complessive originariamente scritte – udite, udite! – a mano usando carta riciclata (nel senso del dorso di documenti vari: esistono alcune fotografie a confermare la veridicità di questa asserzione). Afferma il medesimo autore: «Non è lo stesso scrivere a mano su carta, impugnando la penna, che farlo su uno schermo, mediante il soave ticchettio di una tastiera, con un computer. Quando uno scrive a mano, le parole palpitano ed esultano, vibrano e si legano, si sposano e fecondano in una maniera diversa e più intensa; in una maniera che alcuni forse noteranno, leggendo Mil ojos esconde la noche. Ma il problema di scrivere a mano è che dopo bisogna ribattere lo scritto, perché nelle case editrici ormai sono andati in pensione quei tipografi che un tempo decifravano (e a volte miglioravano) i manoscritti dei nostri classici». Una impresa che in questo caso è stata portata a termine dal padre dello scrittore, il quale «può essere legittimamente considerato come autore consorte».

Riguardo al contenuto dell’opera, va innanzitutto specificato che Mil ojos esconde la noche pur non essendo strettamente la continuazione de Le maschere dell’eroe, ne condivide l’io narrante, Fernando Navales (un personaggio che si potrebbe definire brutto, sentimentale ed – almeno inizialmente – ateo, a similitudine del marchese di Bradomín, l’eroe ricorrente dei romanzi di Valle-Inclán, che si definiva feo, sentimental y católico: in quanto al primo aggettivo, lo stesso Navales si paragona – per le fattezze del volto, non per l’altezza – a Piéral, l’attore nano che appare, tra l’altro, come compagno di Fernando Rey nel viaggio in treno che funge da cornice alla narrazione di Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel).

Ve detto che esiste una cesura tra il Navales delle Maschere dell’eroe, che muore con infamia e senza lode nel 1942, esplicitamente declassato dall’autore nelle ultime pagine a mero narratore – il vero protagonista, cui spetta un crescendo all’interno del romanzo, è il bohemienne Pedro Luis de Gálvez [1882-1940] – e il Navales de Mil ojos esconde la noche, che attraversa indenne l’intera seconda guerra mondiale: non abbiamo più un opportunista che casualmente si è trovato all’interno della Falange di José Antonio Primo de Rivera, bensì un falangista convinto, fortemente critico per la politica moderata (che ironicamente definisce nazional-seminarismo) imposta dal disprezzato Franco.

Una parentesi: Francisco Franco, va ricordato – o forse spiegato – non era affatto un falangista (o un fascista) né un tradizionalista, bensì un militare interessato esclusivamente alla propria carriera, indifferente tanto alla Monarchia quanto alla Repubblica, privo di una particolare ideologia propria; un conservatore che si seppe adattare alla situazione e, soprattutto, seppe mantenere a lungo il potere assoluto, inizialmente conferitogli solo per il periodo bellico, dimostrando un attaccamento alla poltrona degno del “miglior” Andreotti. Insomma, un perfetto democristiano: l’epiteto di nazional-seminarista, quindi gli si addice benissimo. Chiusa parentesi.

Tornando al romanzo, esso si apre nel 1940 (gli anni dal 1940 al 1944 scandiscono le sezioni dei due libri), nella Parigi occupata dai Tedeschi, la ville lumière priva di luce del titolo, e Fernando Navales viene incaricato dall’ambasciata di Spagna di avvicinare i dissidenti spagnoli che dopo la guerra civile si sono rifugiati nella capitale francese per convincerli a collaborare con una associazione artistica ufficialmente promossa, a fini di riappacificamento, dal nuovo regime di Madrid e dai vertici della Falange.

Navales contatta quindi i vari artisti ed uomini di cultura espatriati, nel tentativo di una “riconciliazione nazionale” che (per il momento, cioè almeno finché l’Asse sembra invincibile) riesce perché vari dissidenti desiderano accumulare benemerenze per rientrare in patria, per la gloria di essere considerati grandi oppure, più semplicemente, per sbarcare il lunario. Il protagonista offre collaborazioni a (o citazioni su) giornali di spicco (ma per scrivere o per essere elogiati sui quali bisogna ufficialmente schierarsi), come il celebre (o famigerato) Je suis partout; la possibilità di lavorare nelle accoglienti sale della accademia ufficiale spagnola, anziché in squallide soffitte non riscaldate; di avere a disposizione materiali (tele, pennelli, colori) e modelle; di ricevere interessanti sovvenzioni tramite l’ufficio di propaganda tedesco (vale a dire da Goebbels), anch’esso interessato a creare un ambiente di pacificazione culturale volto a giustificare il regime di occupazione.

