sabato 12 agosto 2023

D.H. Lawrence e il neopaganesimo in Ispanoamerica

 

David Herbert Lawrence (1885-1930) è senza dubbio annoverabile tra gli scrittori rivoluzionari, le sue opere hanno fatto scandalo, eppure leggerle con discernimento – come dei documenti – può dirci molto di utile sul suo tempo e sul nostro.

Nei libri di Lawrence aleggia una domanda: che ne sarà del mondo moderno? Cosa gli succederà?

Il romanzo di cui in questa occasione vogliamo trattare è Il serpente piumato, pubblicato nel 1926, e iniziato sicuramente dopo il 23 marzo 1923, data del trasferimento dell’autore in Messico, dove è ambientata la trama.

La storia ha luogo ai tempi della rivoluzione, prima del 1928, anno in cui si placarono le tensioni con gli Stati Uniti sorte a seguito della nazionalizzazione delle miniere e delle misure contro le compagnie petrolifere statunitensi, che condussero alla modifica della legge sui petroli. Nel 1926 l’epopea dei cristeros era ai suoi esordi e i giudizi di Lawrence rendono bene l’idea delle opinioni di un anglosassone sui messicani, ritratti come un popolo ora fiacco e miserabile, incapace di migliorare la sua condizione, ora rabbioso e pronto ad accendersi come una miccia: «arrogante plebaglia. Quello era il Popolo, e ogni rivoluzione era stata la sua rivoluzione, e le aveva vinte una dopo l’altra» (1). Ogni tradizionalista sa che quelle rivoluzioni furono in realtà fatte contro il popolo e che le vittorie della rivoluzione furono delle sconfitte per il popolo, ma occorre leggere il testo fino in fondo.

Il romanziere inglese interpreta la cultura messicana come tanatocentrica, assetata di morte: «Quando un messicano grida Viva! Finisce sempre poi con Muera! Dicendo Viva!, in realtà vuol dire Muoia il tale o il talaltro! Sto pensando a tutte le rivoluzioni messicane e mi appare uno scheletro che cammina alla testa di una grande massa di gente, sventolando una bandiera nera su cui è scritto Viva la Muerte! A grandi lettere bianche. Viva la morte! Non Viva Cristo Rey ma Viva Muerte Rey! Vamos! Viva!» (2). Lo spettro della nuova rivoluzione messicana era il socialismo: «Vogliono trasformare il paese in un gigantesco delitto. Tutto questo gli piace. Non amano l’onestà, la dignità, la pulizia. Alimentano delitto e menzogna. La loro libertà è quella di commettere crimini. Così la interpretano i socialisti, e tutti. La libertà del delitto, null’altro» (3).

Tuttavia: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto...” recita un aforisma attribuito a Chesterton, e nel suo Messico immaginario Lawrence introdusse una sanguinaria ondata di neopaganesimo: il ritorno del culto di Quetzalcoatl. Descrivendo la persecuzione dei cristiani, il romanziere precorse la realtà: «Montes dichiarò illegale la Chiesa Cattolica nel Messico, e promulgò una legge che proclamava religione nazionale della Repubblica quella di Quetzalcoatl. Tutte le chiese furono chiuse, i preti furono costretti a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, se volevano evitare l’esilio» (4), davanti a questo passaggio il traduttore italiano Walter Mauro (1925-2012) non poté fare a meno di riconoscere che «Qui Lawrence anticipa con molta precisione accadimenti che si sarebbero verificati di lì a poco» (5).

Un personaggio ipotizza che, con tutta probabilità, il neopaganesimo sia una trovata dei socialisti (6): «un’altra storiella dei bolscevichi. Hanno stabilito che al socialismo veniva utile un dio, e hanno cominciato a pescarlo nel lago. Sarà un’esca per gli sciocchi, alla prossima rivoluzione» (7). Ma dietro al socialismo e dietro al neopaganesimo ci sono sempre e comunque gli interessi degli Stati Uniti, che vogliono distruggere «il vecchio Messico coloniale [sic] ed ecclesiastico» (8), poiché sanno che il Cattolicesimo è un ostacolo alla conquista dell’intero paese con tutte le sue risorse.

Il libro ben traspone i punti di vista dei liberal-protestanti gringos: in particolare la convinzione che l’influenza ispano-cattolica abbia infiacchito lo spirito messicano e che i messicani, a tanti anni di distanza dalla separazione dalla Spagna, siano cronicamente incapaci di svilupparsi e di darsi un’ordine. Ne consegue il più orrendo dei deliri: la tesi “decolonialista” secondo la quale il Messico potrebbe rinascere venendo epurato dai “non-nativi” (evidentemente colpevoli di vivere in Messico “solo” da quattro secoli) e inventando di sana pianta un nuovo paganesimo criminale. «Gli orrori aztechi! Perché no? Forse, tutto sommato, non erano poi tanto orribili» (9), queste sembrano proprio le parole di un progressista dei nostri giorni, ne abbiamo tanti così anche in Italia: si definiscono atei, o agnostici, ma in realtà sono solo anticattolici, convinti che tutte le altre religioni siano automaticamente sante e non meritevoli di essere criticate... compresi i culti più orribili.

