giovedì 23 marzo 2017

Ernesto il disingannato, un romanzo carlista

Lo Trovatore, Ernesto il disingannato, a cura di Gianandrea de Antonellis, D’Amico Editore, Nocera Superiore 2016, p. 220, € 15


Il giornale Lo Trovatore (nato come Lu Trovatore e poi divenuto prima Lo e poi Il Trovatore, con un mutamento di articolo che seguiva una ben precisa linea editoriale) vide la luce nel 1866 come pubblicazione satirica, nella (delusa)  speranza di poter criticare il governo sabaudo evitando gli strali della censura, che invece non mancarono. Caratterizzandosi, nel corso degli anni, in maniera sempre più esplicitamente cattolica e legittimista, mutuò dalla rivista dei Gesuiti «La Civiltà cattolica» l’idea di pubblicare in ogni numero un romanzo “morale”. Così, tra il 1873 ed il 1874 dette alle stampe Il passato e il presente ovvero Ernesto il disingannato, il primo romanzo “borbonico” italiano.


La trama inizia nel 1858 e segue le vicende di Ernesto, un giovane perbene ma in gravi ristrettezze finanziarie, cui viene offerto un impiego da parte di una società affiliata alla massoneria: egli lavorerà a lungo come agente filo-unitario per preparare il terreno affinché l’invasione garibaldina, anziché essere gettata immediatamente a mare dall’esercito napoletano, divenga la nota passeggiata che farà cadere in pochi mesi il più antico Regno italiano. Ernesto agisce in buona fede per gli ideali di “unità e libertà” che ha sentito propalare dal Quarantotto in poi, rimanendo però invischiato in una serie di truffe, corruzioni e ruberie; essendo comunque un giovane cristianamente educato, quando si rende conto che alle belle parole di “unità e libertà” non corrispondono i fatti, ma che tutti i “martiri” della rivoluzione italiana vogliono in realtà solamente arricchirsi a spese dei “fratelli” che hanno contribuito a “liberare”, decide di accusare quelli che crede i pochi elementi traditori. Si ritrova però subito di fronte alla “consorteria”, cioè all’unione dei camorristi e dei liberali, che ha preso il potere e non intende rinunciarvi. Ernesto denuncia quindi le ruberie, ma viene zittito ed anzi a sua volta ingiustamente incriminato, finendo in carcere e disingannandosi completamente rispetto alle aspettative preunitarie.
A tale aperto j’accuse! sulla situazione amministrativa post-unitaria, nella seconda parte del romanzo si aggiunge una visione politica – anzi, politologica – che va molto al di là dei confini duosiciliani: la restaurazione del Re legittimo deve essere soprattutto lotta alla rivoluzione, non semplice restituzione del Trono al Re scacciato. Ecco perché i legittimisti di tutta Europa si devono riunire sotto le bandiere di Carlo VII di Spagna, il pretendente al trono carlista, perché dalla sua vittoria dipenderanno il ritorno in Francia di Enrico V e a Napoli di Francesco II.
Il romanzo fu pensato come arma per la battaglia culturale: come accennato, il giornale Lo Trovatore aveva una impostazione molto vicina a quella della rivista «La Civiltà cattolica», con le notizie di politica nazionale ed internazionale, i commenti in vernacolo – scherzosi, ma non troppo – e il romanzo di appendice, solitamente di argomento sociale (sullo stile di Mastriani) o direttamente politico, come le due parti di Ernesto. I redattori – tra le mille difficoltà imposte loro dalla censura sabauda e che si riflettono nei numerosi errori di stampa, dovuti alla fretta nel comporre e nello stampare prima che arrivasse il sempre incombente sequestro del foglio di opposizione – avevano però ben chiaro il ruolo della letteratura nella battaglia politica: lungi dall’essere un semplice intrattenimento, era un mezzo fondamentale per convincere il maggior numero di lettori, in ogni tempo sicuramente più attratti da un romanzo (o da un’opera teatrale, lirica o, in anni più recenti, cinematografica) che non da un “fondo” di analisi politica.
Chi ne fu l’autore? È arduo dirlo: forse si può pensare all’opera di più mani e, in particolare, a quelle dell’editore-direttore Pasquale Tomas, che affrontava coraggiosamente i continui attacchi della censura (pagando anche con il carcere) e che era subentrato alla guida del giornale a “Don Saverio” (al secolo Giovanni Gagliardi [1837-1908], prolifico autore dialettale) nel marzo 1869, dopo una carcerazione preventiva di ben 32 giorni! Di Tomas, “tipografo-editore” che aveva la propria amministrazione al Largo del Mercatello (odierna piazza Dante), non si hanno molte notizie: di certo, dopo il suo passaggio da semplice proprietario a direttore responsabile della testata, il Trovatore