La collaborazione tra D’Annunzio e Fortuny
Lo studioso Giovanni Isgrò ha definito la mancata collaborazione artistica tra Gabriele D’Annunzio e Mariano Fortuny (1871-1949) come un fatto negativo che «costituisce un grande vuoto nel panorama europeo» dell’evoluzione drammaturgica tra Ottocento e Novecento (1).
Il rapporto tra il Vate e il noto scenografo spagnolo trapiantato a Venezia, residente in Palazzo Pesaro degli Orfei, è stato ricostruito come scostante, probabilmente segnato da sottili gelosie e volontà di protagonismo, che hanno condotto – in pratica – al fallimento di un’alleanza che avrebbe potuto fare la storia del teatro.
L’incontro tra i due avvenne a Venezia alla fine dell’Ottocento, precisamente verso il 1894 (2), prima che, nel 1901, Fortuny si trasferisse a Parigi. Alfredo Sgroi osserva che, a quell’epoca, i due erano «Entrambi discepoli più o meno fedeli di Wagner, desiderosi di superare i confini di un teatro realistico nei toni e nei modi, inchiodato ai limiti di una scenotecnica che non ha ancora pienamente sfruttato tutte le potenzialità delle nuove scoperte scientifiche (la luce elettrica in primis), i due si incontrano con regolarità nella casa del pittore, frequentata anche da [Alfredo] Conti [1860-1930] e da Eleonora Duse» (3).
Negli anni successivi al 1895, D’Annunzio avviò il progetto del Teatro di festa e la stesura de Il Fuoco (poi pubblicato nel 1900), inoltre si cimentò nella composizione dei drammi La città morta (1896), Sogno di un mattino di primavera (1897), La Gioconda (1898) e Sogno d’un tramonto d’autunno (1898). Nelle sue indicazioni per i testi, il drammaturgo superò l’uso della semplice scena dipinta proponendo ambientazioni ricostruite tramite elementi plastici e l’impiego sapiente delle luci applicando al palco le novità tecniche dell’epoca. La sola pittura, a suo giudizio, rischiava di essere un elemento ingombrante e bisognava dare alla luce un ruolo attivo, principio, questo, che anticipò soluzioni sceniche destinate effettivamente ad affermarsi negli anni a successivi.
Nel 1896, quando compose La città morta, D’Annunzio (insoddisfatto da precedenti collaboratori) si rivolse a Fortuny, di cui era già buon amico, il quale produsse un progetto scenografico in cui l’idea della «pittura di luce» integra la scena dipinta. In una lettera del 27 novembre 1897, D’Annunzio inviò a Parigi un bozzetto di Fortuny per il primo atto dell’opera, corredato da delle osservazioni dello scenografo. In tale circostanza lo spagnolo espresse le sue perplessità sui problemi tecnici dell’impresa: soltanto nell’ultimo anno dell’Ottocento, ossia tre anni dopo la composizione de La città morta, Fortuny fece il primo esperimento sul quarto di sfera illuminato con luce riflessa e solo in anni successivi portò a termine la realizzazione della sua famosa cupola, la quale consentirà di abolire totalmente l’uso dei fondali dipinti (4).
Il Vate cercò ancora la collaborazione di Fortuny per Francesca da Rimini (1901), ma l’amico si limitò a realizzare dei bozzetti senza spedire tutti i modelli e le realizzazioni che D’Annunzio domandava. Secondo gli accordi, il “mago de Venecia” avrebbe dovuto occuparsi dei costumi e delle scenografie e la tragedia sarebbe stata interpretata da Eleonora Duse; l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata al teatro Olimpico di Vicenza, dove Fortuny si recò per un sopralluogo (5).
Il veneziano, allora, era troppo concentrato sui suoi primi esperimenti sulla cupola (invenzione che tempo dopo stupì anche il grande poeta). Eppure, nel suo lavoro con lo scenografo, D’Annunzio si mostrò ben disposto a collaborare, anche modificando le sue richieste; tuttavia il rapporto tra i due si arrestò così, all’inizio del nuovo secolo. Secondo Isgrò: «Su sollecitazione di d’Annunzio e di Eleonora Duse, il pittore prepara allora i bozzetti e alcuni modelli dei macchinari che avrebbero dovuto essere presenti sulla scena, come ad esempio il mangano del secondo atto. Ma a questo punto si innesca un equivoco: Fortuny pensa che i bozzetti e i modellini siano sufficienti, mentre d’Annunzio e la Duse si aspettano l’intero allestimento scenico e il pieno coinvolgimento dell’artista nella fase esecutiva. Invece, a pochi giorni dalla rappresentazione, il materiale di Fortuny è affidato a [Odoardo Antonio] Rovescalli [1864-1936], che alla fine cura l’allestimento scenico in modo del tutto autonomo» (6).
Sulla “rottura” definitiva non si hanno notizie precise, anche se sappiamo che tra i due personaggi rimase invariata la stima reciproca.
L’elemento della presenza di D’Annunzio e Fortuny a Venezia in contemporanea alla permanenza di Carlo VII al Loredan può stimolare la nostra fantasia, ma ogni riflessione credibile deve basarsi solo sui documenti e su dati certi. Ammesso e non concesso che mai si siano detti qualcosa riguardo il Carlismo, i possibili confronti ideologici e politici avvenuti tra i due geni, comunque, li dobbiamo cercare nel loro carteggio. Ma di questo scriveremo nel prossimo articolo.
Riccardo Pasqualin
Note
(1) Giovanni Isgrò, La mancata collaborazione D’Annunzio/Fortuny, in La scena di Mariano Fortuny, Atti del Convegno internazionale di Studi Padova-Venezia, 21-23 novembre 2013, Bulzoni, Roma 2016, p. 179.
(2) Alfredo Sgroi, Ut pictura poesis. D’Annunzio, Fortuny e la scena totale, in «Archivio d’Annunzio», Vol. 5, ottobre 2016, p. 97. Per brevi note sulla permanenza in Laguna di Fortuny cfr. il nostro Venezia Ispanica. Spunti per un itinerario turistico, Seconda edizione aumentata, Club Autori Indipendenti, Castellammare di Stabia 2024, pp. 135-36.
(3) A. Sgroi, op. cit., p. 100.
(4) G. Isgrò, op. cit., pp. 183-184.
(5) Ilaria Caloi, Modernità minoica. L’arte egea e l’art nouveau: il caso di Mariano Fortuny y Madrazo, Firenze University Press, Firenze, 2011, p. 63.
(6) G. Isgrò, op. cit., p. 105.
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