A un certo punto ne Il serpente piumato i sacrifici umani iniziano davvero: «I prigionieri, grigi di cenere, aspettavano con i neri occhi spalancati, carichi di lampi. Non si udiva un suono venire fuori dalle loro bocche. Dietro ognuno di loro una guardia. Cipriano fece un cenno. Le guardie afferrarono con un panno grigio le gole delle due vittime, e trascinandole indietro con un brusco colpo gli spezzarono il collo» (10).

Esistono tre tipi di neopagani: quelli che vivono in un mondo di fantasia e negano (anche davanti a prove storiche inconfutabili) le crudeli usanze dei popoli pre-colombiani, quelli che per ignoranza non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza dei sacrifici umani e infine quelli che sono pienamente a conoscenza di queste oscenità e ne sono addirittura attratti, tanto che sognano di replicarle. I primi e i secondi, gli ignoranti, fanno il gioco dei terzi e lo possiamo costatare quando lodano l’immondo idolo della Pachamama, che in realtà era una tremenda divinità inca assetata del sangue dei bambini dei popoli sottomessi dall’impero e legata a un brutale rituale, il capacocha, in cui erano sacrificate vittime la cui età variava dai 6 ai 13 anni. Chi conosce questa macabra usanza non può stupirsi del fatto che interi popoli si siano ribellati agli incas giurando fedeltà agli spagnoli (11).

Un’altra osservazione importante da fare è ribadire che la pseudotradizione degli aztechisti (neopagani) è un’invenzione: essi estendono forzatamente la cultura azteca all’intero territorio dell’attuale Repubblica Messicana, quando in verità l’impero azteco non ne coprì che una porzione ridotta (vedasi la mappa). A Città del Messico, nel Museo Nazionale di Antropologia, si conserva una scultura in pietra realizzata dai maya che mostra una testa umana uscente dalle fauci di un serpente, interpretata da alcuni studiosi come una versione maya del serpente piumato (12), ma al di là di ciò neppure questo simbolo, scelto da Lawrence per il titolo del suo romanzo, può considerarsi un aspetto unificante per tutto il Messico precolombiano.

Per la diffusione del neopaganesimo antiispanico i gringos si sono trovati la strada spianata: era già stata aperta dalla propaganda protestante e da quella illuminista, dai nazionalismi fomentati dalla massoneria contro gli Spagnoli, i film statunitensi sui “buoni aztechi” sono solo l’ultimo anello di una lunga catena. Per la massoneria e i progressisti a stelle e strisce il neopaganesimo è un’arma importante per soggiogare il Messico e l’intera America Ispanica: con un colpo solo queste teorie gli permettono di attaccare contemporaneamente l’Ispanità e il Cattolicesimo, elementi fondanti di quell’unità culturale, che se tornasse a essere un’unità politica porrebbe fine all’egemonia di Washington sul continente.

Lawrence scrisse: «nel mondo ci sono solo due grandi specie di epidemie: il bolscevismo e l’americanismo; e quella dell’americanismo è decisamente la peggiore, perché il bolscevismo vi distrugge la casa, gli affari, se volete il cervello; l’americanismo vi mangia l’anima» (13). Ciò è vero per il Messico di allora, una riflessione lucida, ma lo è ancora di più oggi e lo è anche per il continente europeo a 34 anni dalla caduta del muro di Berlino.     

Riccardo Pasqualin

Note 

1) Lawrence, Il serpente piumato, Newton, Roma 1995, p. 22.

2) Ivi, p. 46.

3) Ivi, p. 44.

4) Ivi, p. 329. 

5) Ivi, p. 329, n. 113.

6) Anche oggi parlando delle Americhe gli ultimi marxisti putrefatti amano paganeggiare, riguardo gli incas, ad esempio, essi sono convinti che l’ayllu (la cellula sociale superiore alla famiglia) fosse uno “stato socialista incaico”, ma «In realtà non di questo si trattava, bensì di una struttura gerarchizzata, dei cui vantaggi godeva solo l’oligarchia. La società del Tahuantinsuyu non era egualitaria» (Francesco Ricciu, Civiltà degli Inca, DeAgostini, Novara, 1981, p. 5).   

7) Lawrence, op. cit., pp. 95-96.

8) Ivi, p. 72.

9) Ivi, p. 63.

10) Ivi, p. 297.

11) «Non pochi hanno sostenuto che la fine del Tahuantinsuyu [la monarchia incaica] si ebbe perché gli Inca erano convinti di avere di fronte uomini inviati da Viracocha e da questo investiti della missione della conquista. Tuttavia è un’ipotesi che non regge al vaglio del realismo storico.» (p. 13), in verità Pizarro arrivò trovando condizioni favorevolissime alla sua avanzata: innanzitutto la guerra civile tra Huáscar e Atahuallpa, vicenda che aveva spinto numerose genti sottomesse a ribellarsi e a unirsi agli spagnoli. «In ogni modo la disintegrazione del Tahuantinsuyu dopo la morte di Atahuallpa rivela la debolezza organica della struttura incaica […], non seppe attuare una politica d’assimilazione, che rendesse tutti i popoli inclusi nell’impero partecipi convinti del suo divenire» (F. Ricciu, op. cit., p. 13).

12) Mario Sartor, Yucatán, civiltà maya, DeAgostini, Novara 1981, p. 35.

13) Lawrence, op. cit., p. 49.

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