non solo cambiò la lingua del proprio articolo determinativo (da Lo a Il), ma con essa anche l’impostazione generale, divenendo apertamente un giornale di lotta politica legittimista. Scrive Gianandrea de Antonellis nell’in­tro­duzione: «Il passaggio dal dialetto alla lingua (pur mantenendo fino al settembre 1877, due mesi prima della chiusura, una rubrica dialettale, la dialogica Chiacchiarata dint’a lo Cafè dell’Al­le­gria) fu dovuto all’intento di dare maggior peso culturale al giornale, che altrimenti poteva essere creduto “un giornale da buffoni, o per lo meno una gazzetta teatrale”» (p. VI). Parimenti il sottotitolo passò da “Giornale spassatiempo” a “Giornale politico pel popolo”. Il Trovatore si definiva apertamente “legittimista”, “cattolico”, “borbonico” e un suo memorabile editoriale (4 gennaio 1873) si chiudeva traducendo fedelmente il motto carlista «Dios, Patria, Fueros, Rey»: «Quindi riepilogando diciamo, che noi saremo la vigile sentinella del popolo napolitano, propugneremo la integrità della Fede de’ nostri padri, e saremo apostoli della verità, sfolgorando la menzogna, sinanche detta da grandi o da re: borbonici legittimisti per convinzione e per principi, propugneremo anche a costo di qualsiasi sacrificio il dritto della legittimità. In una parola, sulla nostra bandiera è scritto: Per Dio, per la Patria, per la Giustizia e pel Diritto legittimo!!!» (p. XXII).
Nel 1873 il giornale (usciva – quando non era sequestrato – tre volte alla settimana) iniziò la pubblicazione del romanzo a puntate Ernesto il disingannato: come nelle intenzioni si trattava di uno scritto popolare, che apprezzava i colpi di scena e andava alla ricerca di emozioni forti, che badava più alla sostanza che all’eleganza della forma.
Ciononostante, pur non essendo un capolavoro letterario, come detto Ernesto ha il primato di essere il primo romanzo “borbonico” della letteratura italiana, il primo romanzo carlista italiano e, in fin dei conti, un buon romanzo cattolico, che risente delle influenza dell’Ebreo di Verona di padre Antonio Bresciani (la vicenda seguita dal punto di vista del liberale pentito; l’ingombrante presenza della “setta”; il fosco personaggio della contessa Erminia, agente della setta, che richiama la spietata Babette d’Interlaken, «la Gran Vergine del comunismo elvetico») e che, nella sua ingenuità, ha comunque il pregio di farsi leggere tutto di un fiato e di ribadire alcuni imprescindibili valori della politica cristiana.
Ernesto il disingannato dunque non costituisce la semplice riscoperta di un testo finora completamente obliato (nelle biblioteche pubbliche non rimane più alcuna copia dell’edizione in volu­me stampata dallo stesso Tomas al termine della pubblicazione sul giornale): è anche un monito ad ampliare, al di là di ogni singolo nazionalismo, la visione della Restaurazione di una monarchia cattolica che sui principi del Carlismo ponga le basi imprescindibili per una nuova società cristiana.
Il romanzo, fortunosamente ritrovato dall’editore Vincenzo D’Amico e pubblicato a cura di Gianandrea de Antonellis (che ne ha curato la trascrizione e l’introduzione) è arricchito dalla prefazione di S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone, dalla post-fazione di Francesco Maurizio di Giovine, che sintetizza quasi due secoli di vicende del Carlismo, e da una serie di documenti inediti, tra cui una lettera-manifesto di Carlo VII e uno scritto programmatico di Francisco Elías de Tejada.
È quindi un ottimo strumento per portare a conoscenza del pubblico italiano l’ideologia carlista, che – forse non è inutile ricordarlo – si caratterizza non per mere questioni dinastiche (i discendenti di Don Carlos contro quelli di Isabella II), bensì perché contrappone la Monarchia tradizionale e cattolica a quella moderna di stampo liberale, di fatto anticristiana (pensiamo soltanto alla deriva omosessualista che si è avuta in Spagna durante la recente legislatura a guida socialista, deriva per nulla combattuta, anzi pienamente accettata, da quella che è stata acutamente definita una “Repubblica coronata”, anziché una vera e propria “Monarchia” sia durante il governo Zapatero che durante quello del suo successore del Partito Popolare).
Il romanzo e gli scritti che lo accompagnano costituiscono dunque un valido e sintetico manualetto di politica cristiana.
Luigi Vinciguerra


1 commento:

  1. Bene!! Bella iniziativa pubblicare questi racconti edificanti.
    Proseguite nella vostra buona battaglia.
    Salvatore Rebecchini.

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