Numerosi sono i personaggi reali che il falangista incontra e che cerca di attrarre alla propria causa: giornalisti e critici (César González-Ruano, Sebastià Gasch), attrici e ballerine (María Casares, Ana de Pombo), disegnatori (Carles Fontserè), pittori (Óscar Domínguez, Manuel Viola), scultori (Mateo Hernández), pensatori (l’endocrinologo e filosofo Gregorio Marañón)… Molti di questi nomi risultano poco noti al pubblico italiano medio, ma si è spinti a leggere le loro biografie (o almeno le pagine enciclopediche a loro dedicate), non fosse altro che per assicurarsi che siano realmente esistiti (come altri personaggi del corpo diplomatico o della polizia politica: Pedro Urraca, José Félix de Lequerica e Bernardo Rolland), per non parlare di Pilar Primo de Rivera (sorella di José Antonio) o di Ramón Serrano Súñer (cognato del generalissimo e perciò indicato come il Cognatissimo).

Sicuramente non ha invece bisogno di ricerche la figura di Picasso, sul quale Juan Manuel de Prada scrive pagine memorabilmente deliziose in cui smonta il ritratto di artista eccelso, svelandone la natura narcisistica e riducendolo a “pintamonas” (imbrattatele), pur riconoscendone la straordinaria abilità di trasformare in oro quanto tocca, pronto a sfruttare il dubbio gusto dei suoi ammiratori e ad approfittare di qualsiasi occasione per far soldi, anche mettendosi d’accordo con un bravo falsario ed autorizzandolo a diffondere sue imitazioni come autentiche, purché gli versi il 50% degli introiti…

Calunnie letterarie, falsificazioni novellistiche? L’autore lo nega, ricordando il proprio profondo studio archivistico sull’ambiente della comunità spagnola residente a Parigi; e in particolare, sull’“imbrattatele” di Malaga, afferma: «Su Pablo Picasso abbiamo letto tutte le biografie, le agiografie e le demonografie possibili e immaginabili, tanto da farci un’opinione su un personaggio tanto degno di fama e di infamia».

Naturalmente, Navales non riesce (ma a dire la verità, non lo tenta nemmeno) a convincere Picasso ad entrare nell’accademia “ufficiale” della Spagna franchista: troppo ricco (conserva vari lingotti d’oro in casa) per accettare sussidi, troppo internazionale per essere interessato a tornare in patria, troppo famoso per necessitare protezione (i Tedeschi hanno l’ordine di non torcergli un capello). Ma soprattutto troppo pieno di sé per mettersi alla pari di altri artisti.

Memorabile il secondo incontro con il pittore cubista (1941, VII): «Impetrai udienza a Sabartés, il cerbero innamorato di Picasso, che me la concesse per la mattina della Domenica di Pasqua, perché l’imbrattatele non osservava le feste (o, più precisamente, si considerava un dio tarchiato a cui consacrarle tutte)».

Al colloquio è presente anche Ernst Jünger, allora capitano della Wermacht di stanza a Parigi, venuto a riverire «il genio dell’arte internazionale». Annoiato dalle banalità sulle bellezze parigine profuse dallo scrittore tedesco mentre aspettano (il suddetto «genio» si diverte a far fare loro anticamera), Navales commenta tra sé e sé: «Tutto il repertorio arcinoto, insomma, dei barbari del Nord, sommersi dalla nebbia, di fronte ai frutti della luce latina». Finalmente vengono ricevuti e «l’uomo più famoso del mondo» (parola di Jünger!) si presenta

in calzoni corti, con una mappa dettagliatissima delle sue ultime minzioni sulla patta. […] Dopo essersi grattato lo scroto, si annusò la mano con piacere, prima di stringere quella del capitan Jünger, che trattava, non so se umoristicamente, da gloria delle lettere tedesche. Anche Jünger si annusò la mano dopo averla stretta a Picasso, con gesto di rassegnato disgusto, come chi deve ingoiare una brodaglia esotica, per non sembrare scortese al suo ospite giunto da qualche remota selva.

