Per quanto Camponogara sia compresa nell’attuale provincia di Venezia, fa parte della Diocesi di Padova e non è fuori luogo congetturare che i sacerdoti presenti nella zona, provenendo dal Seminario patavino, avessero ancora presente il ricordo dei professori ottocenteschi minacciati e aggrediti dai sostenitori della monarchia sabauda. Forse nel cuore di alcuni nemmeno il 1929 riuscì a sanare del tutto la vecchia ferita, o forse si trattò di semplice conformismo e del desiderio di “tirare avanti” oltre le turbolenze in attesa di tempi migliori (problema antico del clero italico).
Data l’atmosfera della giornata, ho ritenuto opportuno restare a casa e rileggere un vecchio libro: Valore eterno della Monarchia di Luigi Athos Sottile d’Alfano, pubblicato dalla casa editrice La Mediterranea di Napoli nel 1950.
L’autore (classe 1913) era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto e non può essere annoverato tra quei monarchici italiani che posero le basi per la transizione (o il ritorno) verso un legittimismo integrale, preparando il terreno per l’apostolato di Francisco Elías de Tejada presso i giovani meridionali. Tuttavia il volume resta un documento della sua epoca e gli va riconosciuto che più di un passaggio è ricco di spunti interessanti, soprattutto perché trovare libri che affrontassero certe tematiche nell’Italia del secondo dopoguerra non era impresa facile.
Come tradizionalisti ci lascia perplessi il fatto che Vittorio Emanuele II sia definito «figura fulgida», ma si può concordare sulle osservazioni riguardanti Carlo Alberto e il momento storico in cui «la rivoluzione popolare si fa militare e regia», incontestabile infine l’accenno alla campagna d’odio che fu imbastita contro Umberto II.
L’autore aveva una formazione storica invidiabile e una certa arguzia nell’argomentare, elementi che, in più punti della trattazione, permettono al suo pensiero di librarsi oltre l’orizzonte ristretto del pamphlet antirepubblicano. Si nota qualche critica all’egemonia degli Stati Uniti, ma le categorie dell’autoidentificazione (il cosiddetto “Occidente” e la cosiddetta “razza bianca”) restano quelle fissate nell’epoca del positivismo: «il Continente Americano è oggi un continente appartenente alla nostra civiltà» scrive il siciliano, «alla civiltà occidentale-cristiana, alla razza bianca, la più intraprendente ed attiva razza del mondo, e questo è il risultato di quella opera, di quelle fatiche, efficienti anche se bruttate da errori».
Forse per il retaggio dell’autonomismo siculo (antiborbonico), o a causa di quello della cultura antispagnola dell’Italia liberale, la sua difesa della monarchia ispanica è poco convinta: «Le repubbliche americane? Esaminiamole serenamente: innanzi tutto anche qui ci troviamo di fronte ad una constatazione che sfugge ai più: durante la cosiddetta epoca coloniale quei paesi erano dei vasti vicereami [sic]; erano monarchie cioè, che sfruttavano, sia pure, dato concetto di conquista, di conversione degli “indios” e di colonizzazione ad esclusivo tornaconto dei colonizzatori, ma che educavano anche al senso dello Stato, che preparavano, costituivano lo Stato.
Sul modello europeo, non del tutto adatto a quei climi e a quelle genti, ma pur costruivano, sagomando alla grossa, ma elevando qualche cosa che dura ancora.
Del resto, delle crudeltà contro gli indigeni, erano veramente colpevoli i lontani (pensate ai mezzi di trasporto d’allora) Monarchi europei? O non piuttosto gli avventurieri, i conquistadores provenienti da tutte le classi, le popolari soprattutto?
Perfino il cosiddetto “bieco” Filippo II di Spagna scriveva ed ordinava che si rispettassero gli “indios” ed emanava leggi a loro protezione.»
In realtà secondo gli studi dell’ispanista statunitense Earl J. Hamilton (1899-1989), raccolti nel suo saggio American Treasure and the Price Revolution in Spain. 1501-1650 (1934), che analizzano la quantità d’oro e d’argento estratta dagli spagnoli durante l’epoca dei Regni americani e il suo impatto sull’economia europea, in particolare sull’inflazione in Spagna, non è possibile parlare di razzia. Hamilton (uno dei fondatori della storia economica come disciplina) sostiene che, secondo i dati tratti dai rapporti e dai documenti contabili dei funzionari della Corona spagnola, la Spagna estrasse nel XVI e XVII secolo circa 16.900 tonnellate d’argento e 181 tonnellate d’oro. Ma se consideriamo che solo nel 2014 il Messico ha prodotto 110,4 tonnellate d’oro, e aggiungiamo la produzione del resto dell’Ispanoamerica, risulta che il presunto “saccheggio” dell’oro dalle Americhe equivale alla produzione attuale di un solo anno. E, per quanto riguarda l’argento, Messico, Perù, Cile, Bolivia, Argentina, Guatemala e Repubblica Dominicana hanno prodotto insieme, nel 2014, oltre 13.300 tonnellate d’argento. Il che significa che solo pochi anni della produzione attuale superano i 300 anni dell’epoca imperiale, e che evidentemente i problemi del presente non sono imputabili a un governo cessato da tempo.