E quando il Tedesco si lancia in un’altisonante interpretazione di Guernica,

Picasso gli sgonfiò il sufflè dell’entusiasmo lirico, prima che traboccasse:

– Va bene, va bene; cerchiamo di non esagerare, altrimenti mi scoppiano le emorroidi. Sulla mia Guernica sono state fatte tutte le interpretazioni possibili e tutte mi sembrano meravigliose. Ma la verità è che, dato che non avevo letto niente sul celebre bombardamento, che non conoscevo né Guernica, né nulla di nulla, non sapevo come affrontare l’incarico che mi era stato assegnato. Allora il poeta Juan Larrea mi disse: «Pablo, tu hai sempre avuto una predilezione per la corrida. Immaginati, quindi, un toro che entra nell’arena, che viene infilzato da una marea di colpi di lancia e di banderillas infuocate, che riesce a scappare dalla plaza de toros furioso e insanguinato. Sbattendo a terra tutto ciò che incontra davanti a sé, entra in un negozio di porcellana, e lo distrugge, facendolo a pezzi. Capisci? È questo che avviene in un bombardamento». Ed è questo quello che ho dipinto: una corrida finita male, con il cavallo del picador imbizzarrito, il matador a terra, la sua cuadrilla impegnata nel quite e il toro che sta investendo una donna con il suo bambino. Né più né meno.

E dato che il capitan Jünger era rimasto in parte attonito e in parte intimorito dalla risposta bestiale e dal fragore dello scoppio di risa che la aveva accolta, Picasso gli batté sulla spalla, come se avesse voluto riaprirgli le cicatrici che si era guadagnato nella precedente guerra.

Questo passaggio, con tanto di citazione da Nelle tempeste di acciaio (in cui Jünger enumera le ferite ricevute, contando però solo i “fori di entrata” dei proiettili nemici ed escludendo quelli di uscita) è solo un assaggio dello stile esperpentico di Juan Manuel de Prada, della sua eccezionale capacità di scrittore, del suo modo di riscrivere la storia e di creare una trama affascinante.

Il primo volume si chiude con un finale che spiazza il lettore: il cattivissimo Fernando Navales inizia un percorso di redenzione, che negli anni successivi lo porterà ad abbandonare il proprio cinismo e a mettere a disposizione del bene il potere di cui dispone: dal favorire l’espatrio di bambini ebrei al non denunciare un personaggio compromesso con la Repubblica, della cui cattura – finalizzata a forzare Franco a scendere in guerra – i Tedeschi lo hanno incaricato, non rivelandone nemmeno sotto tortura il domicilio.

Non manca anche nella seconda parte un riferimento al “divino” Picasso, che apprezzando una fanciulla molto avvenente, afferma: «Per creare qualcosa di così bello, Dio ha dovuto essere qualcuno molto simile a me» [1944, IV], stimolando il sarcastico giudizio di Novales, che giudicando un preteso dramma dell’imbrattatele, commenta: «Questo Picasso, senza dubbio, è un genio del Rinascimento, uno scrittore tanto grande quanto vale come pittore». Ma se nel primo volume si incontrava un gran numero di pittori, nel secondo un notevole spazio è lasciato al cinema di Vichy: il protagonista assiste, tra le varie proiezioni, a quelle de L’amore e il diavolo (Les visiteurs du soir, 1942), Il corvo (Le corbeau, 1943), L’immortale leggenda (L’éternel retour, 1943); presenzia alla realizzazione di Perfidia (Les Dames du bois de Boulogne) o segue quella di Amanti perduti (Les Enfants du paradis – questi ultimi due usciti però entrambi nel 1945), in cui recita la spagnola María Casarès (1922-1996), tra le poche personalità dello spettacolo che Novales non è riuscito mai a coinvolgere nel suo progetto falangista. Il libro diventa così (anche) uno stimolo a (ri)vedere alcune interessanti pellicole storiche.

Non potevano mancare all’elenco delle conoscenze di Novales gli scrittori francesi più politicamente attivi: Lucien Rebatet (1903-1972), Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945, suicida al termine della guerra, ma non per questioni strettamente politiche) e Robert Brasillac (1909-1945, l’unico scrittore collaborazionista ad essere stato condannato a morte). E, a proprosito di scrittori “impegnati”, se il “mostro sacro” demolito nella prima parte del romanzo era stato Picasso, nella seconda una sorte simile (ma con più benevolenza, anche visto il cambiamento di atteggiamento del protagonista) è il malaticcio Albert Camus, preteso membro della Resistenza, di cui la citata María Casarès si innamora perdutamente (complice anche la sua debolezza per le rughe agli occhi!), certa che per lei lo scrittore franco-algerino lascerà la moglie:

«Il problema è che Albert ha lasciato ad Algeri una graziosa mogliettina che spera di ricongiungersi con il marito non appena la guerra sarà finita», ammise, con una specie di moderato dispetto. «Lui vuole che andiamo in esilio insieme in Messico, ma io vorrei continuare la mia carriera in Francia…».

Sospettai che lo volesse fare anche Camus; e che la proposta di quell’improbabile esilio in Messico non fosse altro che una boutade o una promessa da marinaio che quel partigiano dell’ultima ora tirava fuori dalla manica per ingannare Vitoliña [María Casarès] e avvolgerla nella sua nube di bacilli di Koch, mentre menava il can per l’aia. Mi dispiaceva che, alla fine, dopo essersi sbarazzata di tanti pretendenti più o meno testardi, Vitoliña finisse per trasformarsi nella concubina di un adultero, non importa quanto contornato di presunto genio letterario, di Resistenza da salotto e di zampe di gallina agli occhi, buone solo da mettere nello brodo. Ma Vitoliña aveva voluto infranciosarsi a tutti i costi; e in Francia non c’è istituzione così profondamente radicata come l’adulterio, che fino al XVIII secolo era goduto solo dalla nobiltà più danarosa e che, con la Rivoluzione, la borghesia risentita trasformò in un’istituzione pienamente nazionale, alla quale poteva finalmente avere accesso la gente comune (che, però, non poteva accedere ai beni della nobiltà, accaparrata dalla borghesia rivoluzionaria). La Francia, in realtà, non era altro che un allevamento ittico di adulteri che piluccavano un bocconcino, per dimostrare al loggione la propria adesione ai principi rivoluzionari; e Vitoliña, divenuta franciosa, aveva irrimediabilmente accettato la sua condanna.

 Non stupisca la ripetizione di alcuni vocaboli: è un tratto del barocchismo dell’Autore, che ricorda anche il d’Annunzio (altro romanziere a cui per alcuni versi può essere, mutatis mutandis, accostato) del Trionfo della Morte, in particolar modo per la ripetizione – come un vero e proprio Leitmotive wagneriano, nel caso dello scrittore pescarese, qui come semplice tema ripetuto – di alcune frasi o concetti. Ad esempio, le ricorrenti citazioni (quasi trenta) del saggio su Tiberio di Gregorio Marañón, a proposito del risentimento, atteggiamento che caratterizza decisamente il protagonista. Eccolo alle prese con un violento sfogo verso gli artisti che – ben sistematisi a Parigi e avendo fiutato il cambio della situazione bellica – non desiderano più mischiare il proprio nome con quello della Falange e rifiutano di partecipare a una esposizione da essa promossa:

Appena arrivato a casa, con il bosco ossidato di Vincennes in lontananza, come in un autunno funebre, le mie dita si precipitarono in una pioggia di insidie e delazioni sui tasti della mia Olivetti, che cominciarono a tintinnare come una grandinata di stelle morte sulla carta, ogni lettera come uno sputo di sangue nero, ogni parola come un vomito di una infausta notte, ogni frase come un pugnale dal filo avvelenato, lasciando sulla levigatezza della carta un bassorilievo di tradimenti e false accuse, come un’improvvisa ondata di odio, senza abbellimenti formali o figure retoriche, spogliato di tutti i tratti del mio stile, che improvvisamente mi risultavano un’inutile ampollosità, perché il linguaggio è essenzialmente bello soltanto quando accusa, quando condanna, quando ferisce, quando uccide. Il resto sono chiacchiere e sprechi da dilettante, scrittura superflua del cuore, estetismo vano. [1943, XII]

Non è solo risentimento per il mancato successo “politico”: è anche disprezzo verso l’arte contemporanea, tanto lontana dalla vera arte «come la pederastia dall’amore» (1942, X; un paragone che ricorre quattro volte), che coinvolge anche i suoi autori, trattati con ironia al vetriolo, godibile e amara («Gli artisti sono mossi esclusivamente dalla vanità. […] Non dico che non esistano eccezioni, ma si contano solo sulle dita… della mano che Cervantes perse a Lepanto» [1942, XVII]). Un vetriolo versato non solo sugli artisti (o pretesi tali), ma anche sulla classe politica spagnola, francese, tedesca e perfino italiana. Innumerevoli sono gli esempi. Riportiamo solo il giudizio su José Luis Arrese (che aveva sostituito Ramón Serrano Súñer a capo della Falange), incontrato da una delegazione di giornalisti al ritorno da un suo viaggio in Germania e richiesto di dare informazioni sulle fantomatiche “armi segrete”.