D’altro canto, la Spagna importò in America piante e animali utili al miglioramento delle condizioni di vita nel continente e istituzioni che portarono ad un’elevazione culturale importante.
Solo quarantasei anni dopo la scoperta dell’America, il 28 ottobre 1538, la Spagna fondò la prima università del Nuovo Mondo: il centro universitario di Santo Tomás de Aquino, a Santo Domingo, ossia la prima di quella trentina di università che gli spagnoli costruirono nelle Americhe.
La Monarchia ispanica creò, fino al XIX secolo, tra venticinque e trenta università (a seconda della data considerata) e sedici collegi maggiori, oltre a innumerevoli scuole. Nessun impero coloniale può essere paragonato alla Monarchia ispanica per numero di università fondate durante il proprio dominio. E a queste università accedevano sacerdoti, funzionari dell’amministrazione, figli di spagnoli, ma anche creoli e indigeni.
I nativi, che fino a prima dell’arrivo degli spagnoli non conoscevano la ruota, arrivarono in poco tempo ad accedere ad una quantità enorme di nuove conoscenze tecnologiche di ogni genere.
Sicuramente valida è l’intuizione di Sottile d’Alfano sulla differenza profonda che separa le vecchie monarchie assolute dai totalitarismi novecenteschi, che egli trasse probabilmente da Juan Vázquez de Mella: «qualcuno parla di Stalin come d’un Monarca; errore, madornale errore, dovuto alla grossolanità di giudizio che oggi infesta il campo politico, al quale sono chiamati troppi impreparati.
Stalin, Tito, Franco non sono dei Monarchi, pur se dispongono di poteri di gran lunga maggiori, e più estesi e più facilmente funzionanti, anche a grandi distanze, di quelli d’un Re assoluto dei secoli XVI-XVIII; essi sono dei dittatori, semplicemente dei dittatori, nati da guerre civili o da votazioni addomesticate.
Non possono essere Monarchi perché mancano loro due insostituibili, non surrogabili: la tradizione e la legittimità; cose che nascono, a loro volta, da un fattore che non è coltivabile a volontà, come lo è il consenso genuino dei popoli, un fattore naturale: il tempo.
Dei dittatori hanno l’improvvisazione, la fondamentale illegittimità – non fosse altro perché l’istituto della dittatura, d’un potere cioè illimitato nell’intensità, è limitato, per sua natura, nel tempo, mentre essi vogliono farlo durare il più a lungo possibile – donde la violenza, la paura e la conseguente ferocia – ; dei dittatori hanno la precarietà, e l’ansia di strafare che, presto o tardi li porterà a mal fare.
Altro discorso è se i loro successori diverranno dei Monarchi; ciò è possibilissimo, e le dittature signorili del Basso Medio Evo, trasformatesi, in parte, in legittimi Principati sono un eloquente esempio.»
Nel libro, poi, è affrontata velocemente anche la questione delle antiche repubbliche di Genova e di Venezia (aspetto mancante ne La monarchia tradizionale di Elías de Tejada), che per la loro natura aristocratica vengono comprese – almeno in parte – nel modello di civiltà monarchico basato sulla famiglia, sull’eredità e sul senso del dovere nei confronti della comunità.
Abbiamo già sottolineato le buone capacità comunicative dello scrittore, il paragone che propone tra il referendum del 1946, certe elezioni pilotate e i concorsi di bellezza truccati ci fa sorridere, ci divertono meno altre sue parole, tornate d’attualità: «La guerra… Ecco una delle accuse che la propaganda spicciola repubblicana ha sempre mosso contro le Monarchie; anche nella campagna elettorale per il Referendum e la Costituente in Italia, svoltasi nell’infausto 1946, abbiamo sentito riecheggiare questo vieto ed abusato motivo: Monarchia vuol dire guerra…»
Anche oggi il capo di stato italiano ha usato parole simili, in un contesto di ordinaria ripetizione di vecchiume ideologico glielo si potrebbe anche perdonare, ma non in giorni come questi, in cui il mondo – compresa la “nostra” repubblichetta – pare sull’orlo di un conflitto colossale.
Ristampare un libro come Valore eterno della Monarchia è un progetto che non c’interessa, ma ad esso va riconosciuta la validità di alcuni elementi e in fondo dello schema della sua impostazione generale, che costituisce una struttura efficace.
Riccardo Pasqualin
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