– Ve lo dirò, ve lo dirò, a condizione che non lo diciate a nessuno – accettò Arrese, dopo essersi fatto supplicare un po’ – Il Führer ha deciso di promuovere il generale von Paulus al rango di maresciallo. Come sicuramente saprete, nessun maresciallo tedesco si è mai arreso al nemico. Quindi la vittoria a Stalingrado è assicurata.

Mentre ascoltavo una simile idiozia, mi colse la nostalgia del cognatissimo che, oltre ad essere raffinato ed elegante, non aveva il cervello di un’ameba. Mi chiedevo se quel grassottello di Franco scegliesse simili elementi perché non gli facessero ombra e per poterli gestire a suo piacimento, o perché nascondesse una vocazione di collezionista di mostri allo stile di Picasso. [1943, II]

L’ironia cede però talvolta il passo a considerazioni profonde:

Più eroico era stato il contributo di Giménez Caballero a «La Gaceta Literaria», dove era riuscito a far collaborare sia comunisti che fascisti, in un matrimonio bizzarro (o forse non così tanto). [1943, VIII]

Il morbo liberale imprime il suo carattere fino alla morte, non importa quanto lo si rinneghi. È come il sacramento del battesimo, ma al contrario. [1943, IX]

Come accennato, il romanzo è pieno di riferimenti storici e letterari, che è un godimento scoprire a poco a poco (come nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, che però contiene molti in-jokes comprensibili solo alla ristretta cerchia degli amici dello scrittore, mentre qui sono citazioni alla portata di tutti – o almeno di tutti coloro che amino e vogliano dedicarsi alla lettura dei classici e di approfondire le biografie dei personaggi ritratti). Così avviene quando, dopo aver inutilmente cercato di affascinare l’esule Victoria Kent (1898-1987), già Direttrice Generale delle Prigioni sotto la Repubblica spagnola, affannosamente ricercata dalla Gestapo, spacciando per propria una citazione altrui, interrotto con sufficienza senza nemmeno essere riuscito a terminarla («So già quello che ha detto Pascal, la citano sempre negli almanacchi»), si sente rivolgere «una frase che mi diceva qualcosa, forse perché l’avevo letta anch’io negli almanacchi: “Quello che stai per fare, fallo subito”» [1944, IV].

In questo suo romanzo Juan Manuel de Prada sfoggia una eleganza di stile che rende emozionante il ritorno alla fruizione della letteratura “alta”, che affascina profondamente, nonostante la distanza tra la mole dei libri e la scarsità dell’azione (l’esatto contrario di quanto accade nella letteratura “bassa” o “di consumo”), perché l’autore sa trasmettere il piacere di leggere in sé, al di là dello svolgimento della vicenda narrata. Così, quando il volume termina, siamo presi da un senso di tristezza, dato più dalla fine della lettura in sé che dalla (amara) conclusione delle avventure di Navales, che (a differenza del romanzo “precedente” Le maschere dell’eroe) è riuscito con la sua trasformazione a conquistare la nostra simpatia, se non addirittura la nostra empatia.

E ci consola, quindi, la promessa di Juan Manuel de Prada di rivelarci le vicende vissute da Navales durante la guerra civile, compiendo la promessa posta al termine de La ciudad sin luz, prima di ammonire: «Ma, come abbiamo già detto in altre occasioni, non scriviamo per la generazione presente, bensì per coloro che sono già morti e per quelli che non sono ancora nati; tra i quali ovviamente conto te, amato lettore, mon semblable, mon frère».

Gianandrea de Antonellis

 

Juan Manuel de Prada, Mil ojos esconde la noche. La ciudad sin luz, Espasa, Madrid 2024, p. 800

Idem,  Mil ojos esconde la noche. Cárcel de tinieblas, Espasa, Madrid 2025, p. 848

Larticolo è apparso sul numero 22 (Autinno 2025) della rivista «Veritatis Diaconia», che ringraziamo per il permesso di riprodurlo.

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